giovedì 31 dicembre 2015

Alastair Crooke - Mettere all'angolo i russi significa rischiare la terza guerra mondiale


A Washington la politica ufficiale gronda di discussioni sulla Russia e sul bisogno di punire il presidente Putin per il ruolo che ha in Ucraina e in Siria. Queste fanfaronate ignorano gli autentici interessi nazionali della Russia, i limiti invalicabili che essa ha posto e il rischio che questa intransigenza da gradassi possa finire per portare ad una guerra nucleare, come spiega Alastair Crooke.

Alastair Crooke, Consortium News, 11 dicembre 2015


Tutti conosciamo la narrativa in cui noi occidentali siamo intrappolati. È la narrativa della guerra fredda: l'AmeriKKKa contro l'Impero del Male. Come ha scritto il professor Ira Chernus, dal momento che gli esseri umani siamo noi è chiaro che in qualche modo loro (l'Unione Sovietica, oppure lo Stato Islamico di oggi) non lo sono. Dunque dobbiamo in tutti i casi collocarci su posizioni opposte.
"Se loro sono il male assoluto noi dobbiamo essere il loro assoluto opposto. Il vecchio racconto dell'apocalisse: le genti di Dio contro le genti di Satana. Così siamo sicuri che non dovremo mai ammettere di aver mai avuto rapporti di qualche importanza con il nemico". La pretesa supremazia ed il preteso eccezionalismo dell'AmeriKKKa e dell'Europa poggia su queste basi.
Una volta "statuito il concetto che il nemico in nessun modo è un essere umano come noi, siamo automaticamente assolti per qualunque cosa possiamo aver mai fatto per innescare o per contribuire alla nascita e alla diffusione del male. Come possiamo aver mai preso fertile il terreno per il male assoluto, o avere una qualche responsabilità per i suoi successi? Questo è un postulato elementare delle guerre contro il male: le genti di Dio devono essere innocenti". E con il male non si scende a patti: è mai possibile scendere a patti col male?
Gli occidentali in generale possono pensare a se stessi come ad esseri razionali e in massima parte laicizzati, eppure la politica estera contemporanea è ancora caratterizzata da concezioni del mondo di derivazione cristiana.
In particolare, la narrativa da guerra fredda dei tempi di Reagan postula che l'AmeriKKKa ha semplicemente fatto fronte all'impero sovietico con mezzi militari e con altrettanto importanti pressioni finanziarie senza mai fare alcuna concessione al nemico.
Ci si dimentica a volte di come i neoconservatori di Bush hanno conferito la loro impronta alla versione mediorientale di questa narrativa marchiando i nazionalisti arabi laici e i baathisti come progenie sataniche: nel 1996 David Wurmser auspicava che "si facilitasse il collasso caotico" dei nazionalismi laici arabi in generale e del baathismo in particolare. Era d'accordo con re Hussein di Giordania sul fatto che il fenomeno del baathismo fosse fin dalle sue origini "un agente straniero, in particolare un agente della politica sovietica".
Oltre a comportarsi come agenti socialisti i paesi di quell'orientamento si opponevano allo stato sionista. Sulla base del principio che considerava loro il nemico, i nemici dei baathisti e dei nazionalisti laici -i re, gli emiri, le monarchie mediorientali- diventarono gli amici dei neoconservatori di Bush. E sono rimasti amci ancora oggi, nonostante i loro interessi siano ora largamente divergenti da quelli degli Stati Uniti.
Il problema, come lamenta il professor Steve Cohen, il più eminente studioso di questioni russe negli Stati Uniti, è che è stata proprio questa narrativa ad aver impedito all'AmeriKKKa di acquisire una volta per tutte le competenze necessarie a trovare un modus vivendi con la Russia; una cosa di cui c'è molto bisogno anche soltanto per affrontare con serietà il fenomeno dello jihadismo wahabita o per risolvere il conflitto siriano.
La cosiddetta narrativa da guerra fredda inoltre non riflette gli eventi storici, ma li deforma: ci preclude le competenze necessarie ad una vera comprensione del "freddo tiranno" demonizzato, che sia il presidente Vladimir Putin -il russo- o il presidente Bashar al Assad -il baathista- perché ci porta ad ignorare bellamente il vero percorso storico che questo o quel paese hanno compiuto per diventare ciò che sono e la parte che abbiamo avuto noi in tutto questo.
Inoltre uno Stato sovrano e i suoi vertici politici il più delle volte non sono come noi pensiamo che siano: tutt'altro. Cohen spiega: "La possibilità di instaurare una durevole relazione strategica tra Washington e Mosca è stata persa negli anni 90 dopo la fine dell'unione sovietica. In realtà si è cominciato a perderla prima, perché sono stati [il presidente Ronald] Reagan e [il leader sovietico Michail] Gorbaciov a costruire la possibilità di una relazione strategica negli anni compresi tra il 1985 ed il 1989.
Di sicuro questa possibilità è svanita ai tempi dell'amministrazione Clinton, e non certo per colpa di Mosca. Essa è finita a Washington, dove è svanita e si è persa nel nulla. La possibilità di una relazione strategica con Mosca è venuta meno in modo così brusco che oggi e almeno per il corso degli ultimi anni, direi fin dai tempi della guerra in Georgia nel 2008, ci siamo trovati letteralmente in una nuova guerra fredda contro la Russia.
Molti politici e molti nei mass media non vogliono utilizzare questa espressione, perché se ammettono che sì, ci troviamo in una guerra fredda, si troverebbero in condizione di dover spiegare che cosa hanno fatto nel corso degli ultimi 20 anni. Così preferiscono dire che non si tratta di guerra fredda.
E qui viene la mia ulteriore considerazione. Questa nuova guerra fredda è potenzialmente anche più pericolosa del suo quarantennale precedente, per varie ragioni. Innanzitutto si pensi al fatto che l'epicentro della precedente guerra fredda era a Berlino, non vicino alla Russia. Esisteva un'ampia zona cuscinetto tra la Russia e l'Occidente, in Europa orientale.
Oggi l'epicentro è in Ucraina, letteralmente a ridosso della frontiera russa. La nuova guerra fredda è stata innescata dal conflitto ucraino e dal punto di vista politico l'Ucraina resta una bomba a tempo ancora attiva. Il confronto di oggi non è soltanto alle frontiere della Russia ma nel cuore stesso della civiltà slava russo-ucraina. È in atto una guerra civile che per certi versi è profonda come lo è stata la guerra civile ameriKKKana".
Cohen ha continuato: "Andiamo ancora avanti perché c'è anche di peggio. Si ricorderà che dopo la crisi dei missili a Cuba Washington e Mosca svilupparono determinate regole per i comportamenti reciproci. Si erano accorte di quanto pericolosamente vicine fossero arrivate ad una guerra nucleare e così adottarono una soglia precisa di quello che era ammissibile e di quello che non lo era, che fosse codificata nei trattati o nella reciproca comprensione a livello non ufficiale. Ciascuna delle due parti sapeva dove poteva spingersi nei confronti dell'altra. Ciascuna delle parti ha superato occasionalmente i limiti, ma ha fatto immediatamente marcia indietro perché c'era la reciproca comprensione del fatto che essi limiti esistevano.
Oggi limiti del genere non esistono. Una delle cose che Putin e il suo predecessore Medvedev hanno continuato a dire a Washington è: state superando i nostri limiti! Washington rispondeva, e ha continuato a rispondere: "nei vostri confronti non ci sono limiti. Noi abbiamo i nostri, e noi possiamo anche avere tutte le basi che vogliamo attorno alle vostre frontiere, ma voi non potete avere basi in Canada o in Messico. Non ci sono vostri limiti che noi dobbiamo rispettare". Tutto questo indica con chiarezza che oggi non esistono regole comportamentali reciprocamente condivise.
Un'altra considerazione importante: oggi come oggi negli Stati Uniti non esistono alcuna forza politica o alcun movimento organizzato contro la guerra fredda o a favore della distensione. Non si trova nulla di simile nei nostri partiti politici, non si trova nulla di simile alla Casa Bianca, nulla al Dipartimento di Stato nulla nei mass media del mainstream, nulla nelle università o nei think tank. Non esiste nulla del genere oggi.
Andando ancora avanti, ho una domanda: chi è il responsabile di questa nuova guerra fredda? Non lo chiedo perché voglio puntare il dito contro qualcuno. Secondo i mass media ameriKKKani nella loro interezza questa nuova guerra fredda è tutta colpa di Putin: tutto, ogni cosa. Noi in AmeriKKKa non abbiamo fatto niente di sbagliato. Ad ogni mossa ci siamo comportati in modo virtuoso ed accorto, mentre Putin si è comportato in modo aggressivo inaffidabile. E allora, cosa dobbiamo rimettere in discussione? E' Putin che deve rimettersi in discussione, non noi".
Queste due narrative, la narrativa della guerra fredda e il successivo adattamento che ne hanno fatto i neoconservatori, vale a dire la formulazione che Bill Kristol ne ha prodotto nel 2002 secondo la quale proprio in virtù della sua vittoria nella guerra fredda l'AmeriKKKa può e deve diventare una "benevola potenza egemone" che garantisce e sostiene il nuovo ordine mondiale di cui essa stessa autrice ("una frittata che non si può fare senza rompere qualche uovo") convergono e si compenetrano in Siria, nelle persone del presidente Assad e del presidente Putin.
Il presidente Obama non è un neoconservatore, ma paga dazio alla posizione di egemonia mondiale che ha ereditato e che deve in qualche modo sostenere, pena l'essere bollato come colui che più di ogni altro ha facilitato il declino dell'America. Il presidente si trova anche circondato da fautori della dottrina politica basata sul concetto di "responsabilità per la protezione" come Samantha Power, che sembra siano riusciti a convincere il presidente che la cacciata del "tiranno" Assad farebbe sgonfiare e collassare il pallone dello jihadismo wahabita consentendo agli jihadisti "moderati" come Ahrar al Sham di distruggere i rimasugli dello Stato Islamico, il palloncino esploso.
Nella pratica imporre la cacciata del presidente Assad non farebbe che rafforzare lo Stato islamico anziché farlo implodere: le conseguenze si ripercuoterebbero in tutto il Medioriente e anche oltre. A livello privato il presidente Obama può anche aver compreso la natura ed i pericoli della rivoluzione culturale wahabita, ma sembra attenersi alla convinzione che basterà che Assad lasci perché tutto cambi. I paesi del Golfo avevano detto la stessa cosa riguardo al primo ministro iracheno Nouri al Maliki. Al Maliki ha lasciato il potere, almeno per il momento, e che cosa è successo? Lo Stato Islamico si è rafforzato.
Certamente se pensiamo che lo Stato islamico sia il male, che esista per fin di male e che sia fondato su massacri scriteriati e orrendi, "[sarebbe] un'iniziativa folle pensare alle autentiche motivazioni del nemico. Comportarsi in questo modo infatti significherebbe trattarli come esseri umani mossi da intenzioni umane che nascono dalla storia. Certo, questo sembrerebbe un parteggiare per il diavolo. Di sicuro" continua il professor Chernus "questo significa che qualunque cosa si possa pensare di quello che fanno, tendiamo generalmente a sorvolare sul fatto evidente che i combattenti dello Stato islamico non potrebbero comportarsi in modo più umano di così o muoversi in base a motivazioni più comprensibili".
Lo Stato Islamico e le altre forze favorevoli al califfato infatti sono mossi da motivazioni umane molto chiare e da obiettivi politici formulati con chiarezza, nessuno dei quali risponde in alcun modo al tipo di assetto statale che gli ameriKKKani dicono di volere per la Siria. Tutto questo rispecchia alla perfezione il pericolo intrinseco nel diventare ostaggi di una determinata narativa al posto di esercitare la volontà di esaminare le strutture concettuali prevalenti in maniera più critica.
L'AmeriKKKa è molto lontana dalla Siria e dal Medio Oriente; come afferma il professor Stephen Cohen, "purtroppo le relazioni a nostra disposizione oggi sembrano indicare che la Casa Bianca e Dipartimento di Stato si preoccupano innanzitutto di come contrastare le iniziative russe in Siria. Si legge che sarebbero preoccupati dal fatto che la Russia starebbe intaccando la leadership ameriKKKana nel mondo".
Secondo il professor Chernus è il solito ritornello di perpetua insicurezza nazionale, di perpetua paura sulla posizione dell'America e sulle sfide ad essa.
L'Europa, al contrario, non è affatto lontana. La Siria è letteralmente alle sue porte. E l'Europa è anche vicina alla Russia. In queste condizioni è bene riflettere sull'ultima affermazione del professor Cohen: il fatto che Washington non sia affatto disposta a consentire alcun ampliamento delle posizioni russe in Europa ed anche al di fuori di essa per mezzo di iniziative rivolte a conseguire la sconfitta strategica dello jihadismo wahabita in Siria non si traduce soltanto in un giocare con il fuoco in Medio Oriente. Significa prendersi gioco di un pericolo anche più grande, e fare entrambe le cose allo stesso tempo sembra un atto straordinariamente scriteriato.
Cohen continua: "[Ha messo radici] la mal fondata idea che con la fine dell'Unione Sovietica abbia avuto termine anche la minaccia nucleare: in realtà questa minaccia si è diversificata e complicata. La politica di alto livello se n'è dimenticata completamente. Anche questo è uno dei pessimi servizi lasciati dall'amministrazione Clinton ed entro certi limiti anche dal primo presidente Bush nella campagna elettorale per la sua rielezione, perché entrambi asserivano che il pericolo nucleare della ormai conclusa guerra fredda dopo il 1991 era venuto meno. In realtà la minaccia è cresciuta, ha preso la forma di incidente o di mancanza di attenzione e adesso è più pericolosa che mai".
L'Europa si sta prestando all'inasprimento delle pressioni in atto contro una Russia impegnata in Siria, in Ucraina ed in Crimea, nel pencolante Montenegro, in Georgia e nel Baltico dove deve affrontare la Nato: dal punto di vista economico con le sanzioni, da punto di vista finanziario con mosse di altro tipo. Forse ci troveremo davanti al paradosso rappresentato dal fatto che la determinazione con cui i russi stanno cercando di evitare la guerra sta portando proprio verso una guerra.
La Russia ha invitato i paesi occidentali a cooperare contro la minaccia dello Stato islamico; è rimasta sotto traccia e si è comportata cautamente davanti a provocazioni come l'imboscata al bombardiere Sukhoi 24 abbattuto in Siria; il presidente Putin fa uso di una retorica tranquilla. Tutte cose che a Washington e a Londra vengono utilizzate per ritrarre la Russia come se fosse una tigre di carta che nessuno ha motivo di temere.
In breve, alla Russia vengono offerte solo due possibilità: mostrare condiscendenza verso chi esercita una benevola egemonia, o prepararsi per la guerra.

martedì 29 dicembre 2015

Russia ed Iran verso un rapporto di collaborazione strategica?



Traduzione da Conflicts Forum.

I paesi occidentali e gli Stati Uniti sperano che l'accordo sul programma nucleare iraniano e l'imminente alleggerimento delle sanzioni finiranno con l'indebolire le ottime relazioni che esistono tra Iran e Russia e che a lungo termine questo porterà il paese a cambiare orientamento in senso filooccidentale.
In un editoriale del Financial Times del 20 novembre intitolato “West Looks for Splits in Russia’s alliance with Iran over Syria”, che è perfettamente rappresentativo di questa narrativa, gli autori statuiscono che in Siria Russia ed Iran hanno interessi comuni nel breve termine, ma alla lunga incompatibili. Al loro modo di vedere il principale punto di disaccordo è rappresentato dalla contesa sul futuro delle Forze di Difesa Nazionale, un corpo paramilitare che i russi vorrebbero venisse sciolto o integrato nelle forze armate siriane, mentre l'Iran lo considera come il proprio miglior alleato e garanzia per i suoi interessi in Siria. Alcuni funzionari occidentali rimasti anonimi pare abbiano affermato che le loro più grandi speranze di dividere Mosca da Tehran derivano dalla divergenza che i due hanno sul destino e sul ruolo del presidente Assad.
In effetti in passato ci sono stati dei punti di divergenza su Assad tra Iran e Russia. Ali Aqbar Velayati, ex ministro degli esteri iraniano ed attuale consigliere della guida suprema Sayyed Ali Khamenei, ha ammesso che all'inizio della crisi "Nessuno sosteneva il presidente Bashar al Assad come la Repubblica islamica dell'Iran. Neppure la Russia gli offriva il sostegno di cui aveva bisogno. Con l'aiuto di Hezbollah e dell'Iraq abbiamo fornito noi al presidente Bashar al Assad gli aiuti necessari e abbiamo fatto fallire i piani degli ameriKKKani in Siria in Libano e in Iraq. Noi non abbandoneremo mai Assad...". In ogni caso Russia e Iran hanno raggiunto un punto d'accordo su questo argomento e le dichiarazioni ufficiali emesse da Mosca e da Teheran sono diventate sostanzialmente identiche. Anche il fatto che la Russia si sia impegnata perché l'Iran fosse ammesso ai colloqui di Vienna e sia riuscita nell'intento indica l'esistenza di un approccio univoco e coordinato.
I rapporti tra Russia ed Iran devono comunque essere considerati in un contesto più ampio e che va al di là della crisi siriana. Russia ed Iran condividono molti interessi in campo strategico, primi tra tutti la protezione delle proprie risorse naturali, la lotta alla diffusione dell'ideologia salafita radicale e della militanza per lo Stato Islamico -cosa indispensabile alla sicurezza dei loro interessi nel bacino del Mar Caspio, in Asia centrale, in Afghanistan, in Medio Oriente e nel Golfo Persico- ed in ultima analisi la prevenzione delle cosiddette rivoluzioni colorate e del rovesciamento di governi attuato con la pressione e con l'influenza degli Stati Uniti e dell'Occidente. Il fatto che in campo strategico gli interessi nazionali dei due paesi convergano impone loro la scelta di una oculata cooperazione in molti campi, ivi compresa la questione siriana, e di comporre eventuali divergenze.
La crescente propensione a cooperare è visibile su molti fronti; la Russia è e resterà il principale fornitore di armi e di tecnologia nucleare per l'Iran. Sembra che gli ultimi ostacoli alla fornitura dei sistemi di difesa aerea S300 siano stati superati; inoltre imprese russe hanno stipulato contratti per costruire in Iran altri otto reattori nucleari. Per l'Iran la Russia costituisce un contrappeso all'Occidente di importanza vitale, specialmente se si tiene conto del fatto che l'influenza regionale e globale della potenza russa sta aumentando e del fatto che i russi hanno dimostrato concretamente che intendono proteggere e sostenere i loro alleati. La Russia sta compiendo anche passi concreti per integrare ulteriormente l'Iran nelle proprie strutture economiche e di sicurezza come l'Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai. Nel corso dell'ultimo incontro di questa organizzazione è stato deciso di considerarne l'Iran membro a pieno titolo dopo l'alleviamento delle sanzioni da parte delle Nazioni Unite. Questo faciliterà la cooperazione tra i due paesi e la Cina nel contrasto all'espansione dello Stato Islamico e di al Qaeda in Afghanistan, in Asia centrale e nel Caucaso settentrionale.
Il campo in cui l'Occidente ripone le maggiori speranze di generare una rottura tra Russia ed Iran è quello delle risorse petrolifere. Ci si chiede infatti se Russia e Iran resteranno partner, o se inizieranno a competere in futuro, quando si tratterà di sfruttare e trasportare petrolio e gas naturale verso i mercati mondiali. La questione diventerà importante appena cadranno le sanzioni contro l'Iran e il paese tornerà membro a pieno titolo del mercato mondiale dell'energia.
Per la Russia rimanere il principale fornitore di gas del mercato europeo è una priorità strategica, così come lo è il poter continuare ad avvalersi di questa posizione di forza per fare politicamente leva nei confronti dell'Europa. L'Iran può essere visto come un pericoloso concorrente in considerazione delle amplissime riserve di gas naturale che possiede, e della posizione geografica che lo mette in condizione di rifornire sia l'Europa che l'Asia. Tuttavia esistono molte ragioni per collaborare, anche in questo campo. Russia ed Iran sono molto importanti per il futuro dell'industria dell'energia ed hanno molta influenza sul prezzo del gas sui mercati internazionali; faranno valere i loro interessi comuni, come il controllo delle linee di trasporto, delle forniture e del prezzo del gas naturale. Mettersi a competere invece che a collaborare sarebbe una scelta che danneggerebbe entrambi.
Un rapporto di collaborazione strategica comporterebbe un accordo sulla divisione del mercato mondiale, progetti comuni per l'interconnessione dei gasdotti, la promozione della cooperazione regionale sullo sfruttamento dei giacimenti nel bacino del Mar Caspio, ed anche un accordo sul controllo dell'esportazione di gas dal Turkmenistan. Al momento questa collaborazione strategica viene portata avanti su tre diversi livelli: tramite un accordo bilaterale sulla cooperazione nel campo del petrolio e del gas naturale, con il forum dei paesi esportatori di gas cui fanno capo i 13 più importanti produttori di gas naturale, e tramite l'Organizzazione di Cooperazione di Shanghai, di cui fanno parte i più grandi produttori e consumatori asiatici di petrolio e gas. Recentemente è stato siglato un accordo in base al quale la Russia farà arrivare petrolio alla frontiera settentrionale dell'Iran e l'Iran provvederà a trasportarlo fino a petroliere russe nei porti del Golfo; i rapporti di collaborazione vanno in questa direzione.
In effetti il problema non è se l'alleanza tra Russia ed Iran entrerà in crisi sulla questione siriana, come farebbe pensare la narrativa occidentale, ma se questa alleanza è già diventata strategica o ha ancora alla base considerazione pratiche di ordine corrente.
Dimitry Rogozin, vice primo ministro russo molto vicino al presidente Putin avrebbe detto in una intervista televisiva: "non si può dire proprio che tutte le forze politiche in Iran condividano la concezione che la Russia dovrebbe diventare un partner strategico. Su questo punto dobbiamo ancora lavorare con un certo impegno". Ali Aqbar Velayati, consigliere della guida suprema Sayyed Ali Khamenei ha detto di recente che "i nostri rapporti di collaborazione con la Russia stanno crescendo e stanno ampliandosi, comunque li si voglia chiamare. Personalmente credo che la nostra relazione con la Russia si stia trasformando in una relazione di tipo strategico, e lo stesso vale per la Cina...".
L'incontro fra il presidente Putin e la guida suprema Khamenei tenutosi a Teheran a fine novembre contribuirà a chiarire le idee sulla portata di questo rapporto di collaborazione. Esistono in ogni caso segnali sufficienti a far pensare che una relazione di tipo strategico tra Russia ed Iran sia già in costruzione.

venerdì 25 dicembre 2015

La notte santa del chi se ne frega


...O delle Radici Cristiane dell'Occidente assediato: le pagliacciate dei ricchi ed il pallone, che si compendiano e sublimano in combinazioni stimolanti: le pagliacciate del pallone dei ricchi, i ricchi pagliacci del pallone, il pallone dei ricchi pagliacci...
Decidano (e deridano) i lettori.

giovedì 24 dicembre 2015

Quando l'Europa tira in lungo i problemi e fa finta che tutto vada bene: Il caso greco e il caso siriano




Traduzione da Conflicts Forum.

Jeremy Warner, viceredattore del Telegraph, ci racconta una storia che è un esempio, perché tocca tutte le principali crisi che l'Europa e gli Stati Uniti stanno affrontando.
"La Grecia è un paese di frontiera, in quanto è uno dei principali punti di ingresso per chi emigra nell'Unione Europea. Una volta entrati i migranti possono spostarsi liberamente grazie agli accordi di Schengen in buona parte del territorio dell'Unione, fino a quando non riescono a raggiungere il paese in cui intendono chiedere asilo o in ogni caso trovare illegalmente un'occupazione.
La maggior parte degli stati europei credono che la Grecia abbia affrontato molto male le proprie responsabilità nella sorveglianza delle frontiere e considerano molto male il fatto che essa abbia rifiutato più consistenti aiuti europei per affrontare la crisi. Quindi l'Unione Europea minaccia adesso di espellere la Grecia da Schengen. Un'azione del genere sostanzialmente separerebbe la Grecia dal corpo principale dell'Unione Europea, come già succede con il Regno Unito che non è parte degli accordi di Schengen; si dovrebbero ristabilire controlli alle frontiere per monitorare i passaggi dalla Grecia al resto dell'Unione.
L'Unione Europea può permettersi di minacciare l'espulsione della Grecia perché la Grecia si è mostrata restìa ad accettare anche aiuti di portata limitata, come quelli che riguardano l'assistenza umanitaria o l'organizzazione di una speciale missione di Frontex, che una variante europea disperatamente inadeguata del corrispettivo statunitense. Questo rifiuto non è dovuto al fatto che la Grecia non pensa di aver bisogno di aiuti; è dovuto al fatto che essa ritiene questa offerta enormemente inadeguata. il concetto può sapere di già sentito, e difatti si tratta di cose già successe nel caso della crisi del debito sovrano. L'Unione Europea offri una sorta di limitato abbuono ma sotto termini e a condizioni tali che la Grecia trovò tutto quanto inaccettabile. Alla fine fu costretta ad arrendersi perché l'alternativa era la sua espulsione dalla moneta unica"

La crisi dei rifugiati e la crisi che nasce dalla politica di austerità dell'Unione Europea, come Jeremy Warner ha compreso con chiarezza, hanno in comune il fatto di derivare entrambe dall'uso di tirare in lungo i problemi come si farebbe prendendo a calci un barattolo lungo una strada, e nel far finta che tutto vada bene anche quando è chiaro a tutti che così non è.
Quanti credono che la Grecia sia in condizioni di pagare i propri debiti sulla base delle politiche di austerità adottate in passato e adottate a tutt'oggi, adesso si contano sulle dita di una mano; eppure la politica continua a mantenere questa linea e si continua a fingere che in fin dei conti tutto va bene. Quando la vaticinata soluzione stenta a farsi vedere e rimane ben al di là dell'orizzonte non si fa altro che proseguire con le politiche di austerità, ma in maniera sempre più strampalata. La rivista greca Enikonomia per esempio pubblica un articolo secondo cui i contribuenti greci saranno tra poco costretti a dichiarare tutto il denaro contante che tengono sotto il materasso o in cassette di sicurezza bancarie al di sopra dei quindicimila euro, così come i gioielli e le pietre preziose -oro compreso- di valore superiore ai trentamila, a partire dal 2016. Tutto questo somiglia maledettamente all'annuncio di un piano di confisca delle ricchezze da parte del governo. Il disastro greco continua semplicemente a dispiegarsi e non se ne vede la fine.
Allo stesso modo Europa e Stati Uniti si sono intestarditi in decenni di politiche monetarie poco rigide, vale a dire che sono andati creando ancora più debito per liberarsi da certi problemi di debito, eppure le nostre economie si dice siano ancora oggi praticamente degli zombie, ed in più dobbiamo affrontare l'instabilità di sistema originata dall'esplosione del debito valutata oggi in centonovanta trilioni di dollari a livello mondiale laddove il prodotto interno lordo mondiale è di soli settanta trilioni. L'esposizione dei derivati è valutata qualcosa come venti volte il prodotto interno lordo mondiale. In breve, ci sono molti più crediti di quante siano le ricchezze reali, quindi lo stampare sempre più denaro e mantenere i tassi di interesse pari a zero o anche negativi pare essere una pratica destinata ad estendersi indefinitamente.
Ora europei e americani sono capacissimi di intuire i pericoli che nascono dalla precarietà finanziaria o dalla crisi dei profughi in Europa che minaccia l'esistenza stessa del progetto europeo. Jean Claude Junker recentemente ha vaticinato che se gli accordi di Schengen falliscono allora è inutile che continui ad esistere l'euro. Il fato è che siamo rimasti prigionieri di un copione in cui si rimandano le cose all'infinito e al tempo stesso si finge che vada tutto bene, nonostante tutto questo non faccia che aggravare la crisi.
Lo stesso succede con la Siria. Il Parlamento britannico ha votato a grandissima maggioranza per i bombardamenti; si dice che la decisione sia stata presa per indebolire lo Stato islamico ma ovviamente ha il reale obiettivo di servire a motivazioni meno note al pubblico, in particolare a mantenere aperta la possibilità di cacciare il presidente Assad e di rovesciare il governo. Questo sulla base del fatto che il comitato congiunto dei servizi segreti insiste a dire di aver identificato settantamila "moderati" in Siria -di cui non fornisce altri dettagli- quando perfino l'ex ambasciatore britannico a Damasco afferma che ve ne sono al massimo cinquemila, che formano l'evanescente "Libero Esercito Siriano". Il Regno Unito vuole inoltre dividere la Francia dalla Russia, dopo che il presidente Hollande ha invece annunciato di voler collaborare con Mosca. Nel Regno Unito vedrebbero volentieri Putin prendere una ridimensionata, e alla fine anche compiacere i propri alleati nel Golfo Persico.
Siamo davanti ad un altro caso in cui (1)si mandano le cose per le lunghe: in questo caso la tiritera del rovesciamento del governo siriano, portata avanti esagerando il numero dei ribelli "moderati" e pianificando attentamente i bombardamenti per rafforzare i suddetti a scapito dello Stato islamico, mentre (2)si fa finta che la crisi dei profughi non abbia nulla a che fare con i precedenti ed infruttuosi tentativi dell'Occidente di rovesciare il governo siriano, o che un governo di transizione in Siria fatto di occidentalizzati fedeli alla Banca Mondiale o da tecnocrati alla Goldman Sachs avrebbe una qualche speranza di innescare la massa critica di risorse statali necessarie a sconfiggere Al Qaeda, lo Stato Islamico o Ahrarh al Sham nella guerra che sicuramente scoppierebbe nel caso lo stato siriano venisse decapitato, come spera il signor Cameron.
La conseguenza dell'aver fatta propria la linea che impone la caduta del governo senza che esista una alternativa credibile per esso, e in un momento in cui le forze del Califfato per un verso o per un altro dominano completamente il fronte degli insorti, è quella di auspicare un risultato in stile libico, compresa l'anarchia che seguirebbe. Altra conseguenza è il far finta che pagare alla Turchia una mancia per fermare il flusso dei profughi risolverebbe il problema dei rifugiati. Il presidente Erdogan è parte del problema -da lui stesso innescato- e non parte della soluzione.
Sembra che Europa e AmeriKKKa non possiedano la leadership, la volontà e la visione di insieme necessarie ad uscire dal loro paradigma di rinvii indefiniti e di finzioni, e che le varie crisi in Europa non faranno che approfondirsi e moltiplicarsi dal momento che come nota Warner esse sono tutte collegate tra loro. Per fortuna in Siria i bombardamenti britannici e gli attacchi con i droni non faranno molta differenza sul piano pratico, con l'ovvia eccezione delle persone che presumibilmente moriranno a causa di essi. Ad essere davvero dannoso, nell'iniziativa britannica, è il fatto che essa intende a bella posta intorbidare le acque di ciò che esattamente viene offerto all'Europa.
Da una parte all'Europa viene offerta la prospettiva che dopo la sconfitta degli jihadisti in Siria con la fattiva partecipazione al conflitto delle forze regolari e col sostegno aereo si terranno libere ed aperte elezioni sotto il controllo delle Nazioni Unite e vi sarà un nuovo parlamento incaricato di applicare le riforme. Il presidente Assad probabilmente si candiderà; nel caso vincerà quasi sicuramente la consultazione elettorale. Cosa succede se il presidente Assad risulta vincitore? Non è forse diritto del popolo siriano decidere, e scegliere il proprio rappresentante secondo il proprio modo di essere? L'Unione Europea pensa che la crisi dei profughi che la riguarda sia di così poca importanza che ci si può anche permettere di delegare ad un qualche subordinato il compito di trovare una vera soluzione ad essa, per avere anche un ruolo politico in Siria? Tutto questo deve rimanere nell'alveo di ciò che è gradito a Washington, senza che Mosca abbia voce in capitolo? Che faranno gli europei se Bashar Assad dovesse vincere le elezioni? La vittoria di Assad potrebbe davvero essere preziosa per interrompere l'esodo dei profughi siriani.
Dall'altra parte, per come stanno le cose, l'Europa rischia di doversela vedere con la prospettiva di un paese decapitato e smembrato e con la possibilità -che in una simile situazione è molto concreta- che le forze del califfato finiranno per prevalere e l'esodo dei rifugiati col trasformarsi in una marea. Come mai è così difficile scegliere? Si vuole soltanto umiliare Putin? O forse qualcuno non può sopportare l'idea che Assad resti al potere?
La cosa più probabile è che alla fine sia quest'ultimo esito a risultare il preferito, solo che è probabile che la mossa britannica riesca a complicare tutto e ad allungare ancor più i tempi, rendendo meno probabile che l'Europa riesca a liberarsi da una linea politica basata sul far finta di nulla e sul tirare in lungo i problemi e più verosimile che le varie crisi interconnesse continuino ad aggravarsi fino a minacciare la stabilità del continente. Washington si trova a molte migliaia di miglia dal Medioriente in disgregazione; l'Europa ce l'ha sulla porta di casa. Gli interessi degli europei e degli americani quando si tratta della Siria non coincidono. L'Europa dovrà scegliere.

domenica 20 dicembre 2015

L'abbattimento del Sukhoi 24 russo in Siria: le conseguenze possibili



Traduzione da Conflicts Forum.

L'abbattimento -o l'imboscata- dell'aereo russo da attacco al suolo impegnato in operazioni controterrorismo in territorio siriano compiuto dalla Turchia contribuisce senz'altro a complicare una situazione già ingarbugliata per conto proprio. Il gesto, com'era prevedibile, ha inasprito le relazioni tra Turchia e Russia, forse ad un tal punto che i turchi avrebbero anche di che preoccuparsi a giudicare dai toni che il Ministro degli Esteri Lavrov ha usato al telefono nel rampognare il collega turco di fresca nomina. Nell'invocare la protezione della NATO la Turchia ha introdotto (con ogni probabilità di proposito) una contrapposizione tra NATO e Russia nella già confusa situazione siriana, e così facendo ha reso ancor più problematico per i russi sperare che un'ampia coalizione si coaguli attorno ad una linea consensuale sui mezzi militari e politici da utilizzare per risolvere la crisi del paese.
Nell'immediato, il gesto non ha fatto che rafforzare la determinazione dei russi. E degli iraniani.
Gli aerei da attacco russi continuano le loro operazioni a ridosso della frontiera turca, solo che adesso sono sotto la copertura di intercettori, secondo un modo di agire che non era ancora entrato nell'uso quando è stato raggiunto l'accordo con gli USA per coordinare le varie sortite. La Russia non avrà alcuna considerazione per le "zone di sicurezza" turche in Siria, e soprattutto per i turkmeni, per i convogli di rifornimento turchi o per "moderati" come quelli che hanno ucciso il pilota russo mentre scendeva a terra senza alcun aiuto, vulnerabile con il suo paracadute. La Russia rafforzerà probabilmente i legami con lo YPG curdo e lo aiuterà a chiudere quegli ottanta o novanta chilometri di frontiera tra Siria e Turchia attraverso i quali passano ancora i rifornimenti che i turchi inviano ai loro protetti in Siria.
Il Presidente Putin può pensare anche ad altre ritorsioni, ma su questo è presto per fare ipotesi. Sotto questo punto di vista, la presidenza russa metterà in chiaro che non ha alcuna intezione di subire provocazioni simili senza resistere, senza perdere di vista il fatto che le operazioni militari intraprese possono essere efficaci solo nel contesto di una soluzione politica per la Siria, cosa che ha risvolti sul piano interno quanto su quello estero. L'abbattimento del Sukhoi 24 in che modo ha influito sulla prospettiva di una soluzione politica? I turchi sono riusciti a polarizzare le posizioni politiche, che era il loro principale obiettivo, e ad impelagare nella guerra il Presidente Putin molto più di quanto egli stesso desiderasse?
Anche prima che l'aereo russo venisse abbattuto era chiaro che a dispetto dell'entusiasmo mostrato da John Kerry verso un'iniziativa politica congiunta russi e ameriKKKani erano lungi da trovarsi d'accordo; adesso è possibile che le rispettive posizioni siano ancora più distanti. Sotto questo aspetto è probabile che l'iniziativa dei turchi sia riuscita ad alimentare il divario tra i due. Gli USA sostengono che le azioni militari russe "non siano di nessun aiuto", mentre è probabile che l'abbattimento del loro aereo renderà i russi ancor più determinati dal punto di vista militare, piuttosto che il contrario. A differenza di Kerry, il Presidente Obama è rimasto fedele all'idea che alla fine, con la Russia sottoposta a pressioni di vario genere, Putin finirà per scendere a patti. Un funzionario statunitense ha messo le mani avanti, dicendo che a Vienna Kerry stava andando quasi alla ventura, senza che la Casa Bianca gli fornisse chissà quale sostegno. Le considerazioni espresse ultimamente da Obama a Kuala Lumpur, inoltre, non fanno pensare a cambiamenti di alcun genere nella linea strategica fin qui seguita dagli USA, nonostante esista una qualche cooperazione a livello tattico. L'ex ambasciatore e commentatore politico MK Bhadrakumar specifica:

Le considerazioni che Obama ha espresso nel corso di una conferenza stampa a Kuala Lumpur il 22 novembre sono molto significative. Obama rilancia la palla nel campo di Putin con la spiazzante affermazione che la distruzione dello Stato Islamico "non è soltanto un obiettivo realistico, ma qualcosa che noi (la coalizione guidata dagli USA) stiamo portando a compimento" anche se "sarà utile" che Mosca sposti l'obiettivo del proprio intento dalla salvaguardia del governo siriano alla lotta contro lo Stato Islamico. Obama ha insistito sul fatto che se Putin vorrà compiere il necessario "aggiustamento strategico" anche la Russia potrebbe essere ammesssa alla coalizione a guida statunitense che sta combattendo lo Stato Islamico.
Obama ha affermato categoricamente che "non è praticamente concepibile che il signor Assad possa nuovamente ottenere legittimità in un paese in cui una larga maggioranza lo disprezza, e non cesserà di combattere fino a quando rimarrà al potere".
Obama ha attribuito il successo dei colloqui di Vienna al fatto che "hanno preso atto del fatto che occorre un nuovo governo" in Siria. Ha aggiunto che "la Russia non si è ufficialmente impegnata a favore di una transizione che preveda l'abbandono del potere da parte di Assad, ma è d'accordo sul fatto che è necessario un processo di transizione di tipo politico. Io penso che nelle prossime settimane riusciremo a capire se sarà o meno possibile condurre i russi a cambiare prospettiva".
Certo, quello che Obama non ha detto è che si aspetterebbe che Putin ammorbidisse i leader iraniani durante la sua "visita di lavoro" del 23 novembre a Tehran. Ha invece dichiarato che su questo argomento Hollande la pensa come lui: in questo modo, Obama ha messo un'ipoteca sulla conversazione che Hollande avrà giovedi prossimo con Putin al Cremlino.

Insomma, si torna alle solite con la reaganite: l'Occidente mette la Russia sotto pressione politica per mezzo delle sanzioni che le impone e per il basso prezzo del greggio; per uscire da questa situazione, Putin deve chinare la testa al volere di Washington, alle direttive dello "Washington Consensus" e alla leadership mondiale statunitense. Questa tesi di fondo ha trovato nuova vitalità grazie alla capacità dell'AmeriKKKa di fare pressione su Putin tramite l'Ucraina -si considerino il blackout e l'assedio attualmente in corso in Crimea- e di sfruttare l'"errore" commesso da Putin intervenendo militarmente in Siria. Tony Blinken, vicesegretario di Stato, ha detto il 19 novembre che la Russia "si è mossa così male nel suo intervento in Siria che può ritrovarsi con poche alternative all'assecondare una composizione del conflitto". Una concezione dei fatti sofferente di reaganite: così come a detta di Zbig Brzezinski l'aver cacciato l'URSS nel pantano afghano ha significato causarne la rovina, così l'intervento di Putin in Siria si rivelerà una sorta di rovina autoprovocata.
In questo momento sono in molti in Occidente a dar l'idea di condividere la presunzione che l'intervento russo in Siria sarà la rovina di Putin. E' forse questo il motivo per cui Obama ha assunto una posizione tanto flemmatica ("La Turchia ha diritto di difendersi") in merito all'abbattimento dell'aereo russo da parte dei turchi? L'accaduto può impelagare ancora di più la Russia nella trappola siriana, così come il sostegno della CIA agli jihadisti impelagò l'URSS nella trappola afghana nel 1978? In ogni caso, è qualcosa che fa crescere la pressione su Putin, possono aver concluso quelli dell'Amministrazione.
Difficile capire in che modo la Turchia possa considerare quanto successo con il caccia russo come un precedente su cui basare proprie velleità espansionistiche -le pretese sugli antichi vilayet di Aleppo e di Mossul, le pretese di protezione sui turkmeni di Siria- rese presentabili col nome di "zona di sicurezza". In quella zona della Siria il controllo  russo sullo spazio aereo è assoluto, e qualunque incursione militare turca verrebbe molto probabilmente fronteggiata da una pari escalation sul terreno da parte dell'Iran. L'esercito turco dovrebbe dunque affrontare una superiorità aerea russa assoluta da una parte, e le forze armate della Siria e dell'Iran dall'altra, ma questa è Una prospettiva improbabile. Che la Turchia stia solo cercando di cacciare ancor di più la Russia nella palude del conflitto siriano?
Secondo Stati Uniti e Gran Bretagna, almeno per quanto scrive il Financial Times citando diplomatici occidentali che hanno avuto contatti con i russi, si può parlare di "crescente [speranza] che si possa ad arrivare ad un accordo politico sul futuro della Siria". Il loro ottimismo "è stato rafforzato dai recenti segni di collaborazione che arrivano dalla Russia, oltre che dalla convinzione che l'intervento militare di Mosca in Siria stia perdendo mordente (il corsivo è di Conflicts Forum). In altre parole, USA e Regno Unito sono convinti che la Russia sia sul punto di dirsi d'accordo sull'estromissione di Assad, nonostante Putin abbia detto chiaramente che nessun comprimario ha il diritto di imporre qualcosa di simile al popolo siriano.
Il Financial Times cita anche un "funzionario di alto grado dei servizi segreti di un paese europeo" che pensa che "il Cremlino abbia valutato male le conseguenze che il suo intervento militare in Siria potrebbe avere". Questo funzionario ha detto anche "i russi hanno dato una guardata sotto gli orpelli e si sono accorti che l'Esercito Arabo Siriano e le milizie che lo affiancano non erano in grado di vincere la guerra in Siria". (Nota: quasi sicuramente questo funzionario è britannico, a giudicare dall'espressione utilizzata). Detto altrimenti, secondo il funzionario citato i russi avrebbero già interrotto la loro iniziativa militare.
La cosa non sembra credibile. Possibile che i leader politici occidentali credano alle loro stesse ciance? Purtroppo è possibile che lo facciano davvero: a tanto arriva il potere del "pensiero di gruppo". Janes' Defence Weekly passa per essere una pubblicazione autorevole: a metà novembre ha affermato che l'Esercito Arabo Siriano e i suoi alleati avrebbero recuperato solo lo 0,4% del territorio agendo sotto il comando russo. Difficile capire come Janes' possa arrivare ad una conclusione così drastica in un momento in cui le forze dei "quattro più uno" stanno compiendo progressi in ogni piano del conflitto. L'ufficiale superiore britannico è stato molto frettoloso nel concludere che le operazioni militari russe sono fallite: sono passate appena cinque settimane.
E' possibile pensare che molti occidentali abbiano creduto che lo scopo della visita di Putin alla Guida Suprema avvenuta a Tehran il 23 novembre avesse lo scopo di costringerlo a smettere di appoggiare i politici siriani e lo stato siriano, e di abbracciare invece la linea di Washington? Ma con quali russi hanno conversato, questi diplomatici? Sia chiaro invece che la visita di Putin a Tehran serviva ad affermare la partecipazione della Russia ad una alleanza strategica con l'Iran, e a riaffermare la loro posizione comune sulla Siria. Se mai, l'abbattimento dell'aereo russo ha rafforzato la risolutezza che accomuna Russia ed Iran sulla questione siriana e sul fatto che occorre dare a Washington una risposta condivisa. Davvero credevano di essere sul punto di dividere Russia e Iran sulla Siria? Si direbbe di sì, perché la loro linea politica è chiaramente quella: esasperare i punti di divisione tra Russia ed Iran: scalzare la Russia dall'Iran, come si direbbe nel loro diplomatico linguaggio.
Sembra che i retaggi della Guerra Fredda e la lunga storia di rapporti ostili con l'Iran renda difficile ai funzionari occidentali concepire la Russia, o l'Iran, in un'ottica che non sia quella di queste vecchie lenti paradigmatiche. In realtà il dibattito sulla Siria in corso a Washington è caratterizzato da una varietà di posizioni. Esistono funzionari, funzionari di grado elevato, che effettivamente riconoscono i meriti di una cooperazione con la Russia e della necessità di arrivare ad una soluzione politica che lasci da parte la questione della partecipazione del Presidente Assad a future elezioni, invece che anteporre alle questioni politiche il risultato voluto, vale a dire la destituzione di Assad.
Sembra tuttavia che al momento Obama non intenda scostarsi dalle sicurezze rappresentate dai consueti ambienti di riferimento, e dai think tank che ritengono cie gtli "atlantisti" russi siano ancora in grado di capitalizzare su un qualche errore di Putin e di rientrare nella stanza dei bottoni, in modo da indirizzare la Russia verso un ordine mondiale a guida statunitense. Forse anche il Presidente si è reso conto di avere comunque in carniere un risultato importante, che è l'accordo dei "cinque più uno" sul nucleare iraniano e si accontenta di restare, per il poco che rimane del suo mandato, entro i limiti sicuri ammessi dall'ortodossia.
D'altro canto è anche possibile che Obama sia scettico nei confronti del pensiero affetto da reaganite, così come era scettico verso la difesa della strategia basata sull'aizzare i "moderati" siriani operata da certi membri del suo governo. Se Obama coltiva simili dubbi, il discorso di Kuala Lumpur non li ha certo fatti emergere, anzi. In quella circostanza Obama è stato chiaro: lasciamo che le prossime settimane [in cui la Russia rimarrà a candire nel ginepraio siriano] indichino se vi sarà o meno qualche "ripensamento strategico" da parte di Putin; l'AmeriKKKa intanto se ne rimarrà a guardare da bordo campo dimostrando di essere lei e non la Russia a guidare qualsiasi coalizione che combatta lo Stato Islamico. Una simile atmosfera non è propizia a decisi mutamenti di una linea politica, tutt'altro.
Sembra anche che Putin non abbia mai avuto l'intenzione di fidarsi di una sola strategia, basata sulla collaborazione con gli USA, e abbia anzi previsto di far sì che a parlare siano i fatti compiuti, sia sul piano militare che sul piano politico. Questo significa che si potrebbe essere sulla strada di una soluzione politica sì, ma portata sulla punta delle baionette: nel caso l'intervento russo avesse successo, contriariamente alle aspettative occidentali, vi sarebbe un accordo politico a cose fatte, e non in parallelo con le azioni militari.
A quel punto gli europei sarebbero sotto tiro. La politica statunitense sembra intenzionata a mettere una pezza sul problema siriano per mezzo di attacchi condotti dalla coalizione a guida USA sia per arrivare ad assumere il ruolo predominante, sia per ridurre l'importanza della presenza russa. Questa linea non farà che esasperare le tensioni tra Russia e Stati Uniti, e andrà a finire che in uno spazio aereo sovraffollato presto o tardi capiterà qualche incidente.
Gli europei vogliono più di ogni altra cosa un accordo politico che possa fermare il flusso di profughi diretto in Europa. Gli europei possono anche accorgersi del fatto che la Russia ha migliori possibilità di garantire questo risultato per mezzo di libere elezioni in Siria, e temere invece che la linea degli ameriKKKani che vogliono che per prima cosa Assad lasci il potere possa tradursi in una situazione di caos che non farebbe che far salire vertiginosamente il numero dei profughi. In Europa dovranno scegliere quale linea appoggiare.

giovedì 17 dicembre 2015

Il boiscàut Matteo Renzi e la diga di Mosul


A metà dicembre 2015 il boiscàut Matteo Renzi annuncia l'invio di altri militari in Iraq.
C'è da sovrintendere ad un certo affare che non si poteva perdere.
Lo stupefacente ministro della difesa del suo "governo" asserisce che
non andranno a combattere. Sicuro: andranno a giocare a Risiko.
O forse a pentolaccia, chissà.
Molto dipenderà dai gusti dei signori come quello ritratto in questa foto, che però non ha l'aria di uno che sta aspettando qualche compagno di giochi.
Il brano è tratto dal
blog di Miguel Martinez e non si limita ad avanzare fondatissimi dubbi; presenta anche una proposta sensata ed obiettivamente realizzabile e non ha bisogno di ulteriori commenti. Nel testo viene nominato lo stato che occupa la penisola italiana: come nostra abitudine ce ne scusiamo con i lettori, specie con quanti avessero appena finito di pranzare.

Una ditta italiana, la solita Trevi, ha vinto l’appalto per ricostruire la pericolante diga di Mosul, nella lontana Mesopotamia.
Per quelli che non sono esperti di geografia mediorientale, Mosul si trova al punto preciso di frattura del conflitto tra curdi e arabi, tra sunniti e sciiti, tra turcomanni e curdi, tra cristiani e musulmani, tra assiri e arabi, tra assiri e curdi, tra assiri e turcomanni, tra curdi del PDK e curdi del PUK (che qualche anno fa si sono fatti una guerra non da poco), tra turcomanni e arabi, tra musulmani e yazidi, tra yazidi filocurdi e yazidi anticurdi, tra curdi peshmerga e curdi pkk, tra arabi e iraniani, tra turchi e iraniani.
Tutti mirano al petrolio che sgorga da quelle parti, e che interessa poi anche a Israele, Qatar, Arabia Saudita, Emirati Arabi (che cercano di fare le scarpe al Qatar), Stati Uniti e Russia.
Ah, quasi quasi si dimenticava l’Isis, che da poco ha perso il controllo della diga a una forza unita di curdi PUK ed esercito iracheno sciita; pare che i curdi si stiano preparando per cacciare i propri alleati iracheni, che non riconoscono affatto che Mosul sia una città curda. Intanto, i curdi stanno cacciando dalla zona i civili (sunniti) che parlano arabo (almeno quelli sopravvissuti agli sciiti iracheni).
750 soldati italiani, sotto il fantasioso nome di Prima Parthica (in onore della legione che per secoli tenne la frontiera romana contro i persiani) stanno già addestrando i curdi peshmerga, per cui gli iracheni sapranno chi ringraziare.
Un po’ più in là, in Siria (ma il confine non esiste più da un pezzo), ci sono 1.500 gruppi armati che si fanno la guerra a vicenda.
Matteo Renzi, notoriamente, ama semplificare le cose. Parlando a Porta a Porta, dice:
“Una azienda di Cesena ha vinto questa gara e noi metteremo 450 uomini e metteremo la diga a posto”.
Cioè una ditta privata è “noi” perché ha sede a Cesena e i 450 uomini non sono impiegati della ditta, ma sono soldati pagati con i nostri soldi per far fare i soldi agli azionisti della ditta di Cesena.
A discolpa del ragazzo di Rignano sull’Arno, bisogna dire che da quelle parti (Rignano, non Mosul) è abbastanza normale confondere ditte private e soldi pubblici. Però i soldati pubblici che si faranno saltare in aria è una novità.
Non è chiaro quale dei numerosi pretendenti a Mosul abbia invitato i 450 militari italiani e quanti degli altri pretendenti siano d’accordo.
Però a questo punto noi si proporrebbe uno scambio, che potrebbe anche portare la pace in Medio Oriente.
Tutti sanno che il Qatar, per dirla eufemisticamente, chiude un occhio sui fondi che i propri miliardari mandano a sostegno dell‘Isis. Non lo diciamo noi, ma – ad esempio – il vice-segretario Usa al Tesoro, il ministro dello sviluppo tedesco e il Country Reports on Terrorism del Dipartimento di Stato.
Oltre a investire in Siria e in Iraq, il Qatar ha appena comprato il Westin Excelsior di Roma, tutto il quartiere di Porta Nuova a Milan, la Four Seasons di Firenze, la Maison Valentino, nonché (pare) l’intera città di Sciacca in Sicilia. Poi, siccome il globo è globale, Qatar ha comprato la Borsa di Londra che si è comprata Piazza Affari a Milano.
Dunque, se i soldati italiani possono andare a Mosul per proteggere gli investimenti italiani, non credo che si possa impedire al Qatar di mandare chi vuole in Italia a proteggere gli investimenti qatarioti.
Potrebbero utilmente reimpiegare in questo modo qualche migliaio di esuberanti giovani dell’Isis, che oltre tutto parlano molte lingue e amano viaggiare.
Così i Nostri Eroi laggiù non correranno rischi perché quelli dell’Isis staranno qui da noi (vabbene, restano tutti quegli altri già elencati), mentre i clienti della Maison Valentino sapranno di essere protetti da persone che hanno dimostrato sul campo le proprie innegabili capacità nel campo della Sicurezza.

martedì 15 dicembre 2015

Vita quotidiana in "'Occidente": la casa.


Dunque... Cosa aspettarsi in un posto come questo?
Facile che tocchi sbobba di casanza, in una cella di galera.

Qui, invece?
Tutta un'altra cosa: una food experience in una soluzione abitativa.

Una delle foto viene da internet e raffigura una galera qualunque.
L'altra invece è stata scattata a Firenze, in una strada senza traffico vicino a Piazza Puccini.
E' quasi sicuro che le didascalie siano ciascuna al posto giusto.

domenica 13 dicembre 2015

Firenze: il boiscàut Matteo Renzi chiama alle armi contro lo Stato Islamico



L'arsenale governativo presenta le proprie micidiali armi, a cominciare da una canzoncina cantata tutti in coro.
La politica "occidentale" è ricca di iniziative surreali e ridicole, ne sforna praticamente a getto continuo ed è molto impegnativo anche soltanto tenerne il conto.
Questa pare che meriti l'attenzione -e il dileggio, ovviamente- dei nostri lettori.

sabato 12 dicembre 2015

Alastair Crooke - Gli attacchi di Parigi. Su come costruire lo stato islamico aveva ragione Al Qaeda?


Traduzione da The World Post.

A tutt'oggi ci sono elementi sostanziali che appartengono agli eventi in corso ma che continuano a sfuggire. L'abbattimento dell aereo russo sul Sinai, i ripetuti attacchi suicidi dell'inizio di novembre a Beirut e gli attacchi di Parigi sono stati concepiti dai vertici dello Stato Islamico e messi a segno secondo i desideri e le direttive dei massimi livelli dello Stato Islamico di Raqqa o di Mossul?
Il Presidente francese François Hollande ha parlato di Raqqa ma non ha prodotto nessuna prova.
Se questi sono i fatti, e ammettiamo che lo siano, essi indicano un macroscopico mutamento nella strategia dello Stato Islamico. Tra le sue implicazioni, il fatto che l'Occidente potrebbe non essere più in grado di evitare il confronto per il fatto puro e semplice che sia lo Stato Islamico che Al Qaeda sono movimenti di origine wahabita, né potrebbe più permettersi di ignorare i lro intimi legami con l'Arabia Saudita che li ha messi in piedi, anche se oggi come oggi la Casa dei Saud teme che la propria mostruosa progenie abbia iniziato a ripulire l'Arabia dagli stessi Saud e a reinsediarvi lo wahabismo primigenio su cui il paese era stato fondato, l'"unico, vero Islam" sottolineato dallo Stato Islamico.
Dopo gli attacchi dell'undici settembre 2001 il fatto che quindici attaccanti su diciannove fossero cittadini sauditi è stato cancellato dal quadro, e sostituito con le asserzioni che indicavano in Saddam Hussein il detentore di un arsenale di distruzione di massa, cosa cui Washington voleva che il mondo prestasse maggiore attenzione. La portata storica di tutto questo, adesso, non sarà facile da ignorare.
Sarebbe bene che l'AmeriKKKa tirasse un respiro profondo e riconsiderasse radicalmente l'essenza delle proprie alleanze con paesi come Turchia e Arabia Saudita, due stati che hanno dichiarato apertamente la propria intenzione di continuare ad aiutare oggi in Siria tutto il complesso di forze favorevoli al califfato: Stato Islamico, al Qaeda e Ahrar al Sham. E' il caso di ricordare che i cittadini comuni, in Siria, una situazione come quella degli attentati a Parigi la vivono ogni giorno da ormai cinque anni. Difficile capire come l'Occidente possa andare avanti coi suoi ambigui flirt con certa gente dopo quello che è successo nel Sinai, a Beirut e a Parigi.
Cosa può essere stato a indurre lo Stato Islamico ad un così macroscopico mutamento strategico? Su un punto importante Al Qaeda e Stato Islamico non sono mai stati d'accordo: i vertici di Al Qaeda hanno chiaramente affermato che lo Stato Islamico abbia sbagliato a proclamare il califfato, uno stato islamico: a loro detta si è trattato di un'iniziativa prematura, presa in condizioni non favorevoli.
Le operazioni militari di Al Qaeda hanno l'obiettivo di "vessare ed esaurire" l'AmeriKKKa e i suoi alleati occidentali perché questo dovrebbe alla fine portare ad un'eccessiva esposizione della potenza occidentale sul piano morale, militare, politico ed economico. Un riflesso di questo diverso approccio al concetto di stato islamico è il fatto che Al Qaeda ha sempre operato e collaborato con altri gruppi di insorti siriani, laddove lo Stato Islamico rifiuta di collaborare e pretende invece sottomissione ed obbedienza assolute.
Lo Stato Islamico ha scelto l'assoluto, un anelito che esclude tutto il resto per stabilire il "primato di Dio", il califfato, qui e subito, su un territorio fisico che ha delle frontiere, un apparato amministrativo, basato sulla legge sacra e dotato di un sistema giudiziario. La differenza più grossa tra i due movimenti, in effetti, è rappresentata dalla territorialità. Al Qaeda agosce a livello mondiale, su base effimera e virtuale; lo Stato Islamico è territoriale.
Cosa succede se lo Stato Islamico teme di perdere la propria base territoriale? In Siria stanno succedendo strane cose: villaggi controllati per due anni dallo Stato Islamico vengono conquistati dalle forze governative in poche ore. L'Esercito Arabo Siriano o i suoi alleati compiono ovunque piccoli progressi territoriali nelle aree contestate: è presto per dire che lo Stato Islamico sta collassando, ma questo ptrebbe essere vero per una parte di esso.
Se lo Stato Islamico inizia a perdere la caratteristica che lo contraddistingue, ovvero l'essere una potenza territoriale tra Siria ed Iraq, i suoi vertici potrebbero arrivare a concludere che Ayman al Zawahiri aveva ragione, che Al Qaeda aveva ragione, e che lo Stato Islamico, a fronte della perdita della propria territorialità, deve adottare la strategia di al Qaeda. Al Qaeda da parte sua ha già invocato la costituzione di un fronte unico con lo Stato Islamico contro l'intervento russo ed iraniano in Siria.
E se invece che essere frutto di una decisione strategica dei vertici dello Stato Islamico la bomba sull'aereo russo e gli attacchi suicidi di Beirut e di Parigi fossero attacchi spontanei messi a segno da qualche formazione locale che si comporta allo stesso modo, invece che risultato degli ordini e dell'attività operativa di Raqqa o di Mossul? Il problema per l'Europa sarebbe in questo caso diverso, ma non per questo meno serio.
In un certo senso, le prove pubblicamente disponibili non fanno pensare ad iniziative condotte da Raqqa, e fanno propendere per la seconda ipotesi. Per quanto è dato sapere a tutt'oggi tutti gli individui coinvolti negli attacchi di Parigi sono cittadini europei. Sono stati atti di guerra che europei hanno commesso contro europei. Non è chiaro neppure se qualcuno dei partecipanti fosse reduce dalla guerra in Siria, perché l'autenticità di un passaporto siriano trovato sul luogo degli attacchi è stata messa in discussione.
Dunque, se l'ordine non è arrivato direttamente dallo Stato Islamico, per la prima volta in Europa sta prendendo forma una struttura clandestina come Al Qaeda: gli attacchi di Parigi sono stati ben progettati, ben preparati, ben eseguiti. Non è possibile considerare definitive le rivendicazioni perché ci sono stati casi in cui i vertici di questa o quella organizzazione islamica si sono assunti la responsabilità e hanno rivendicato un azione che non avevano ordinato, e nel rivendicarla avevano seriamente danneggiato il proprio movimento.
Robert Fisk ha scritto:
Omar Ismail Mostafai, uno degli attentatori suicidi di Parigi, era di origine algerina: lo stesso può essere per altri sospetti di cui sono stati fatti i nomi. Said e Cherif Kouachi, i fratelli che hanno massacrato i giornalisti di Charlie Hebdo, erano anch'essi di origine algerina. Venivano dalla comunità algerina in Francia, che conta oltre cinque milioni di persone per molte delle quali la guerra in Algeria non è mai finita e che oggi vivono nei ghetti di Saint Denis e nelle altre banlieue algerine di Parigi.
Se le cose stanno in questo modo, non solo la Francia, ma anche altri paesi europei dovranno fermarsi un momento e chiedersi in che modo la loro linea politica sia cambiata, passando da un ostentato multiculturalismo ad una sorta di "apartheid morbido", nel quale i cittadini musulmani d'Europa provano le discriminazioni e il disprezzo di molti dei loro concittadini. I politici europei non possono limitarsi a far finta di nulla sul contesto storico in cui i musulmani d'Algeria -a torto o a ragione- sentono che il loro mondo, il mondo sunnita, è entrato in crisi: i sunniti continuano ad essere marginalizzati, per giunta con la sensazione che il potere sunnita stia venendo usurpato. E neppure possono ignorare il fatto che un algerino può affermare "Je suis aujorurd'hui syrien" nello stesso senso in cui un britannico o un altro europeo qualsiasi può asserire "Je suis Paris". Bombardare Raqqa non servirà a nulla, ammesso e non concesso che dietro gli attacchi di Parigi ci sia Raqqa.
Affermare tutto questo non significa giustificare quanto è successo. Significa deplorare fino a che punto siamo diventati acquiescenti a fronte di comportamenti tanto miopi. Il puritanesimo wahabita è nato ai tempi di una crisi del mondo islamico ed è nato per purificare l'Islam con il fuoco e con la spada da tutti gli orpelli decadenti e dall'idolatria che lo avevano impastoiato. Oggi, con l'Islam sunnita in piena crisi in Europa, è lo stesso grido puritano che si leva dalle moschee di Parigi e di Londra, e anche da molte emittenti televisive dedicate.
Tutte finanziate dai sauditi e dai loro "alleati" del Golfo.

sabato 5 dicembre 2015

Buone feste. Un biglietto di auguri dal Nevada.


Sei secondi di fama per Michele Fiore, una del Nevada che ricopre -sicuramente nel più rappresentativo dei modi- una carica elettiva nel suo paese, che fa parte della più grande idiocrazia del mondo.
La foto ritrae un certo numero di sovrappeso, malformati, interdetti e minorenni che questa donna -la quinta da sinistra- asserisce essere "la sua famiglia".
Davvero una brutta cosa gli incroci tra consanguinei.
La didascalia indica personaggi e interpreti: gli acronimi indicano vari tipi di munizione, cameratura e caratteristiche varie. "Da sinistra a destra, arma da fuoco: David, Beretta 92S. Sheena: Glock 30 4SACP. Michele: Serbu Super Shorty 12GA. Lill: Extar EXP556. Jake: Walther P22 (22LR). Savanah: Glock 19 9mm. Kyle: Glock 30 45ASP. Grazie a Vernon Brooks".
Cercando informazioni su internet (sulle armi, non certo sulle persone) è venuto fuori che l'ordine di presentazione è sbagliato in almeno un caso e ha confuso un Lill con un Jake.
Speriamo almeno che non si sparino sui piedi.
Perché vi odiano?
Beh, ecco...