domenica 30 novembre 2014

Perché hanno perso. Un generale statunitense racconta da protagonista le guerre in Iraq ed in Afghanistan.


Traduzione da Asia Times.

"Sono un generale dell'esercito degli Stati Uniti, ed ho perso la guerra globale al terrorismo". Il luogotenente generale Daniel Bolger inizia così la sua storia delle guerre in Iraq ed in Afghanistan. "E' come dagli Alcolisti Anonimi: il primo passo consiste nell'ammettere di avere un problema. Bene: io ho un problema. E ce l'hanno anche i miei pari grado. Grazie a questo, adesso tutta l'AmeriKKKa ha un problema di cui prendere atto: due campagne militari perdute, ed una guerra in cui tutto è andato storto".
Bolger intende dire che i generali statunitensi, soprattutto David Petraeus, hanno propinato a politici in stato confusionale qualche rimedio provvisorio, destinato a diventare in futuro un problema anche peggiore.
Molti recensori hanno perso di vista questa conclusione; Andrew Bacevich sul New York Times e Mark Moyar sullo Wall Street Journal hanno scritto che è ai civili che tocca parte, e forse la maggior parte, della colpa.
Bachevich e Moyar non hanno alcun senso dell'umorismo, figuriamoci dell'ironia. Bolger dà la colpa ai militari, e raffigura i presidenti George Diabolus Bush e Barack Obama come disgraziatamente mal consigliati. La missione era impossibile, fin dal principio. Quando annunciò il "giro di vite" del 2007 contro l'insurrezione sunnita, il presidente Bush disse che gli Stati Uniti volevano trasformare l'Iraq in una "democrazia funzionante ed in grado di controllare il proprio territorio, che fa rispettare la legge, che rispetta i diritti umani fondamentali e sa dare risposte al proprio popolo".
Il problema, come spiega Bolger, è che un governo di maggioranza in Iraq significa guerra permanente. "Le questioni concrete -e spinose- erano ancora lì. Via Saddam, qualsiasi consultazione elettorale avrebbe portato al potere una maggioranza sciita. I sunniti non avrebbero più governato, in Iraq. In fin dei conti è stato questo a scatenare l'insurrezione. Senza lo sterminio degli arabi sunniti, le cose sarebbero andate come prima".
Il libro di Bolger dovrebbe essere pubblicato anche in russo ed in cinese. In entrambi i paesi esiste una solida corrente di pensiero, cui dànno sostegno alcuni eminenti esperti di politica estera, che pensa che gli Stati Uniti abbiano intenzionalmente agito in modo da destabilizzare la regione. Ora che l'AmeriKKKa è quasi autosufficiente per le risorse petrolifere, intende interrompere il rifornimento di petrolio alla Cina in modo da ribadire la propria egemonia mondiale.
Si tratta di conclusioni paranoiche e campate in aria, ma sono riflesso dell'incredulità con cui osservatori russi e cinesi hanno assistito allo spettacolo di un'AmeriKKKa apparentemente intenta a distruggere con le sue mani il proprio ruolo mondiale. Com'è stato possibile che gli ameriKKKani si siano comportati in modo tanto stupido? E' stato possibile eccome, e stupidi lo siamo stati. Bolger illustra dall'interno la catena di errori di valutazione che hanno portato alla situazione attuale; si tratta di spiegazioni convincenti, che andrebbero fatte circolare come antidoto ai pensieri paranoici.
Qualche tempo fa un rispettato esperto cinese ha sostenuto in un seminario di politica estera tenutosi a Pechino che prova del fatto che l'AmeriKKKa ha scientemente agito in modo da destabilizzare il Golfo Persico è che lo Stato Islamico è guidato da graduati sunniti armati e finanziati dal generale David Petraeus, che era comandante statunitense durante il "giro di vite" del 2007-2008. A dire il vero, si tratta di una constatazione fondata. Lo Stato Islamico dimostra una impressionante capacità di leadership e riesce a dispiegare tattiche che contemplano il dispiegamento di grandi unità e l'utilizzo di equipaggiamenti sofisticati. Molte di queste cose le ha imparate dagli ameriKKKani. Il fatto è che gli ameriKKkani si sono comportati tenendo presente l'espediente politico a breve termine piuttosto che gli effetti negativi nel medio periodo.
Secondo Bolger, l'AmeriKKKa non si doveva imbarcare in una missione sbagliata.
La guerra di Bush iniziò con il letterale schiacciamento di Al Qaeda e dei suoi sostenitori talebani in Afghanistan. Dopo poche settimane dall'Undici Settembre gli obiettivi principali erano stati raggiunti: non del tutto, non completamente, ma in una buona misura probabilmente sì. Se a quel punto ci fossimo fermati e fossimo tornati alla metodica caccia ai gruppi terroristici e ai loro sostenitori islamisti, al lavoro lento e lungo dei tempi di Clinton, probabilmente saremmo riusciti nel nostro intento... Con la rapida cattura di Baghdad ci si presentò ancora una volta l'occasione avuta dopo la caduta di Kabul: chiudere con le operazioni militari su vasta scala, ed intraprendere di nuovo il lento, costante, quotidiano lavoro di pressione per contenere le minacce islamiste a livello mondiale. Anche quel momento passò. Invece di fare questo... dopo un dibattito interno ridotto a poche battute, in cui -cosa importante- dagli ambienti militari non si levò alcuna obiezione, l'amministrazione decise di intraprendere due lunghe campagne antiinsurrezione tutt'altro che decisive.
Bisogna sapere quello che si vuole: ora nel 2006 gli USA avevano sostenuto le elezioni nazionali in Iraq, e avevano portato al potere il leader sciita Nouri al Maliki. La prima cosa che al Maliki fece fu espellere i sunniti dall'esercito. I sunniti iracheni, temendo la vendetta sciita, si rivoltarono e l'Iraq si dissolse nelle violenze. In risposta a tutto questo un gruppo di ufficiali inferiori che operava nella provincia di al Anbar, a maggioranza sunnita, ideò la macchinazione che fece da nucleo per il "giro di vite". Furono dislocati altri ventimila soldati per reprimere l'insurrezione sunnita, ma ad avere gli effetti migliori fu il pagare i sunniti perché si astenessero dall'impugnare le armi per tutto il tempo dell'intervento. Come riferisce Bolger,
I gruppi tribali della provincia di al Anbar avevano sempre aiutato Al Qaeda in Iraq... I singoli sceicchi che non si dicevano d'accordo, perdevano la testa. Le famiglie venivano aggredite, le loro case distrutte, le loro auto bruciate. Gli uomini di Al Qaeda in Iraq iniziarono ad imporre una disciplina wahabita: basta scommesse sui cavalli, basta alcol, basta fumo. Insomma, alla fine i capi di Al Qaeda in Iraq riuscirono ad imporsi: i purosangue filopersiani di Baghdad erano lontani. Rimanevano gli ameriKKKani, ma si interessavano poco a quello che gli sceicchi combinavano insieme alle loro tribù. Costretti a scegliere tra il giogo di Al Qaeda e l'esercito ameriKKKano, i leader tribali scelsero di provare con gli ameriKKKani.
L'espediente funzionò. Petraeus, che stava brigando per ottenere il comando della piazza dal suo posto di ufficiale organico a Leavenworth, in Kansas, ascoltò con attenzione quello che gli ufficiali inferiori gli proponevano. Bolger non mostra alcuna indulgenza per i maneggi di Petraeus. "La bassa ufficialanza si chiedeva quali fossero le sue vere intenzioni: erano motivi di servizio o di carriera personale? Con Petraeus non si poteva mai essere sicuri, ma il più delle volte si poteva pensare che si trattasse di voglia di far carriera, il che voleva dire guai". 
I gradi più alti dell'esercito si opponevano in blocco all'intensificare le operazioni; il presidente Bush si mise in cerca di un graduato che potesse migliorare le cose in Iraq, e lo trovò in Petraeus. Bolger aggiunge che
Nel corso dell'estate del 2007, insieme all'aumentata presenza di truppe a Baghdad, l'operazione "Risveglio Sunnita" pose effettivamente fine al bagno di sangue settario. La resistenza sunnita si trovò divisa, e rimase divisa per tutto il restante tempo della campagna statunitense. Non fu una vittoria, almeno non lo fu sceondo alcuno dei criteri che gli ottimisti ameriKKKani si erano dati nel 2003, che pareva un'altra vita. Comunque, era un qualche cosa che somigliava ad un progresso.
...L'operazione "Risveglio Sunnita" si espanse rapidamente... Sempre consapevole dell'importanza che ha il saper vendere, [il comandante in Iraq generale David] Petraeus e le figure a lui più vicine cercarono un nome più evocativo. Con l'approvazione del Primo Ministro Nouri al Maliki, i sunniti furono ribattezzati "I Figli dell'Iraq".
In AmeriKKKa a far notizia era l'aumentata presenza di truppe statunitensi; in Iraq, invece, l'operazione "Risveglio Sunnita" definì una volta per tutte le differenze in materia di tassi di logoramento. 
...I Figli dell'Iraq si mostrarono oltremodo leali. Il movimento Sahwa poteva contare su un migliaio di uomini, per metà dislocati dentro e attorno a Baghdad; permetteva ai sunniti di girare armati legalmente e di essere stipendiati; in questo modo eliminava molti degli incentivi che spingevano verso una "resistenza onorevole". In Iraq, è stato di gran lunga il programma per l'impiego di maggiore ampiezza e di maggior successo... Il Sahwa, comunque, pagò decine di migliaia di arabi sunniti per ammazzarsi a vicenda. Non erano ameriKKKani. A costo di sembrare cinici, era impossibile non concordare con i risultati. I Figli dell'Iraq riuscirono a schierare un numero di sunniti in armi sei volte superiore alle stime della forza avversaria. La cosa mostrò la potenziale ampiezza, e la capacità di resistere ai rovesci, possedute dall'insurrezione sunnita.
La questione potrebbe essere sintetizzata in modo anche più spiccio: finanziando ed addestrando i "Figli dell'Iraq", Petraeus e i suoi hanno messo in piedi gli elementi della nuova insurrezione sunnita che oggi usa il nome di Stato Islamico, detto anche Stato Islamico in Iraq e nel Levante.
Andrew McGully descrisse per France Presse il primo incontro delle tribù sunnite con Petraeus ed i suoi, avvenuto nel 2007 vicino a Baghdad.
"Dite come posso aiutarvi", chiede il maggiore generale Rick Lynch, comandante della coalizione a guida statunitense nell'Iraq centrale... Uno [dei capi tribù] parla di armi, ma il generale insiste: "Posso darvi denaro, perché lavoriate al miglioramento nella zona. Quello che non posso fare -questo è molto importante- è darvi armi".
L'atmosfera seria del consiglio di guerra, che si tiene in una tenda nella base avanzata Statunitense di Camp Assassin, si allenta per qualche secondo: uno dei capi locali iracheni afferma, con l'aria di uno che scherza ma che sa quello che sta dicendo: "Nessun problema: le armi in Iraq costano poco".
"E' vero, è proprio vero", risponde ridendo Lynch.
In un saggio scritto per Asia Times nel 2010 ed intitolato "Il generale Petraeus alla guerra dei trent'anni" affermavo che "dopo aver fornito armamenti a tutte le parti in conflitto e dopo averle tenute separate con la minaccia delle loro armi, gli Stati Uniti vorrebbero ora disimpegnarsi lasciando in piedi qualche governo di riconciliazione nazionale, che dovrebbe persuadere milizie ben armate e ben organizzate ad attenersi alle regole. Si tratta, con ogni probabilità, della cosa più demenziale che una potenza imperialista abbia mai fatto. Gli inglesi, almeno, praticavano il divide et impera: gli ameriKKKani invece vorrebbero dividere e sparire. Prima o poi tutta questa architettura mal congegnata finirà col crollare, e nessuno lo sas meglio del generale Petraeus".
Nel 2010 il generale Stanley McChrystal dirigeva le forze statunitensi in Afghanistan con lo stesso obiettivo, che era l'edificazione di un sistema-nazione. Bolger ha il dente particolarmente avvelenato nei confronti di McChrystal e del suo insistere sulla propria "coraggiosa compostezza" che significava accettare che gli Stati Uniti soffrissero maggiori perdite pur di ridurre il numero di vittime civili in Afghanistan, che a lungo andare poteva provocare una "perdita del sostegno popolare".
Per i rudi uomini delle trubù pashtun, tutto questo non significò disciplina o compostezza, ma debolezza. Non si capiva perché mai una parte significativa della popolazione afghana avrebbe finito con solidarizzare con migliaia di stranieri infedeli. La popolazione locale il più delle volte odiava i talebani, ma gli insorti talebani erano di quelle parti mentre le truppe dell'ISAF non lo erano. Come succede con le "sconfitte stratgiche", McChrystal confuse i quotidiani sproloqui di Hamid karzai [il presidente afghano] con il parere di chi vive nei villaggi dell'Afghanistan. La maggior parte dei pashtun comuni si rivelò fatta di un materiale più coriaceo, ed accettò il fatto che in una guerra a volte gli innocenti ci rimettono la vita. Gli afghani non avrebbero mai amato l'ISAF, ma potevano ben temere e rispettare le truppe di occupazione. Invece, con una guida improntata a criteri del genere, anche questo era diventato poco probabile.
Secondo Bolger, le operazioni controinsurrezione funzionano soltanto se la potenza occupante è disposta a rimanere sul terreno a tempo indeterminato, come hanno fatto gli Stati Uniti in Corea. In tutti gli altri casi la guerriglia finisce per prevalere, e l'AmeriKKKa non aveva lo stomaco per sopportare un'altra decina d'anni di guerra. Il governo di al Maliki, che pure doveva la sua esistenza al burattinaio statunitense, non voleva ameriKKKani nel paese e ha fatto giorno di festa nazionale della data in cui gli ameriKKkani se ne sono infine andati.
Il libro di Bolger è redatto con intelligenza e con indiscutibile accuratezza. Merita attenzione, perché si tratta del documentato punto di vista di qualcuno che è soldato e storico al tempo stesso, e che ha partecipato agli eventi narrati. E' verosimile che avrà un suo posto, nel più ampio dibattito politico su cosa è andato male in Iraq ed in Afghanistan.
Secondo la corrente principale del partito repubblicano, ammettere gli errori di cui Bolger riferisce in modo documentato mette a rischio la reputazione di troppi repubblicani. Nonostante questo, una corrente piuttosto consistente sta abbandonando le posizioni della maggioranza. Uno tra gli ultimi ad averlo fatto è l'editorialista conservatore George F. Will, che il 13 novembre ha scritto che sarebbe un bene che le posizioni eterodosse riemergessero, all'interno del dibattito repubblicano sulla politica estera.
Gli ameriKKKani in generale, ed i repubblicani in modo particolare, stanno guardando al mondo con occhi nuovi. L'ultimo libro di Henry Kissinger, World Order, identifica con abilità la condizione mentale di bipolarismo che contraddistingue l'AmeriKKKa in materia di politica estera; una condizione ineliminabile e congenita. "La convinzione che i principi ameriKKKani abbiano validità universale", afferma Kissinger, "ha introdotto un elemento di sfida all'interno del sistema internazionale perché implica il fatto che i governi che non mettono in pratica gli stessi principi abbiano una legittimazione incompleta". Questo "fa pensare che una considerevole parte del mondo viva in qualche modo in condizioni poco soddisfacenti e provvisorie, dalle quali sarà un giorno liberata; fino a quando questo non succederà, le loro relazioni con la maggiore potenza mondiale devono per forza comprendere un qualche elemento che è ad essa latentemente avverso."
Questa visione utopistica descritta da Kissinger sta perdendo consensi, secondo Wills:
Gli ultimi undici anni sono stati fitti di dure lezioni. L'invasione dell'Iraq nel 2003 è stata la peggior decisione in politica estera in tutta la storia degli Stati Uniti ed è giunta in concomitanza con lo stagnare della missione in Afghanistan (la costruzione di un sistema-nazione). Entrambe le cose hanno rafforzato quella che possiamo chiamare la fazione dei repubblicani alla John Quincy Adams: l'AmeriKKKa "non va altrove per cercare mostri da distruggere. L'AmeriKKKa è benevolente tutrice della libertà e dell'indipendenza di tutti. Essa è campione e vendicatrice solo di se stessa".
John Quincy Adams fu quinto presidente degli Stati Uniti. Il fatto che Wills lo citi viene da un saggio di politica estera scritto da Angelo Codevilla, il cui ultimo libro To Make and Keep Peace è stato da me recensito alcuni mesi fa su Claremont Review of Books. Ora, una nuova generazione di repubblicani si sta contendendo la guida del partito: basti pensare a Ted Cruz e a Scott Walker. E' una generazione che non porta il peso di alcuna complicità nei disastri in politica estera commessi ai tempi di Bush.
Nel corso degli ultimi dieci anni il partito repubblicano ha portato il peso dei peccati dell'amministrazione Bush come se fosse la catena che il fantasma di Marley è costretto a portare nel Racconto di Natale di Charles Dickens. George Willis scrive che "la politica estera statunitense può ripartire con nuove basi". Bolger ha contribuito in modo importante al dibattito, e merita una lettura attenta da parte di tutti coloro che vogliono capire in che modo l'AmeriKKKa intende muoversi nella attuale confusione.
Bolger ha ricevuto anche delle critiche; i suoi critici farebbero meglio a dotarsi di senso dell'ironia, la stessa ironia che Bolger ha fatto propria e che viene dalle avventure picaresche ambientate ai tempi della Guerra dei Trent'Anni che Hans Christoffel von Grimmelshausen ha descritto nel suo L'avventuroso Simplicissimus.


Why We Lost: A General's Inside Account of the Iraq and Afghanistan Wars, Daniel P Bolger. Houghton Miflin Harcourt (Novembre 2014). ISBN-10: 0544370481. 544 pagine.

David P Goldman è Senior Fellow al London Center for Policy Research ed Associate Fellow al Middle East Forum. Il suo libro How Civilizations Die (and why Islam is Dying, Too) è uscito per Regnery Press nel settembre del 2011. Un volume di saggi su argomenti culturali, religiosi ed economici intitolato It's Not the End of the World - It's Just the End of You, è stato pubblicato da Van Praag Press.

martedì 25 novembre 2014

Contro Socialismo Rivoluzionario. Un'altra recensione al libro curato da Stefano Santarelli.


La Guida Suprema della Repubblica Islamica dell'Iran tra gli alti quadri del sepah-e pasdaran-e enghelab-e eslami.

Socialismo Rivoluzionario è un gruppo settario endogamico di cui abbiamo già trattato.
A suo tempo recensimmo un libretto che ne ricostruiva la storia e che permetteva di farsi un'idea del come mai, nella realtà residuale e prodigiosamente litigiosa rappresentata dalla politica militante, Socialismo Rivoluzionario ed i suoi attivisti riescano a quadrare il circolo attirando su di sé concordi ed aperte attestazioni di disprezzo. 
Il blog di Giorgio Franchi pubblica nel novembre 2014 una recensione dello stesso testo che riportiamo per intero. L'immagine in alto invece viene dal repertorio iconografico che più contraria Socialismo Rivoluzionario ed i suoi iscritti.
Pardon, le sue iscritte ed i suoi iscritti, sempre così attente ed attenti alle vittime e ai vittimi.
Praticamente un omaggio dovuto.

Dopo Lotta Comunista sicuramente nelle mie memorie universitarie il secondo posto è riservato a quelli di Socialismo Rivoluzionario, meno organizzati dei loro colleghi leninisti duri e puri, ma ugualmente irregimentati e con una serie di elementi che potrebbero avvicinare questa formazione più a una setta che a un movimento politico. Fate una ricerca in google per parole chiave e fatevi un'opinione vostra.
Invito anche tutte/i a leggere questo bellissimo libro uscito per i tipi Massari Editore curato da Stefano Santarelli.
Il libro in oggetto è l'unico nel panorama nazionale che si lancia in una critica talmente ben documentata ed impietosa di SR quanto del suo leader-guru Dario Renzi al secolo Dario De Sanctis, che quest'ultimo ha ordinato espressamente ai suoi accoliti di non leggere questo libro.
Il libro parla dell'evoluzione/involuzione di De Sanctis [perché a conti fatti tutto ruota attorno a lui] dal trotzkismo degli anni '70 fino all'invenzione odierna del cosiddetto “Umanesimo Socialista”, dalla Lega Socialista Rivoluzionaria a Socialismo Rivoluzionario. Non si può certo dire che il libro sia stato scritto basandosi sui sentito dire: tanto Stefano Santarelli quanto Roberto Massari sono stati stati protagonisti di quegl'anni e il De Sanctis lo hanno conosciuto veramente, tanto che nei loro contributi ricostruiscono la storia del periodo trotzkista del quale De Sanctis non parla volentieri. Un passato epurazioni, maldicenze verso i compagni ritenuti non conformi alla linea o rei di essere possibili rivali che imponevano un conformismo ferreo, tutte caratteristiche che a ben vedere non sembrerebbero estranee all'attuale SR nelle sue sorprendenti acrobazie politico/tattiche basate nella fase marxista libertaria [quella che precede l'umanesimo socialista] da una rilettura arbitraria e falsata di Rosa Luxemburg [si veda il contributo “Giù le mani da Rosa Luxemburg!” di Michele Nobile].
Lo spietato conformismo e le epurazioni dei non-allineati è un retaggio di quel trotzkismo alla Nahuel Moreno e alla S.W.P. americano nella sua fase discendente che imponevano prima di tutto, anche contro ragione, la salvaguardia non dell'idea ma della struttura/apparato. Purtroppo queste tare invece di diluirsi nella fase libertaria (?) e/o umanista si sono involute ulteriormente arrivando ad un culto della personalità del capo che ha antecedenti in Italia solo nelle formazioni di stampo maoista [vedi il caso dell'ex-maoista Aldo Brandirali]. Per capire quanto il conformismo e l'adesione a-critica alle idee del leader-guru siano sedimentate basta leggere i contributi di difesa foto-copia all'articolo di Massari che ricostruisce le marachelle giovanili di De Sancits: medesimi artifici linguistici, medesima costruzione semiotica e neologismi ripetuti ossessivamente soprattutto sulla loro stampa esterna [ultimo loro giornale La Comune]. A prima vista sembrerebbe programmazione neuro linguistica invertita, se no come spiegare l'inspiegabile? Astensionisti, poi spalla del centro-sinistra e di nuovo astensionisti; oppure pacifisti ma con simpatie anti-serbe a-priori durante la guerra balcanica ed oggi con simpatie pro-jihadisti in Siria [basti leggere l'articolo/ode sul fondamentalista genovese Giuliano Ibrahim Delnevo terminato in Siria], pazzesco! D'altra parte De Sancits/Renzi detta la linea e questa non si discute. Ma in definitiva SR è una setta? Secondo il contributo molto acuto e profondo di Miguel Martinez ci starebbe un bel SI [qui si può leggere una riflessione di Martinez sul suo contributo].

lunedì 24 novembre 2014

Gli Stati Uniti non imparano niente dalla storia e sono condannati a ripetere gli stessi errori



Traduzione da Conflicts Forum.

William Polk  è un esperto di lungo corso di cose che riguardano la politica estera ameriKKKana; a suo tempo fu uno dei tre uomini che gestì la crisi dei missili a Cuba durante il confronto tra Kennedy e Krushev; ci avverte, con toni perentori, che ci stiamo dirigendo dritti verso un altro momento di altissima tensione foriero di altrettanti, persino apocalittici pericoli, che potrebbero arrivare fino alla guerra vera e propria. Afferma che le dinamiche che ci stanno spingendo oggi verso un conflitto sono le stesse che hanno agito ai tempi della crisi dei missili a Cuba: la nostra incapacità di capire in che modo l'avversario percepisca noi, il rifiuto di prendere in considerazione l'altrui visione delle cose e l'altrui visione della storia, e persino il rifiuto stesso dell'idea che potrebbe esserci anche un'altra verità oltre alla nostra.
In breve, noi diamo per scontato che i russi pensano e vedano le cose allo stesso nostro modo, e che siano loro ad essere nel torto: devono essere nel torto. Altrimenti, perché mai non vedono e non interpretano il mondo come lo vediamo e lo interpretiamo noi, con altrettanta razionalità? E se si comportano in modo opposto rispetto alle nostre aspettative, non è che lo fanno perché hanno un modo diverso di vedere le cose, ma perché vogliono arrivare allo scontro armato.
Ad impressionare maggiormente, nel racconto di Polk su tutte le lezioni di cui non abbiamo fatto tesoro, è il fatto che un ex ufficiale russo assai esperto ci aveva appena riferito esattamente le stesse cose, ovvero che sembra che stiamo seguendo lo stesso pericoloso copione che portò alla crisi dei missili a Cuba.
William Polk scrive:
Alcuni mesi prima che la crisi [del 1962] scoppiasse, andai a fare un viaggio in Turchia. In Turchia visitai una base dell'USAF dove c'erano dodici cacciabombardieri pronti al decollo. Due di questi erano sempre in condizione di operatività immediata, con i motori in funzione e i piloti ai loro posti. Tutti e due gli aerei erano in posizione di decollo, ciascuno armato con un ordigno nucleare da un megatone e istruito per colpire un bersaglio in Unione Sovietica. A poca distanza, sul Mar Nero a Samsun, vidi gli aerei radar di uno squadrone della RAF mentre mettevano alla prova le difese aeree sovietiche della Crimea. Da qualche altra parte in Anatolia, in una località che si presumeva segreta, un gruppo di missili Jupiter americani era pronto, armato e in posizione di lancio.
Tutte queste armi erano difensive o offensive? Erano una minaccia contro l'Unione Sovietica o erano una difesa per il "mondo libero"? I miei colleghi nel governo americano pensavano che fossero armamenti difensivi: erano parte del nostro sistema di deterrenza e stavano dove stavano per proteggere noi, non per minacciare i russi.
I russi erano di tutt'altra idea. Così, decisero in risposta di collocare alcuni dei loro missili a Cuba. I loro strateghi credevano che controbilanciando gli armamenti che noi avevamo messo a ridosso delle loro frontiere, anche i loro armamenti fossero parte di un sistema difensivo. Noi ovviamente non la vedevamo in questo modo: interpretammo le loro mosse come inequivocabilmente ostili, e per far loro togliere di mezzo quei missili arrivammo quasi alla guerra.
Rinsavimmo tutti ad un passo dall'inevitabile. Noi togliemmo i nostri Jupiter, e i russi tolsero i loro armamenti da Cuba.
La prima cosa che avremmo dovuto imparare da questa mezza catastrofe fu che dovevamo provare a capire il punto di vista dell'avversario. Come avevo specificato nei mesi che precedettero la crisi, i russi avevano un vantaggio: i missili che avevamo dislocato in Turchia erano vecchi, Avevano bisogno di combustibile liquido, e ci volevano vari minuti per lanciare un missile che usava quel tipo di propellente. Se si doveva usarli, dovevano partire prima che i missili sovietici o un qualche loro aereo potesse distruggerli al suolo. Questo significa che potevano essere usati solo per un primo attacco. Per definizione, un primo attacco è qualcosa di offensivo.
Feci presente che era il caso di togliere i missili dalla Turchia. Non lo facemmo. I nostri militari li vedevano come parte integrante del nostro sistema difensivo. Li lasciammo in posizione fino a quando i russi non misero i loro missili a Cuba. A quel punto li togliemmo, ma ci liberammo dei nostri missili solo quando i russi si liberarono dei loro. Così, in un certo senso, la crisi dei missili finì con uno scambio reciproco. Pensai che era stato un modo molto sconsiderato di mettere in pericolo il mondo intero.
Così andarono le cose allora, e così vanno oggi: cosa si pensa negli Stati Uniti ed in Europa di quello che si sta tentando di fare in Ucraina? Si sta cercando di "costruire un'Ucraina orientata ad Occidente, integrata nell'Occidente, prospera, territorialmente integra, sicura e democratica".
Per molti europei questo obiettivo è semplicemente l'ovvio riflesso dell'attrattiva di civiltà esercitata dall'Unione Europea. I russi la vedono diversamente. I russi sanno bene che l'Ucraina è solcata da profonde divisioni e da rancori antichi e pensano che l'Occidente stia usando queste vecchie ruggini per creare una piattaforma offensiva allo scopo di indebolire la Russia. La presidenza russa ha reagito mettendo al sicuro la storica base della marina russa ed esercitando forti pressioni nel Donbass contro una Kiev ormai ostile. La questione si ripresenta: la reazione russa in Ucraina è offensiva o difensiva?
La Russia considera difensive le proprie mosse; difensive come possono esserlo in una ltta per l'esistenza. L'Occidente non la pensa così. L'Occidente considera le mosse russe nientemeno che una minaccia per tutto l'ordine postbellico europeo, ed ha schierato i suoi "missili" a ridosso delle frontiere russe. Certo, in questo nuovo modo di guerreggiare non si tratta di bombardieri veri e propri, come quelli che William Polk vide in Turchia pronti sulle piste e con i motori accesi. Sono invece bombardieri del Tesoro degli Stati Uniti, carichi di bombe al neutrone di tipo finanziario. Sono le sanzioni, ideate in modo da danneggiare le future rendite petrolifere dei russi. L'Occidente pensa che possano servire come deterrente, come lezioncina correttiva utile a far sì che la Russia non si comporti male un'altra volta. I russi, invece, li considerano come un atto di  guerra. Un atto di guerra contro il Presidente Putin, e contro la Russia stessa.
La Russia reagisce difendendosi, dal suo punto di vista; e reagisce creando un sistema finanziario e commerciale parallelo assieme alla Cina. L'Occidente la pensa in un altro modo. Il prezzo del petrolio crolla di quasi un terzo. Secondo l'Occidente si tratta sempcliemente di una reazione tecnica alle condizioni in cui si trova il mercato. I russi, ricordando come l'Arabia Saudita si è adoperata per far crollare il prezzo del petrolio nel 1986 causando in questo modo l'implosione finanziaria dell'Unione Sovietica, non sono d'accordo. I russi ricordano cosa è successo e adesso danno che sono entrati in un percorso che può portare alla guerra. Potrebbe trattarsi di una guerra vera e propria, o di una guerra del nuovo genere inventato dal Tesoro degli Stati Uniti.
La crisi dei missili a Cuba quali insegnamenti praticabili ci ha lasciato, adesso che Kiev ha tenuto le sue elezioni, il Donbass le sue controelezioni, che Kiev schiera forze armate riequipaggiate e il Donbass milizie rifornite e rinforzate?
Il primo insegnamento che William Polk illustra è che, contrariamente a quello che si dice di solito, l'AmeriKKKa non fronteggiò Krushev con un'indiscriminata esibizione di muscoli. L'AmeriKKKa rimosse alla chetichella i propri Jupiter dalla Turchia, e i russi fecero lo stesso con i loro missili a Cuba. Non furono i russi a mollare perché sottoposti a pressione, come si è sempre affermato nella vulgata popolare. A crisi conclusa, quando gli eventi furono riprodotti sottoforma di wargame per trarne le opportune conclusioni, i funzionari ameriKKKani arrivarono a capire che se Kennedy avesse continuato a far salire la tensione, invece di farla scendere, AmeriKKKa e Russia sarebbero arrivate alla guerra, ad una devastante guerra nucleare.
Per quale motivo? Perché il "gioco" rivelò che la teoria della deterrenza affondava in concetti antropologici sbagliati. Uno stato non pensa come se fosse un singolo individuo: uno stato è una comunità con una storia multiforme, che prende forma secondo linee che riflettono usanze comuni svariate. Uno stato non si comporta necessariamente come si comporterebbe un singolo individuo, specialmente se questo "individuo" viene concepito come guidato da un comportamento razionale volto alla massimizzazione degli utili e alla minimizzazione dei rischi. I colleghi di Polk giunsero piuttosto alla conclusione che si trovavano davanti a delle leadership di governo. E queste leadership, per una vasta serie di fattori psicologici e legati alla competizione, possono semplicemente concludere che non possono correre il rischio di essere i primi a fare un passo falso senza curarsi di quello che ne può derivare.
Il sottinteso di tutto questo sta nel pericolo di fare proprio l'errato assunto che dal momento che i nostri organi sensoriali sono sostanzialmente gli stessi, dovremmo tutti percepire il mondo in modo più o meno simile. La realtà è troppo sfuggente perché questo avvenga: quella che a qualcuno sembra la lettura chiara di una certa situazione, cui corrispondono altrettanto chiari e razionali atti difensivi, per qualcun altro può essere qualcosa di completamente diverso, qualcosa di completamente opposto: un comportamento puramente aggressivo. In sostanza, William Polk ci ricorda che dovremmo essere tutti consapevoli di quanto è facile che in politica estera un qualche cosa che ci sembra difensivo venga invece interpretato come offensivo.
Sembra probabile che queste ammonizioni abbiano trovato a Washington qualche attento ascoltatore. In un articolo sul Financial Times il redattore di The National Interest scrive che i leader repubblicani, all'indomani del loro smaccato successo elettorale nelle elezioni di mid-term, adesso possono anche esultare per quella che può sembrare una rivalsa. Per tutto il corso della campagna elettorale i neoconservatori hanno fatto moltissime pressioni sul Presidente Obama per via della sua presunta debolezza in politica estera: ecco che arrivano gli "smaccati successi elettorali", a legittimare la loro intransigenza priva di rimpianti.  Certamente Obama deve tenere presente la scadenza del suo mandato e potrebbe anche usare il tempo che gli resta per cercare di rovesciare le cose, ma non c'è dubbio sul fatto che se deciderà di comportarsi in questo modo dovrà vedersela con una forte corrente avversa.
In Occidente, la narrativa repubblicana che attribuisce i fallimenti in politica estera alla debolezza della presidenza verrà considerata come un qualche cosa che "è solamente roba politica", un qualche cosa che riflette i cambiamenti e le giravolte tipici dei contesti elettorali. I russi, e molti altri in Medio Oriente, già oggi vedono le cose in tutt'altro modo. Si veda qui lo scritto di Raghada Dragham sullo Al Arabiya, in cui si tratta di quello che vanno dicendo adesso i repubblicani. Secondo loro, chiunque sarà il prossimo presidente -ma anche Obama stesso, se ci saranno altre pressioni da parte della politica interna- si mostrerà maggiormente aggressivo verso la Russia, verso l'Iran e verso il governo siriano. In Russia e in Medio Oriente i risultati elettorali non vengono intesi come "solamente roba politica", ma come le premesse per una escalation.
E' possibile evitare la escalation? SI possono ritirare gli equivalenti degli Jupiter e dei missili cubani? Esiste una soluzione semplice come questa? Quali elementi vanno considerati i "missili difensivi" dei russi? Questo è piuttosto chiaro: una Ucraina non allineata, non escludente, che non contempli scenari geoeconomici che impongano al vicino una condizione di sudditanza, in cui i poteri vengano decentrati da Kiev alle regioni, in cui il russo ritorna lingua ufficiale ed in cui cessano le politiche di sussidio sul gas russo.
In Europa, una posizione da paese non allineato non è mai stata intesa come estranea. l'Europa potrebbe semplicemente ritirare i suoi missili, rappresentati dalla posizione "inclusione nella NATO e nella UE", se i russi ritirassero  propri, che sono rappresentati dalla militarizzazione della milizia ostile a Kiev. Una cosa del genere non dovrebbe coinvolgere nessun diplomatico, perché riguarda per intero l'Ucraina. Purtroppo, però, non è così e così non è mai stato.
L'ostilità ameriKKKana per la Russia ha a che fare tanto con la percezione che l'AmeriKKKa ha del proprio stesso declino quanto con l'Ucraina in sé. L'Ucraina sta a rappresentare un problema psicologico molto più radicato, ed è questo il motivo per cui le tensioni con la Russia sono destinate ad aggravarsi. Il conflitto con la Russia si inasprirà, a meno che un qualche capo politico ameriKKKano non riesca a controllare questi sintomi di ansia condivisa che, a livello di singoli esseri umani, hanno a che fare con la modalità con cui gli altri ci percepiscono. Gli psicologi sanno che questi timori, individuali o collettivi che siano, emergono spesso inconsciamente attraverso l'uso di un linguaggio o di comportamenti aggressivi, e probabilmente qualcosa di simile è emerso nelle elezioni di mid-term.
Purtroppo, Obama non è mai stato forte nel controllare la percezione che l'AmeriKKKa ha di se stessa. Obama, questo è vero, ha cercato di cambiare il segno che l'AmeriKKKa lascia nel mondo, perché esso fosse il riflesso di un mondo che sta cambiando. In questo, qualche successo lo ha anche ottenuto.  Però, ha anche fatto propria la retorica che esalta lo eccezionalismo e la indispensabilità ameriKKKani. In altre parole ha cercato di controllare gli aspetti pratici del mutamento, ma al tempo stesso, usando il linguaggio che ha usato, non soltanto non ha indebolito, ma ha in pratica rinforzato la resistenza ad un mutamento psicologico che è necessario. Certamente, ogni variazione nella condotta del paese necessita nella stessa misura sia di una preparazione psicologica sia di una messa in pratica vera e propria.

sabato 22 novembre 2014

Lo Stato Islamico. "I barbari, bene o male, erano una soluzione..."



Traduzione da Conflicts Forum.


E ora, che ci succederà senza i barbari?
Loro, bene o male, erano una soluzione.

C.P. Kavafis (1863-1933), poeta greco.

In AmeriKKKa si discute se la politica estera del Presidente Obama possa essere considerata come improntata ad una "realistica moderazione" o se invece non rientri nelle correnti di più recente sviluppo nell'àmbito della "egemonia liberale". Barry Posen del MIT considera Obama un moderato realista; altri invece mostrano come invece di fare un lavoro di preparazione -che è la premessa necessaria per qualsiasi cambiamento- presso il pubblico ameriKKKano in previsione del ritorno allo storico atteggiamento "non interventista" dell'AmeriKKKa, il Presidente a West Point abbia messo l'accento sullo "eccezionalismo" ameriKKKano e sulla "indispensabilità" della nazione, e come più tardi abbia prontamente denigrato il Presidente Putin, facendone una minaccia vera ed attuale per l'Europa e per l'Ordine Mondiale corrente. Questo fa pensare che la retorica utilizzata sia più quella di un "interventista liberale" che non di un "moderato".
La questione, tuttavia, non centra il punto. La nuova avventura di Obama in Medio Oriente, contro lo Stato Islamico, va inquadrata in una corrente del pensiero statunitense che non rientra fra quelle citate. Non si tratta né di "realismo" né di un rifacimento del Medio oriente improntato alla mera egemonia liberale. Piuttosto pare una guerra priva di qualunque strategia, concepita come un fallimento. Cominciata con difficoltà, si è già arenata. Cosa sta succedendo, dunque?
Richard Norton-Taylor ha ragione quando scrive che bombardare lo Stato Islamico è "inutile". Lo Stato Islamico ha messo piede sul terreno ben prima che i bombardamenti cominciassero; è un gruppo che ha adottato una struttura organizzativa piatta, orizzontale, il che significa che non dispone di grossi quartier generali,  di magazzini di battaglione, di centri di comando e controllo, e che non presenta bersagli evidenti. Lo Stato Islamico si comporta come un organismo dotato di rizomi. Si dia un'occhiata ai rapporti sui bombardamenti aerei: un paio di Humvee distrutti qui, o un blindato colpito là. Se i raid aerei abbiano immobilizzato o distrutto lo Stato Islamico non è neanche in discussione: lo Stato Islamico non soltanto non sta battendo in ritirata, ma si sta espandendo: ha conquistato due città nell'Iraq occidentale, travolto una base militare irachena in cui si trovavano centinaia di soldati, e continua a tenere la cittadina siriana di Kobané sotto assedio.
Sembra che la coalizione stia velocemente esaurendo i bersagli: di solito, i primi giorni di campagna sono occupati da una massiccia serie di bombardamenti aerei che li prevede tutti, come nel caso della guerra sionista in Libano nel 2006; il fatto è significativo. Individuare centinaia di nuovi bersagli ogni giorno è una cosa che supera le capacità di qualunque servizio di intelligence: identificare e validare i bersagli è un lavoro logorante e che richiede molto tempo.
E cosa succederà dopo la campagna aerea? Si dovrà mettere piede a terra. E chi se ne occuperà? Nella strategia questo è un grosso pezzo che manca, e che sta mettendo tutti in confusione oltre a dare credito alle teorie che vogliono che esista un altro piano oltre a questo: Turchia e stato sionista stanno ostentatamente facendo avanzare le loro priorità in questo vuoto programmatico. Come si presenterà dopo la guerra la valle superiore dell'Eufrate, ora sotto il controllo dello Stato Islamico e da sempre profondamente sunnita? Quale linea politica adotterà questo ampio vallone, e a chi apparterrà? Di questo non sappiamo niente.
Sul perché Washington stia combattendo una guerra priva di strategia non si possono avere risposte, per lo meno non nei termini delle categorie che circolano nel dibattito in corso a Washington. Probabilmente non serve nemmeno questo cercare un fantomatico piano al di là di quello esistente. E' verosimile che la spiegazione vada cercata altrove, e che abbia a che vedere con il concetto di negazione strutturale.
A Washington sono tutti d'accordo -e la cosa è stata riconosciuta, sia pure di mala voglia, anche da pensatori indipendenti come Jim Lobe- sul fatto che non c'è nulla che gli Stati Uniti possano fare per contrastare lo Stato Islamico senza l'indispensabile aiuto dell'Arabia Saudita e delle monarchie del Golfo. Il problema principale è questo: sembra che, anche dopo tante perdite di tempo, Washington non riesca a concepire l'idea che sia il caso di chiudere una volta per tutte con relazioni di un certo genere. Eppure, continuare l'alleanza con l'Arabia Saudita significa trovarsi davanti ad una scelta: o ci si disimpegna meglio che si può da questa guerra, e si arriva di fatto ad un accordo con lo Stato Islamico, oppure ci si addossa per intero il compito di sconfiggerlo, ma mandando sul terreno soldati propri.
Nel corso degli ultimi sessant'anni l'Arabia Saudita ha facilitato molti tra gli obiettivi della politica estera occidentale: ad essa va anche il credito, in buona parte non meritato, dell'aver avuto un ruolo da protagonista nella sconfitta dell'Unione Sovietica in Afghanistan e dunque di aver aiutato tra l'altro l'AmeriKKKa a vincere la guerra fredda. Solo che l'Arabia Saudita -questo il suo punto forte, in ogni situazione ed in ogni caso- ha sempre operato accendendo il radicalismo sunnita e diffondendo la militanza salafita, che in Arabia Saudita si incarna nello wahabismo.
Di questi sistemi, che consistono nell'incendiare il radicalismo sunnita e nel servirsene allegramente, chiudendo al tempo stesso ambedue gli occhi sul concomitante imporsi dello wahabismo come orientamento predominante nell'Islam, l'Occidente ha già fatto le spese un paio di volte. La prima volta che è stato appiccato il fuoco è stato negli anni Ottanta in Afghanistan, e la conseguenza sono state bombe a New York, bombe a Londra ed a Parigi e anche, non dimentichiamocene, bombe a Mosca, tramite i ceceni. Da allora sia l'Afghanistan che il Pakistan sono andati incontro ad una metamorfosi in senso salafita, e ad una radicalizzazione.
Oggi, l'Occidente ed il Medio Oriente sono rimasti bruciati malamente una seconda volta, con lo Stato Islamico e Jabat an Nusra; lo ha detto chiaramente il Vicepresidente degli Stati uniti Joe Biden. Nel 2012 scrivevamo che questo secondo massiccio incendio del radicalismo sunnita, appiccato per facilitare il rovesciamento del Presidente Assad, avrebbe avuto per l'Occidente conseguenze ancora più gravi, ancora più pericolose di quelle che gli sono venute dall'Afghanistan negli anni Ottanta.
Simon Henderson appartiene all'influente think tank neoconservatore ameriKKKano WINEP; poco tempo fa ha scritto: "oggi, i sauditi dicono che non stanno fornendo alcun sostegno ai terroristi e che anzi hanno decretato che è un delitto penale per i cittadini del regno combattere in Siria o aiutare i combattenti dell'opposizione. Ma questo contrasta con decenni di consuetudini saudite, che hanno portato giovani religiosi a combattere in Afghanistan, in Cecenia, in Bosnia ed altrove [il corsivo è nostro, n.d.a.]. E non sono questi i termini in cui Bandar ha parlato delle istruzioni che ha ricevuto da Re Abdullah quando fu nominato capo dei servizi: Bandar ha detto che aveva avuto l'incarico di sbarazzarsi di Bashar al Assad, di mettere dei limiti a Hezbollah in Libano, e di tagliare la testa del serpente (l'Iran). Sottolineando la chiarezza di intenti che l'Arabia Saudita nutre nei confronti della Siria, ha detto che avrebbe seguito le indicazioni del suo re, anche se questo avesse voluto dire 'arruolare qualunque figlio di buona donna di jihadista' su cui avesse potuto mettere le mani".
Adesso, i "decenni di consuetudini saudite" passati a scatenare la gioventù osservante sono diventati, e la cosa non sorprende, un movimento neowahabita: lo Stato Islamico. Lo Stato Islamico è un movimento che si colloca esplicitamente e con convinzione al di fuori della sfera di influenza dei sauditi, a differenza di Osama bin Laden che veniva tenuto a distanza dal re e dalla corte ma che non tagliò mai i legami che aveva con una certa corrente maggioritaria interna al regno. In poche parole, l'Arabia Saudita non può fare niente per aiutare l'AmeriKKKa in questa guerra. La sua prima preoccupazione sarà quella di evitare che i suoi giovani subiscano il fascino dello Stato Islamico.
Turki al Hamad è un saudita di orientamento liberale; poco tempo fa, scrivendo sul quotidiano Al Arab che ha base a Londra, ha riassunto così la situazione: "Ma come possono [i nostri studiosi] replicare allo Stato Islamico... e a tutti gli altri parassiti che abbiamo tirato su ai margini dell'Islam, dal momento che i suoi semi sono cresciuti presso di noi, dentro le nostre case, e siamo stati noi a nutrirne il pensiero e la retorica fino a quando non sono cresciuti rigogliosi?". Avrebbe potuto anche aggiungere, ma non lo ha fatto, che lo Stato Islamico sarà stato anche nutrito dall'Arabia Saudita, ma che questo non significa che una simile creatura si mostrerà docile, obbediente o anche solo grata.
Da un certo punto di vista la guerra in Medio Oriente è diventata una guerra tra lo wahabismo e gli altri orientamenti del salafismo come i Fratelli Musulmani, che adesso i sauditi cercano di incolpare della nascita dello Stato Islamico. E' una guerra di sunniti contro sunniti, della wahabita Arabia contro lo wahabita Qatar, della wahabita Jabat an Nusra contro lo Stato Islamico, della wahabita Arabia ed alcuni dei suoi alleati, contro i Fratelli Musulmani.
Una grande confusione. Se l'AmeriKKKa intende mettervi ordine, dovrà farlo da sola. Non può attendersi alcun aiuto dal suo alleato "irrinunciabile". L'Arabia Saudita è più occupata a pensare ai propri affari: manipolare la guerra di Obama in modo che "arrechi una sconfitta strategica all'Iran rovesciando il governo di Damasco", come spiega Simon Henderson. "Da punto di vista dei sauditi, il fatto che lo Stato Islamico abbia spostato forze in Iraq [è stata una cosa positiva, che contribuisce] alla rimozione di Nouri al Maliki a Baghdad, ritenuto in Arabia un burattino di Tehran. Nonostante Riyadh appoggi ufficialmente il nuovo governo di Baghdad, molti sauditi che disprezzano gli sciiti probabilmente pensano che lo Stato Islamico stia compiendo il volere divino".
L'AmeriKKKa è caduta nell'inganno di aver considerato i paesi del Golfo come animati da buone intenzioni? Lo stesso Simon Henderson prevede che "il concetto di autoconservazione dell'Arabia Saudita... contemplerà probabilmente una politica ipocrita nei confronti di Washington... la cautela con cui il Presidente Obama si sta muovendo è causa di esasperazione: [nel migliore dei casi] i sauditi collaboreranno di mala voglia. Nel peggiore, si atterranno strettamente a quelli che sono i loro interessi, e non importerà loro alcunché se questo significa danneggiare gli Stati Uniti".
Se il loro alleato si comporta in questo modo, per quale motivo tutta la strategia statunitense nei confronti dello Stato Islamico si basa sull'Arabia Saudita e sui paesi del Golfo? E' bene tenere presente che i video dello Stato Islamico in cui si vedono le decapitazioni sono stati quasi certamente realizzati con la precisa intenzione di indurre l'AmeriKKKa ad inviare truppe di terra. Una strategia per modo di dire, che si basa sulle presunte buone intenzioni che gli alleati del Golfo dovrebbero mettere nel loro sostegno alla coalizione, condurrà probabilmente proprio al punto in cui il Presidente non vuole che si arrivi, ed al quale invece lo Stato Islamico vuole portarlo: l'invio di truppe sul terreno. Se a Washington non se ne sono ancora accorti, stanno negando l'evidenza ed è il caso che si diano una regolata.
Edward Luce scrive sul Financial Times e sostiene che sarebbe ingenuo pensare che si possa mettere fine a questo negare l'evidenza: in Medio Oriente ci si è comportati nello stesso identico modo per troppo tempo. Nonostante questo, Luce recita poi una filippica su come ogni iniziativa mediorientale in cui gli Stati Uniti sono stati autori e svolta in stretta collaborazione con l'Arabia Saudita sia sempre finita con il piantare semi che sarebbero diventati problemi peggiori, e con il lasciare ancora più radicalismo. A suo modo di vedere, questa escalation inesorabile sta portando diritta a risultati esplosivi.
Smettere di negare l'evidenza aprirebbe agli Stati Uniti prospettive completamente diverse sul mondo islamico; esiste infatti un altro aspetto di questa alleanza, in gran misura mai riconosciuto e mai compreso: l'Occidente ha fatto propria a tal punto la narrativa saudita fatta di vittimismo e di usurpazione che molti editorialisti ameriKKKani ed europei rifiutano di sapere -lasciamo stare di capire- che possono esistere anche altre visioni del Medio Oriente che non la verità dei sauditi e dei paesi del Golfo.
La "verità" dei sauditi e dei paesi del Golfo dice che loro sono sempre le vittime dell'Iran e degli sciiti, e che la loro posizione in Medio Oriente è stata surrettiziamente usurpata dal risorto Iran. Un'altra verità però dice che le élite arabe dell'epoca post ottomana, in larga parte sunnite e in larga parte rimaste al loro posto anche dopo la seconda guerra mondiale, non hanno mai recuperato il prestigio perduto nella disastrosa guerra del 1967: la loro rovina è cominciata allora, e da allora non ha fatto che precipitare.
L'Occidente ha accolto senza pensarci minimamente la narativa wahabita, quella dell'"Asse del Male"; ha tacitamente fatto proprio il disprezzo e l'odio per gli sciiti che caratterizzavano Mohammad Abd al Wahhab, il fondatore dello wahabismo, ed è direttamente responsabile della recente polarizzazione cui abbiamo assistito in Medio Oriente. Sembrava che il Presidente Obama avesse capito qualcosa delle controindicazioni insite in questa visione parziale delle cose quando ha parlato della necessità di un riequilibrio tra sunniti e sciiti, aggiungendo che questo non avrebbe da solo risolto i problemi della regione, ma sarebbe servito ad allontanarne un po' dei veleni. Tuttavia, per Obama mettere insieme il ventaglio della sua coalizione di alleati arabi ha un prezzo: questo prezzo è probabile che sia il no ad un riavvicinamento all'Iran.
Negli ambienti presidenziali, probabilmente, capiscono il problema. Certo, alcuni editorialisti mediorientali pensano che i raid aerei statunitensi sembrano stranamente inutili e privi di efficacia. Probabilmente Obama è meno convinto della possibilità di distruggere lo Stato Islamico, e del fatto che esso verrà effettivamente distrutto, di quanto faccia pensare la retorica ufficiale. In altre parole, il Presidente farà l'atto di entrare in guerra, ma non entrerà davvero in guerra con lo Stato Islamico. Forse i funzionari capiscono la chiara vulnerabilità dell'Arabia Saudita, e simpatizzano con essa; non vogliono spingere il re saudita oltre i suoi limiti. Ma con lo Shah non era la stessa storia? Ci fu la mancata volontà dei funzionari di spingerlo oltre le sue prospettive, e c'erano i limiti di manovra di un alleato stretto; sappiamo tutti come è andata a finire. Forse, anche stavolta finirà allo stesso modo.
In questo caso forse i barbari, ovvero lo Stato Islamico, finiranno anch'essi per essere "una soluzione" come nella poesia di Kavafis, per l'Arabia Saudita e per tutto il mondo sunnita. Dopotutto le maggiori svolte nella storia provengono (e conducono) da episodi distruttivi che nessuna civiltà in sé è mai riuscita ad identificare.

venerdì 21 novembre 2014

La Repubblica Islamica dell'Iran dopo il mid-term statunitense



Traduzione da Conflicts Forum.


Le elezioni di mid-term sono venute e passate. Il successo dei repubblicani pare aver superato ogni ottimistica stima. La cosa in che modo si potrebbe riflettere sui negoziati dei cinque più uno con la Repubblica Islamica dell'iran?
Il 6 novembre il Segretario di Stato Kerry, Lady Ashton e Javad Zarif si sono incontrati in Oman per due giorni di negoziati e c'è in previsione un ulteriore incontro più in là, nel caso i colloqui si rivelino fruttuosi. Il 24 novembre si chiude questo supplemento temporale, aggiunto ai sei mesi di negoziati previsti all'inizio.
Non è possibile prevedere come finirà la questione, ma pare improbabile che verrà raggiunto un qualche accordo sostanziale. Sicuramente sono stati fatti alcuni progressi su certe questioni tecniche, ma dai temi fondamentali, vale a dire se all'Iran sarà riconosciuto il diritto di produrre significative quote di energia nucleare tali da rivelarsi sufficienti a soddisfare le sue future necessità industriali o se invece gli toccherà limitarsi alla foglia di fico data da un progetto "pilota" di arricchimento, per quanto tempo ancora (decenni, magari?) resterà sotto esame e soggetto a controlli tutti particolari oltre a quelli del trattato di non proliferazione e se gli accordi porteranno a qualche significativo alleggerimento delle sanzioni da parte degli Stati Uniti, le parti a Muscat se ne terranno assai lontano. Tutte le altre questioni per lo più di carattere tecnico su cui sono stati raggiunti degli accordi, anche se sono molte, non sono sostanziali.
Le elezioni hanno reso il dialogo più difficile ad ambo le parti. Il mantra spesso ripetuto -e non soltanto dai repubblicani- che afferma che le profonde crisi in Medio Oriente ed in Ucraina non sono riflesso di un mutamento sistemico in corso nel mondo ma sono solo colpa della "debolezza" del Presidente non renderà affatto facile ad Obama imporsi per raggiungere un accordo con l'Iran. Qualunque sia il contenuto di qualsiasi accordo vada profilandosi, possiamo aspettarci che il Presidente Obama verrà accusato di cedevolezza nei confronti dell'Iran, e di essersi ancora una volta comportato da debole. Obama può anche non avere voglia di giocarsi un capitale politico, visto che gli tocca vedersela con tutte le altre avversità sul fronte interno e con un'opposizione repubblicana risorta che controlla entrambe le camere.
Ancora più significativo è il fatto che l'imminente scadenza del tempo a disposizione per i colloqui con l'Iran coincide con l'ascesa dello Stato Islamico e con la necessità di contrastarlo; questo ha reso ancora più significativi i risultati dei colloqui in Oman. Molti esperti commentatori ameriKKKani hanno iniziato ad interrogarsi sui pregi effettivi dell'inveterato assetto delle alleanze che l'AmeriKKKa ha in Medio Oriente, ed in modo particolare in considerazione alla assoluta ambiguità che molti alleati mostrano nei confronti dello Stato Islamico. Questi commentatori suggeriscono una sorta di rifondazione, un qualche cosa che lo stesso Presidente ha invocato più volte: un rimettere equilibrio tra Iran ed Arabia Saudita.
Ora, proprio perché gli alleati storici dell'AmeriKKKa sono in piena azione e si trovano in mezzo ad una guerra contro i loro vari nemici, sarà ancora più difficile per il Presidente degli Stati Uniti pianificare da capo tutte le alleanze. Gli alleati storici hanno messo radici profonde nei think tank e nelle lobby ameriKKKane, e non si possono spazzar via come niente decenni di comportamenti consolidati. Solo che il futuro dell'AmeriKKKa in Medio Oriente dipende molto da ciò che essa deciderà di fare, se rivedere il sistema di alleanze oppure no. In fin dei conti, comunque, la cosa potrebbe anche non essere decisiva per determinare il corso degli eventi.
In Iran, il Presidente Rohani deve anch'egli vedersela con una situazione più difficile. Innanzitutto c'è la questione se l'AmeriKKKa, visto il risultato delle elezioni di mid-term, possa essere considerata un plenipotenziario. L'amministrazione ameriKKKana può essere reputata credibile, nel suo impegno di alleggerire le sanzioni per l'immediato o per un qualche momento futuro? La stampa iraniana fa spesso riferimento al fatto che Wendy Sherman, senza poter garantire su nulla, ha affermato davanti ad una commissione del senato che qualunque accordo sarebbe innanzitutto sottoposto al senato per l'approvazione. In Iran si dà per scontato che il senato si oppporrebbe a qualsiasi significativo allegerimento delle sanzioni: in un recente sondaggio, cui hanno collaborato l'Università di Tehran e quella del Maryland, è venuto fuori che tre iraniani su quattro dicono che

"....Sanno che anche se l'Iran accettasse tutte le richieste statunitensi ed ottemperasse a tutte, gli Stati Uniti lascerebbero in piedi le sanzioni che ora hanno come pretesto il nucleare, ma troverebbero "qualche altra ragione" per farlo. Queste preoccupazioni possono essere aggravate dal fatto che al Congresso è stata presentata una proposta di legge che afferma che in caso si arrivi ad un accordo sul nucleare, le sanzioni potrebbero restare in vigore come ritorsione per quello che il Congresso descrive come il sostegno iraniano a gruppi terroristici, o per le violazioni dei diritti umani commesse nel paese.
Il serpeggiare di questi dubbi limita l'approvazione per certe posizioni. Chi crede che gli Stati Uniti manterranno la parola ed allevieranno le sanzioni pensa anche che l'Iran dovrebbe mostrare maggiore apertura nei colloqui, al contrario di coloro che pensano che gli Stati Uniti troveranno una qualche altra ragione per mantenere le sanzioni. Questi ultimi sono il settantacinque per cento".

In patria, il presidente iraniano viene accusato di aver deluso le aspettative popolari in materia di apertura da parte dell'Occidente, e sul fatto che dai colloqui sarebbe alla fine arrivato un alleggerimento delle sanzioni; in effetti nulla di tutto questo si è verificato. L'ulteriore tornata di sanzioni che gli Stati Uniti hanno imposto mentre i colloqui erano in corso, e mentre l'Iran stava osservando tutti i termini previsti dall'accordo provvisorio, non ha fatto che inasprire questa convinzione diffusa. All'inizio ci si attendeva molto dai colloqui; poi le aspettative si sono ridimensionate e l'eccitazione si è calmata.
Il sondaggio dell'Università del Maryland evidenzia anche il fatto che i colloqui non hanno in nessun modo inciso sull'ampio sostegno popolare di cui godono cose che l'Iran reputa irrinunciabili: il 94% degli iraniani afferma di sostenere il programma nucleare, nonostante l'85% degli interpellati riconosca il fatto che le sanzioni stanno danneggiando l'economia del paese. Esistono ampie maggioranze che considerano inaccettabile che i cinque più uno pretendano che l'Iran faccia a meno di circa la metà delle centrifughe di cui dispone (il 70%) o che debba mettere dei limiti alle sue attività di ricerca nel settore del nucleare (il 75%).
Rohani è un politico: come tutti i politici deve rendere conto al suo mandato. Il suo mandato è chiaro: va bene fare a meno delle armi, e va bene portare a termine l'arricchimento dell'uranio in modo sicuro e salvaguardato. In cambio, però, si deve ottenere la fine delle sanzioni. Il clima politico si sta appesantendo. Gli elettori avevano pensato che con l'ascesa di un presidente con cui l'Occidente si sarebbe potuto trovare a suo agio l'accordo e la fine delle sanzioni avrebbero potuto essere raggiunti in breve tempo; anche lo stesso Presidente e gli stessi negoziatori hanno contribuito a rafforzare le aspettative del corpo elettorale. Adesso, però, in generale si pensa che le cose non andranno in questo modo; questo cambio di atteggiamento avrà probabilmente delle conseguenze politiche, in particolare sul risultato per le prossime elezioni della Majilis.
Rohani all'inizio godeva di un ampio mandato, diventato nel corso del tempo sempre più risicato; anche Rohani deve vedersela con il suo mid-term: deve vincere, o si troverà a dover fronteggiare un parlamento controllato dall'opposizione. Il Presidente sta già cercando di prendere le distanze dai riformisti; questo non significa che si stia avvicinando ai principalisti, ma che sta cercando di creare un proprio areale autonomo; un compito non facile. Rohani è stato maltrattato dalla stampa iraniana per essersi incontrato col Primo Ministro britannico, che in séguito ha pronunciato un attacco abbastanza velenoso contro l'Iran nel corso di un discorso all'Assemblea generale dell'ONU. Questo indica quale sia il clima, in questo momento: prima, se Rohani prendeva iniziative del genere veniva guardato con approvazione. Adesso, invece, gli si manda a dire che incontrarsi con Cameron è stato un grave errore di valutazione.
Il pubblico iraniano guarda ormai con freddezza ai tentativi di Rohani e Zarif di suscitare simpatie in Occidente; si deve trarne la conclusione che i colloqui con i cinque più uno si concluderanno con una rottura? E' possibile che sia così, ma la cosa non è molto probabile. Magari non si raggiungerà un accordo di ampia portata, ma forse si arriverà a qualcosa di più limitato, anche se si cercherà di paludarlo in modo da renderlo abbastanza attraente. In pratica, qualcuno degli accordi tecnici -ma non sostanziali- fin qui raggiunti verrà presentato come risultato principale dei colloqui, e che ad esso farà seguito un allentamento limitato e simbolico delle sanzioni. Paradossalmente il fatto che la montagna partorisca un topolino farebbe comodo a tutti.
Rohani potrà dire di essersi mantenuto coerente con quello che in Iran si considera irrinunciabile, mentre Obama potrà dire che l'accordo permette di gettare le basi per un riequilibrio nella regione; al tempo stesso, e la cosa è importante per l'AmeriKKKa, gli stati del Golfo e lo stato sionista avranno la soddisfazione di constatare che l'Iran rimane soggetto a sanzioni pesanti.
Perché mai Rohani dovrebbe uscire soddisfatto da un accordo del genere? In primo luogo, perché il mondo sta cambiando, e sta cambiando velocemente, cosa che la Guida Suprema ha recentemente sottolineato in un incontro con il Presidente. L'Ayatollah Khamenei ha notato che la predominanza ameriKKKana sta venendo meno, ed ha notato i mutamenti che stanno avvenendo nell'ordine mondiale, cambiamenti che sono sia politici sia intrinseci al sistema finanziario e commerciale. La Guida Suprema non è entrata nello specifico degli aromgenti, ma è probabile che stresse pensando alle manovre attualmente in corso per fondare un sistema finanziario e commerciale parallelo, fuori dalle strutture di scambio basate sul dollaro.
La leadership iraniana si guarda attorno, e quello che vede non è un panorama spiacevole: Assad ed il suo governo sono saldi, le relazioni iraniane con Baghdad non sono mai state tanto strette, gli eventi nello Yemen stanno riservando molte soddisfazioni, e gli iniziali sospetti e la competizione che caratterizzavano i rapporti tra Iran e Russia se ne sono andati dopo il consolidarsi dei rispettivi sforzi in Siria ed in Iraq; la Cina, per giunta, li sta corteggiando entrambi. Lo stato Islamico per molti iraniani è più un problema interno al mondo sunnita che non un qualcosa in grado di costituire una minaccia per l'Iran.
Certo, le sanzioni hanno avuto il loro effetto; solo che in fin dei conti è possibile che esse non verranno mai tolte, neppure se l'Iran cedesse senza condizioni su tutto quanto, cosa che non succederà. Tutto questo è semplicemente il modo in cui stanno le cose. Le elezioni di mid-term statunitensi non faranno altro che rinforzare la sensazione degli iraniani che non c'è altra possibilità: le sanzioni contro Cuba sono un esempio di come, una volta imposte, esse non vengano mai fatte cadere.
E' interessante notare che alcuni fra i più autorevoli quotidiani iraniani sono diventati più favorevoli alla posizione dei principalisti, che sostengono che un accordo limitato sarebbe un beneficio per l'Iran. L'Iran deve semplicemente trovare il modo di aggirare le sanzioni, e le tensioni che l'Occidente ha con la Russia potrebbero spingerlo verso la via d'uscita rappresentata dalle mosse congiunte che Cina e Russia stanno compiendo per realizzare un sistema commerciale e finanziario parallelo a quello basato sul dollaro.
Quindi, un accordo limitato porterebbe i suoi frutti. Gli iraniani dicono di non vedere alcuna prova del fatto che gli Stati Uniti vogliono esacerbare le tensioni, anzi; e se gli Stati Uniti non vogliono far salire la tensione, per quale motivo dovrebbe farlo l'Iran. L'Iran non si sente minacciato, e sembra anche che le sanzioni, in futuro, saranno meno oppressive. Probabilmente l'Iran, dietro questo modo di vedere le cose improntato ad un maggiore ottimismo, deve solo aspettare lo sviluppo degli eventi.
Con questo non vogliamo dire che un accordo anche parziale aprirà la strada alla completa distensione tra Iran e Stati Uniti, o che l'Iran inzierà a collaborare apertamente con gli USA in Iraq ed in Siria contro lo Stato Islamico. L'Iran non farà nulla del genere. Oltretutto, quello che è successo con Cameron ha messo in luce il pericolo che si corre a mostrarsi troppo sensibile nei confronti dei desideri di un Signor Cameron e che è rappresentato dal risentimento popolare. Solo che forse, senza tanto chiasso e fuori dalla vista del pubblico, una qualche tacita intesa con gli Stati Uniti sarà raggiunta. Probabilmente le cose già stanno in questo modo. In fondo, se il Ministero della Difesa degli Stati Uniti può apprezzare il "valore aggiunto" che gli deriva dalla tacita collaborazione con l'Esercito Arabo Siriano, potrebbe vedere con favore un po' di comprensione -che si è sempre in tempo a negare che esista- da parte di Qassem Soleimani in Iraq.
Forse l'accordo vero e proprio con gli Stati Uniti ha perso un po' della sua importanza? O forse non c'è bisogno che siano gli Stati Uniti a rivedere formalmente l'equilibrio dei potere in Medio Oriente, se il Medio Oriente stesso si trova -come di fatto è- nelle condizioni di trovare da solo un nuovo equilibrio, senza che in esso abbia particolare importanza il riposizionamento degli Stati Uniti?

giovedì 20 novembre 2014

La folle situazione mediorientale non dovrebbe essere una sorpresa per nessuno



Traduzione da Conflicts Forum.

Pare che il Medio Oriente stia andando in briciole in un'orgia di violenza e molti osservatori non credono ai loro occhi: com'è possibile che stia accadendo tutto questo? Come siamo arrivati a questo punto? Sembra che la situazione abbia lasciato tutti quanti attoniti per la sua imprevedibilità. Ci si chiede: non è che i servizi hanno sbagliato tutto un'altra volta?
Beh, no. Non è che "hanno sbagliato i servizi", è qualcosa di molto peggio. E' tutto il sistema ad aver fallito, sia cognitivamente che intellettualmente. Di fatto, i segnali di questa follia incombente sono stati in bella vista, sotto gli occhi di tutti, per tutti gli ultimi venticinque anni. Non c'era nessun bisogno di tanti servizi segreti per sapere dove si sarebbe andati a finire: bastava un po' di apertura mentale, giusto il necessario per capire in che direzione stavano andando gli eventi.
L'abbaglio preso dall'Occidente nasce direttamente dal fatto che esso ha provato a comprendere il Medio Oriente da una sola prospettiva. Una prospettiva che si è rivelata viziata. Era così sbilanciata in favore delle forze che si sono rivelate lo spettro dell'estremismo sunnita più acceso, aveva investito così tanto su questa specifica parte che gli occidentali non potevano neppure prendere in considerazione l'idea che questi decapitatori di apostati un giorno avrebbero morso le mani che li nutrivano, trattate da apostate anch'esse. Gli statunitensi -ed anche gli inglesi- hanno fatto affidamento su questo stato di cose per così tanto tempo, ed esso ha influenzato a tal punto le convinzioni statunitensi sulla leadership del mondo sunnita, che è stato tutto il quadro ad esserne distorto.
Persino adesso il sistema ha problemi nel capire con chi abbia a che fare esattamente. L'Occidente afferma di essere in guerra con lo Stato Islamico in Iraq e nel Levante. Un concetto abbastanza semplice. Solo che in pratica l'AmeriKKKa è andata a mettersi in cima a diverse guerre. C'è la guerra contro lo Stato Islamico in Iraq e nel Levante, che è wahabita, e c'è la guerra tra esso e l'altrettanto wahabita Jabhat al Nusra, così come c'è guerra tra la wahabita Arabia e lo wahabita Qatar. In pratica esiste una guerra per il predominio sull'isdlam wahabita -e questa è la dinamica fondamentale- e sull'islam sunnita nel uso complesso. Poi c'è la guerra che la Turchia sta portando avanti per diventare essa stessa l'"emiro" dell'islam Sunnita a spese dei sauditi, sia in Siria che nei territori ora controllati dallo Stato Islamico sia in Siria che in Iraq. Infine, Egitto Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti hanno dichiarato guerra "a tutti gli estremisti islamici" e la stanno combattendo, in questo momento, in Libia.
Stati Uniti, Regno Unito e Francia vogliono andarsi ad infilare in queste dispute tra sunniti, in queste guerre teologiche e tra teocratici e laici?
Come siamo arrivati a questa confusione? In effetti non ci si sarebbe dovuti arrivare perché alla fine del XIX secolo e all'inizio del XX era in corso un tentativo di concerto in tutto il mondo islamico per portare l'islam all'interno del mondo moderno; c'era il tentativo di arrivare ad esiti molto diversi da quelli di cui oggi lo Stato Islamico è il simbolo. Solo che questo rinascimento arabo è fallito e sono successe cose che hanno portato i nascenti movimenti islamici in una direzione molto differente. Sono stati gli eventi, non una qualche caratteristica intrinseca all'Islam.
Per capire, dobbiamo avere presente il fatto che per tutto il tempo compreso dalla metà del XIX secolo fino ai successivi anni Venti il mondo islamico è rimasto assediato da vari progetti secolarizzanti ed improntati al capitalismo e al libero mercato, tutti nati in Europa. Per essere chiari, l'irrompere del secolarismo sulla scena mediorientale non è mai stato un fenomeno neutrale o benevolo. In Turchia, Ataturk aveva nei confronti dell'Islam un atteggiamento semplicemente giacobino. Intendeva metterlo all'angolo: odiava l'Islam, che chiamava "carogna putrefatta". Anche la Persia e l'Egitto fecero le spese di questo secolarismo bellicoso.
L'Islam era sul baratro e si teneva appena con la punta delle dita, su cui arrivarono le martellate di Ataturk. La Umma, la "nazione" islamica, e il califfato furono smantellati.
Conseguenza di questo secolarizzante atto iconoclastico -così esso appare dal punto di vista musulmano- ad opera dei turchi fu la nascita dell'islamismo: i Fratelli Musulmani furono fondati nel 1929. La cosa essenziale è che l'islamismo all'epoca venne fondato come reazione contro il "rinascimento arabo", e specialmente come reazione al tipo di secolarismo di cui Ataturk era il rappresentante tipico; il suo orientamento era radicalmente difensivo, ed era concepito per competere e alla fine prevalere sul secolarismo e sul socialismo.
Il passo fondamentale fu che per competere con l'attrattiva della modernità secolare che arrivava dall'Occidente, l'islamismo sunnita diventò letterale. L'islamismo sunnita tagliò ogni legame con gli sviluppi storici dell'Islam, che letterali non erano, e con le sue tradizioni intellettuali. La sua religiosità divenne sempre più esteriore e visibile, divenne una sorta di proiezione all'esterno di tipo quasi secolare. Qualcosa che da una parte aveva a che fare con le buone opere sociali e dall'altra con l'enfasi sull'aspetto esteriore e letterale dei testi e sulla legge; diventò la messa in pratica di visibilissime manifestazioni di identità islamica, come l'uso dell'abito islamico o il mostrare in pubblico atteggiamenti devoti.
A questo insieme di cose si arrivò tenendo conto della sua attrattiva sul piano socioeconomico, e soprattutto perché lo si considerava il miglior modo per arrivare al potere. I Fratelli Musulmani sono stati il primo esempio di questo orientamento: durante la loro campagna elettorale nell'Egitto del 2012, per esempio, il loro movimento chiese di essere giudicato solo per i traguardi socioeconomici che avrebbe raggiunto.
Eppure, anche questa iniziativa si è arenata. Tayyip Erdogan ha fatto sue queste istanze, considerandole un modo per ripristinare la "missione storica" della Turchia, e l'influenza turca nel mondo sunnita; a farne le spese avrebbe dovuto essere l'Arabia. Il fatto che in Egitto sauditi ed Emirati Arabi abbiano spalleggiato il colpo di stato contro il Presidente Morsi e la guerra senza quartiere per la distruzione dei Fratelli Musulmani... e delle ambizioni turche, ha distrutto anche l'unico elemento dell'islamismo sunnita che non era completamente letterale. E che aveva a che fare con il concetto di sovranità popolare. 
L'unica corrente dell'islamismo sunnita ad essere rimasta in piedi dopo la caduta dei Fratelli Musulmani, al contrario di questi ultimi ormai stroncati, ha molto a che vedere su come indirizzare la "chiamata alla fede" a corpi sociali ormai in condizioni di sonno profondo, che nel loro torpore (e nelle loro preoccupazioni fatte di cose materiali e di come arrivare in fondo alla giornata) hanno completamente dimenticato l'Islam e sono diventati apostati senza accorgersene. Esempio principe di questa corrente è Abdallah Azzam, compagno di Bin Laden in Afghanistan; essa considera l'avanguardismo armato e lo jihad come necessari ed obbligatori per svegliare i musulmani che camminano come sonnambuli in mezzo alla modernità. Azzam di per sé non è wahabita, ma il letteralismo e l'avanguardismo armato che ha mutuato dal primo islamismo sunnita si sono incrociati in Afghanistan alla fine degli anni Ottanta da nozioni wahabite, come quella che sentenzia la morte contro i musulmani che hanno rifiutato l'invocazione al risveglio.
Questa ibridazione si è nutrita di una abbondante produzione letteraria wahabita e della fondazione di scuole e canali televisivi esclusivamente dediti a questo orientamento. In effetti si è trattato di un'autentica "rivoluzione culturale", finanziata dall'Arabia Saudita nel quadro dei suoi tentativi di fare dello wahabismo la corrente principale dell'Islam sunnita.
Questa ibridazione ha un significato importantissimo, che continua a sfuggire agli occhi occidentali: l'Afghanistan fu il capolavoro della politica estera del Presidente Reagan e di Margaret Tatcher. Nessuno ha mai voluto vedere se c'era qualcosa che non andava in questo "successo"; lo ricordo bene da mie esperienze personali di quel periodo. Invece di fermarsi un momento a riflettere, l'Occidente cavalcò l'onda con i suoi alleati sauditi, usando per i propri interessi le forze dell'Islam sunnita in piena deflagrazione.
Anche dopo l'Undici Settembre le cose non sono molto cambiate. Di fatto, alcuni dei più profondi pregiudizi dell'Arabia Saudita -alcuni dei quali risalgono ad antipatie del XVIII secolo, come l'orrore per l'Islam sciita che caratterizzava Abd al Wahhab- sono stati assorbiti dai paesi occidentali, che li hanno considerati qualche cosa di proprio. La concezione antisciita dei sauditi è diventata l'"Asse del male". Saddam Hussein, il colonnello Gheddafi, Hezbollah, il Presidente Assad, l'Iran -che è l'"Asse del Male" vero e proprio- non sono mai stati autentiche minacce per l'Occidente, ma sono stati dei destinatari delle antipatie del Golfo Persico che l'Occidente ha fatto propri.
Le cose sono andate avanti così fino ad oggi. Quando il Principe Bandar ha parlato delle istruzioni fornitegli da Re Abdullah quando lo aveva convocato per dargli l'ordine di liberarsi del Presidente Assad, ha detto che "avrebbe seguito le istruzioni del suo re, anche se questo avesse voluto dire schierare 'qualsiasi figlio di puttana jihadista' avesse potuto trovare". Anche stavolta l'Occidente ha guardato da un'altra parte, in un altro fallimento di sistema, e per anni ed anni ha di fatto aiutato a facilitare il passaggio di combattenti jihadisti in Siria.
Sembra che il Presidente Obama avesse capito qualcosa dei risvolti negativi di questo strabismo quando disse che era necessario ripristinare un equilibrio tra sunniti e sciiti, affermando anche che la cosa di per sé non avrebbe risolto i problemi del Medio Oriente, ma avrebbe potuto drenare un po' di miasmi velenosi. Purtroppo sembra che abbia prevalso l'abitudine a non lasciare la strada vecchia per la nuova, e che Obama si sia lasciato impelagare in una guerra dagli innumerevoli risvolti e che ha il suo centro nella natura dell'Islam sunnita di per sé, e che è esplosa in opposizione ad un'idea: l'idea del califfato sunnita.
Scott Ritter conosce bene il Medio Oriente, ed ha scritto:
"Il punto irrinunciabile, la premessa di [qualsiasi] vittoria [ameriKKKana] contro lo Stato Islamico... è il mettersi nell'ordine di idee che la realtà del califfato è più di un costrutto artificiale dei cosiddetti terroristi. La nozione di califfato è parte vivida del mondo arabo sunnita fin dalla dissoluzione del califfato ottomano dopo la prima guerra mondiale... Il concetto di califfato arabo non è un qualche cosa di nuovo, fabbricato dal nulla dagli jihadisti radicali dello Stato Islamico. Esso esiste invece, nella psicologia degli arabi sunniti della Mesopotamia e del Levante, da più di un secolo. I successi che lo Stato Islamico sta mietendo oggi non sono dovuti al fatto che la sua visione radicale sta diventando popolare su spazi sempre più ampi, ma al fatto che esso sta dando voce ad un sogno che le forze dell'Occidente e i loro alleati delle autocrazie mediorientali hanno affossato per lungo tempo. L'amministrazione Obama ha affermato che le recenti incursioni contro la Siria non sono altro che l'inizio di una campagna più estesa il cui scopo è la sconfitta dello Stato Islamico. Ma le bombe e i missili vanno bene per buttare all'aria i muri e per creare martiri, non sono mai andati bene per sradicare le idee...
Dal momento che non esistono ideologie in grado di competere, è difficile vedere se la nuova guerra contro lo Stato Islamico riuscirà ad affossare il sogno visionario di un califfato arabo sunnita che riempie i cuori e le menti di tanti arabi sunniti che vivono nella Siria e nell'Iraq di oggi. Anzi, il rischio è che questa campagna militare riuscirà soltanto ad alimentare le fiamme del radicalismo sunnita, rafforzandone le fazioni come null'altro potrebbe".
Ecco l'errore strategico fondamentale: pensare -a torto-  che un movimento "terrorista" sunnita possa essere sopraffatto solo dai sunniti. Gli Stati Uniti si sono di nuovo messi il paraocchi e guardano al loro "alleato insostituibile" -che non può far nulla per aiutarli perché ha investito troppo, e in troppi modi, nell'islam sunnita radicale- intanto che mettono i bastoni tra le ruote a coloro che in Siria ed in Iraq stanno combattendo sul serio lo Stato Islamico, e che per lo meno possono meglio prendergli le misure.
Ci vorrebbe un Bismarck ameriKKKano credibile, che prendesse il timone della politica statunitense in questa confusione. Come può pensare l'AmeriKKKa di fare da mediatore in qualche modo, in questo guazzabuglio senza speranza in cui si mescolano complessa teologia sunnita e spinte ideali per il califfato? La verità è che l'Islam sunnita è caduto dal suo muretto, e che a tutti i cavalli e ai soldati del re non sarà facile rimetterlo in pie' [*]. E poi, è un qualche cosa che ameriKKKani ed europei possono davvero fare, il cercare di rimettere insieme i cocci di un Islam sunnita tanto frammentato e disperso?


[*] Riferimenti intraducibili ad una filastrocca.


mercoledì 19 novembre 2014

Siria: l'eroismo di Jamal Maarouf, comandante dello ELS (Esercito Lagomorfico Siriano)


"L'Esercito libero siriano (Els), i cosiddetti ribelli moderati su cui gli Stati Uniti e la colazione internazionale anti Isis hanno deciso di puntare per stabilizzare la Siria, hanno abbandonato Aleppo, la seconda maggiore città della Siria, ritirando il suo contingente forte di 14 mila uomini dalla città. Lo riferiscono fonti turche, secondo le quali il leader dell'Esercito libero, Jamal Marouf, è fuggito in Turchia. "E' ospitato e protetto dallo Stato turco", affermano le fonti, spiegando che Marouf sarebbe fuggito nelle ultime due settimane. Secondo le stesse fonti, l'Fsa avrebbe perso il controllo sul posto di confine di Bab al Hawa a seguito della fuga di Marouf".

Fonte
: Gazzetta antislàmme specializzata in monsummani cattivi.


Traduzione dal gazzettese: "L'Esercito "Libero" Siriano, i cosiddetti ribelli moderati che per anni gli Stati Uniti e i loro fiancheggiatori hanno armato oltremodo affinché si occupassero delle faccende più sporche nel rovesciamento del governo di Damasco, hanno abbandonato Aleppo, ritirando dalla città un contingente che dicono essere di quattordicimila uomini. A noi gazzettisti lo riferiscono fonti turche che possiamo ritenere degne di fede, visto che la Repubblica di Turchia non soltanto non ha mai nascosto le proprie intenzioni ma si è per anni attivamente adoperata affinché la situazione diventasse quella che è. Uno delle decine di sedicenti leader dell'Esercito "Libero" Siriano a nome Jamal Maarouf ha mollato tutto quanto ed è fuggito ampiamente per tempo in Turchia dove era di casa già da un bel po', con tanti saluti ai quattordicimila uomini di cui era responsabile e che ha lasciato a sbrigarsela da soli, visto che la sua ritirata strategica è stata condotta con tanta discrezione da far collassare tutto il fronte".