sabato 26 marzo 2016

Alastair Crooke - Il ritiro russo dalla Siria non è un vero ritiro



Traduzione da Huffington Post.

Annunciando un ritiro parziale della Siria il presidente russo Vladimir Putin ha colto di sorpresa praticamente tutti. Ma c'è poco da meravigliarsi: le forze della coalizione siriana hanno il vento in poppa e negli ultimi tempi hanno guadagnato terreno in qualche caso addirittura senza combattere. Pat Lang, ex funzionario dei servizi della difesa satatunitensi, ha detto che il cosiddetto Stato Islamico sembra stia "collassando in Siria ed in Iraq. Stanno deperendo perché il denaro è finito adesso che i raid aerei statunitensi e della coalizione guidata dai russi colpiscono l'esportazione di greggio attraverso la Turchia e che dalle stesse vie non arrivano più uomini e materiali".
Solo a questo punto, in condizioni nettamente favorevoli, Putin ordina un ridimensionamento. Eppure, sul terreno non tutto è deciso. Aleppo rimane nel proprio limbo, in parte circondata da forze jihadiste a loro volta circondate da forze della coalizione che fa capo al governo siriano e prive di vie di approvvigionamento. La zona fertile della Siria che sta ad ovest di un'ipotetica linea compresa tra Aleppo a nord e Daraa a sud deve ancora essere messa in sicurezza. La parte orientale del paese, per lo più desertica, resta ancora in buona parte in mano allo Stato Islamico. E la Turchia continua a non rispettare la sovranità siriana, colpendo le zone di confine con la propria artiglieria. Per quale motivo la Russia ha iniziato proprio adesso a ritirare parte delle proprie forze, quando resta ancora così tanto da fare? Cosa può significare questo per il futuro della Siria?
Intanto, questo è un ritiro parziale che al tempo stesso non è un ritiro vero e proprio: dipende da come lo si considera. Gli aerei russi destinati a rimanere in Siria e dunque non compresi nell'operazione stanno ancora sostenendo attivamente sul terreno le forze della coalizione attaccando le formazioni che non fanno parte degli accordi sul cessate il fuoco, sostanzialmente Jabhat an Nusra e lo Stato Islamico. Un giornalista militare russo ha detto a Radio Free Europe che "la flotta rimane, i sistemi antiaerei rimangono, i carri armati rimangono, i marines rimangono tutti, rimangono gli elicotteri e rimarranno anche alcuni degli aerei. Rientra solo parte della flotta aerea con il personale di supporto, che può comunque ritornare in Siria in tre o quattro ore."
In effetti sembra proprio che questo ritiro parziale sia coinciso con una rotazione già programmata di aerei e materiali, necessaria per gli interventi di manutenzione che servono dopo un intenso periodo di operazioni. Il ritiro di Putin è più che altro un avvicendamento, un cambio di passo fatto apposta per incistarsi nel corso degli avvenimenti politici per far deragliare gli eventi e imporre loro una direzione differente. Sembra che Putin ci sia riuscito; a breve è previsto a Mosca un suo incontro con il Segretario di Stato John Kerry.
Può venir fuori in realtà che l'intenzione di Putin non era certo quella di dare il via ad una tornata di negoziati fra le varie parti in causa in Siria, ma quella di mettere Washington all'angolo per costringere l'amministrazione Obama a collaborare sul serio con la Russia invece di rimanersene in disparte a canticchiare il ritornello di una Russia destinata ad impantanarsi in un doloroso fallimento. Detto questo, il catalizzare il processo politico siriano in un modo o nell'altro è comunque un obiettivo secondario ma considerevole. Fin dall'inizio Putin ha detto che l'intervento militare russo aveva obiettivi limitati ed era inteso per servire a "creare le condizioni per un compromesso politico".
Non c'è dubbio che il ritiro -o l'avvicendamento- di Putin abbia stimolato la situazione politica in vari modi. Ha messo sotto pressione sia Damasco che i gruppi dell'opposizione che partecipano ai colloqui di Ginevra, nel timore che gli aerei russi per un motivo o per l'altro siano tutti destinati a rientrare. Più che altro addossa agli USA la magagna di far smettere i propri alleati (Turchia, Arabia Saudita e Qatar) di armare e finanziare le loro pedine in questa guerra. Ma gli USA possono in qualche modo imporsi ai propri alleati? La Turchia in particolare rappresenta un problema, perché è probabile che per rimanere al potere il suo presidente Recep Tayyip Erdogan abbia bisogno che il conflitto in Siria continui.
In breve, uno degli effetti concreti del ritiro potrebbe essere rappresentato da una brusca spinta dei negoziati verso i piani alti, facendoli passare dai sostanzialmente esautorati partecipanti ai colloqui di Ginevra agli attori esterni che li sostengono e li finanziano. 
Non è la prima volta che Putin usa un ritiro militare per cercare di rianimare una scena politica arrivata a un punto morto. Si ricorderà che in attesa degli accordi di Minsk sull'Ucraina la Russia interruppe temporaneamente il flusso di aiuti militari per le milizie del Donbass, per responsabilizzare i miliziani e forse per impedir loro di coltivare ambizioni che sul piano militare si sarebbero rivelate fuori misura.
Esiste un filo che accomuna i conflitti in Ucraina e in Siria, e che è la preoccupazione dei russi di deviare il percorso di qualsiasi dinamica occidentale o della NATO che possa portare ad un confronto diretto con la Russia. Una delle principali priorità di Putin quando ha lanciato la propria versione di guerra al terrorismo era proprio quella di arrivare ad una qualche collaborazione da pari a pari con gli USA, che facesse da base per una riconsiderazione complessiva della relazione tra le due potenze.
Il ritiro dalla Siria fa della Russia un paese che sta cercando una credibile soluzione politica al problema. Potrebbe attenuare la determinazione degli europei nel mantenere le sanzioni contro la Russia. Potrebbe anche migliorare la posizione della Russia agli occhi del successore di Obama alla Casa Bianca: un'AmeriKKKa che si sentisse umiliata in Siria dai russi e dal valore militare dei suoi alleati è meno probabile sia disposta a prartecipare ad una rifondazione dei rapporti e anzi più probabile sia propensa al contrario.
A parte la questione della reazione statunitense, esiste un altro interrogativo senza risposta: cosa vuole Putin da Assad? In Ucraina la Russia cercava un federalismo ampio, ma questo non è un caso proponibile in Siria. Le cosiddette minoranze in Siria non hanno mai avuto la parte delle vittime, tutt'altro. I curdi non sono mai stati minacciati come è successo e come continua a succedere in Turchia. I sunniti non erano tenuti ai margini: a tutt'oggi costituiscono la maggioranza dell'esercito siriano e sono sempre stati importanti nel mondo degli affari Inoltre la Siria non era mai stata un paese settario, fino a quando, negli ultimi tempi, l'imperversare di varie forme di wahabismo non ha effettivamente portato a un modo settario di intendere la politica. La Siria ha un'identità definita, ed è l'identità di una nazione antica ed orgogliosa.
La Russia davvero intende assistere alla nascita di un governo centrale indebolito e dalle basi inconsistenti? Probabilmente no. Difficile si arrivi alla vittoria contro lo jihadismo radicale grazie a qualche accordo ginevrino; la guerra andrà avanti. E l'Iran, che della Russia è alleato, vorrebbe senz'altro veder nascere una Siria forte. Forse anche gli USA riconoscerebbero un qualche merito ad una Siria forte, in un'epoca in cui i costrutti statali stanno patendo la consunzione ovunque in Medio Oriente, e lasciando il posto ad una diffusa insicurezza. Ma come arrivare a questo obiettivo?
I russi hanno più volte affermato che deve essere il popolo siriano a decidere chi deve governare; l'Iran è della stessa opinione. Solo che Putin non può far conto sul fatto che l'opposizione siriana sostenuta dall'Araba Saudita arrivi a Ginevra ad accordarsi con Assad; magari può anche sperare che si arrivi a tanto, ma è più probabile che faccia conto su un piano B.
Un aspetto del recente cessate il fuoco cui pochi hanno fatto caso è il fatto che in molti casi gli accordi sono stati frutto della mediazione di ufficiali dell'esercito russo, di solito da ufficiali di grado piuttosto elevato. I loro sforzi sono stati premiati da considerevoli successi perché sono stati siglati oltre quaranta accordi. Se il processo di Ginevra dovesse fallire è probabile che sarà sostituito da un processo di pacificazione dal basso.
In base a questi accordi, alcuni dei quali negoziati dall'ONU ed altri dal governo siriano, si terranno alla fine elezioni locali. Poi regionali. Poi parlamentari. Si farà una revisione costituzionale. E in conclusione si terranno elezioni presidenziali con supervisione internazionale. In breve i siriani, sia quelli rimasti in patria sia gli esiliati, decideranno alla fine chi è che deve governare. Perché si arrivi a tanto, però, è fondamentale che Russia e Stati Uniti si fidino l'uno dell'altro e in questo campo tutto è ancora da fare. L'unica strada che è realistico percorrere sul piano politico è ormai questa, adesso che l'idea di rovesciare il governo siriano è uscita dai programmi: un accordo di massima a Ginevra, o un processo dal basso guidato dagli stessi siriani. Mentre continua la guerra contro gli jihadisti radicali. Il fulmine a ciel sereno rappresentato dall'annuncio del ritiro da parte di Putin sembra proprio fatto per vedere se ci sono i margini per arrivare ad un percorso che porti ad una soluzione definitiva.
Molte cose dipendono da questo risultato, non soltanto per la Siria. Su questa base, in un modo o nell'altro, si rivedranno equilibri a livello mondiale. 

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