mercoledì 27 agosto 2014

Paul Rogers (Open Democracy) - Lo stato sionista ha perso la guerra




Traduzione da Open Democracy.


Di prima mattina, il 5 agosto 2014, è entrato in vigore a Gaza un nuovo cessate il fuoco di settantadue ore. Che la tregua duri o meno, sia il governo sionista che lo stato maggiore di Hamas canteranno vittoria, dopo ventotto giorni di scontri aspri che hanno lasciato sul terreno milleottocento vittime palestinesi e migliaia di feriti. I politici dello stato sionista vanno dicendo che l'IDF (le forze di "difesa" dello stato sionista) ha potuto ritirarsi da Gaza dopo aver distrutto i tunnel che i combattenti avversari usavano per infiltrarsi, e che l'aeronautica è ancora perfettamente in grado di colpire bersagli in tutta la striscia di Gaza. Tutto questo implica che lo stato sionista ha buoni motivi per rivendicare la vittoria.
Un esame più attento porta a conclusioni diverse. Il perché lo indicano in modo particolare tre episodi specifici avvenuti in momenti precisi della guerra.
Il 20 luglio la guerra era iniziata da dodici giorni. L'IDF stava facendo entrare truppe di terra a Gaza, con l'idea di continuare a distruggere le postazioni di lancio dei missili, ma anche di trovare i tunnel. In quella giornata soltanto, l'unità d'élite chiamata Brigata Golani ha avuto tredici caduti e più di cinquanta feriti. Tra i morti il vicecomandante di battaglione e il comandante della brigata, colonnello Ghassan Alian (cfr. "Gaza, context and consequences", Oxford Research Group, 31 luglio 2014).  Il livello complessivo della resistenza e soprattutto le competenze dei miliziani di Hamas hanno rappresentato una spiacevole sorpresa per l'IDF, tanto più dopo che esso era arrivato a capire che la questione dei tunnel rappresentava un problema molto più serio di quanto si pensasse (cfr. "Israel vs. Hamas, a war of surprises", 24 luglio 2014).
Il secondo episodio si è verificato il 28 luglio ed è stato una conferma di quanto successo la settimana prima. A Gaza c'era ormai molto personale dell'IDF: l'obiettivo principale era diventato quello di identificare e distruggere le gallerie. Eppure, anche nella concitazione dell'intensità con cui l'operazione veniva portata avanti un gruppo di combattenti di Hamas è stato straordinariamente abile nell'utilizzare un tunnel la cui esistenza non era nota; è uscito dal lato sionista ed ha attaccato un posto di frontiera. Non i civili del kibbutz Nahal Oz, come riferito sulle prime. Il gruppo ha ucciso cinque giovani soldati sionisti, tutti sottufficiali tra i diciotto ed i ventun anni, che stavano partecipando ad un'esercitazione di addestramento al comando.
Terzo episodio il 30 luglio. Lo stato sionista ha bombardato una scuola delle Nazioni Unite nel campo profughi di Jabaliya, ha ucciso ventun persone compresi bambini addormentati (erano le quattro e quaranta del mattino) e ne ha ferite altre decine. L'attacco sarebbe stato condotto con l'utlizzo di artiglieria a lungo raggio, e con l'intento di colpire miliziani di Hamas che rappresentavano una minaccia per una squadra dell'IDF intenta a distruggere l'ingresso di un tunnel che si trovava a trecentoventi metri dalla scuola. Un'indagine delle Nazioni Unite ha mostrato che in dieci minuti erano stati sparati dieci colpi; tre avevano colpito la scuola, due erano caduti entro cinquanta metri da essa (Cfr. Ben Hubbard & Jodi Rudoreren, "Questions over deadly barrage on shelterAl momento dell'attacco le ventiquattro stanze della scuola stavano ospitando tremiladuecentoventi persone, comprese in un assai più ampio programma di rifugi delle Nazioni Unite che offriva ospitalità a duecentosessantamila persone in diciannove tra complessi scolastici ed altre strutture. La scuola è uno dei sei siti delle Nazioni Unite colpiti durante le prime quattro settimane di scontri: ci sono state pesanti critiche, l'uso di artiglieria a lungo raggio, sprecisa, contro bersagli in aree urbane densamente popolate è quantomeno opinabile (cfr. "America, Israel, Gaza: missiles and politics", 19 luglio 2014).
Nel loro insieme, questi tre incidenti indicano che l'esecutivo sionista si trova in grosse difficoltà. L'attacco al rifugio, per esempio, è stato amplificato dai nuovi media sociali; dall'ultimo massiccio attacco di terra contro Gaza, l'operazione Piombo Fuso del 2008-2009, le tecniche di distribuzione e la registrazione video istantanea tramite smartphone hanno fatto rapidi progressi, e questo ha prodotto conseguenze duplici. Si possono diffondere direttamente ed ovunque immagini delle conseguenze sui civili, e far sì che diventi più probabile che i mass media occidentali mostrino maggiori dettagli di queste conseguenze.  Il sostegno in favore della guerra, nello stato sionista, è rimasto forte; la reputazione del paese però ne ha sofferto considerevolmente in tutto il mondo. Alcuni importanti organi di stampa occidentali altrimenti soliti esprimere un sostegno senza incrinature, stavolta pubblicano scritti pieni di dubbi sulle conseguenze a lungo termine dell'aggressione sionista (cfr. "Israel and the world: us and them", The Economist, 1 agosto 2014).

Anche se le cose stanno in questi termini, sostenere che lo stato sionista abbia perso la guerra potrebbe sembrare a tutta prima una forzatura. Eppure, anche un esame più accurato porta alle stesse conclusioni. Si ricordi l'obiettivo iniziale, che era quello di far cessare il lancio di razzi. I razzi non hanno mai smesso di essere lanciati e c'è anche il forte sospetto che Hamas e le altre milizie non abbiano utilizzato nemmeno la metà degli arsenali a disposizione; lo stesso IDF pensa che Hamas disponga ancora di tremila ordigni.
Il secondo obiettivo era la distruzione delle gallerie. Altro fallimento operativo. Il 3 agosto l'IDF aveva scoperto quaranta tunnel, sempre con accessi molteplici; un numero molto più alto del previsto. Inoltre, i responsabili strategici di Hamas si erano preparati esattamente per far fronte ad operazioni di questo tipo. Scavare i tunnel a grande profondità e riempirne completamente i punti di imbocco li rende difficili, se non impossibili, da identificare; basta conoscere con approssimazione dove si trovano le gallerie incomplete per poi trovarle, riaprirle e completarle dopo il ritiro dei soldati della IDF.
Il livello di competenza raggiunto a Gaza in materia di gallerie sotterranee è cosa che a livello comune non è stata ancora interiorizzata. Un solo tunnel di quelli usati per infiltrarsi nello stato sionista percorre due chilometri e quattrocento metri, si trova a venti metri sotto il livello del suolo ed utilizza trecentocinquanta tonnellate di materiali di rivestimento (Cfr. Shane Harris, "Extensive Hamas tunnel network points to Israeli intelligence failure", Foreign Policy, 3 agosto 2014)
Il raggiungimento di queste competenze si spiega in parte con l'esperienza fatta durante gli ultimi anni, con la costruzione di gallerie per il traffico commerciale sotto la frontiera con l'Egitto. Secondo un servizio di Al Jazeera, per unire Gaza all'Egitto sono state scavate oltre cinquecento gallerie. L'opera ha richiesto il lavoro di settemila persone. Anche se l'IDF fosse riuscito a distruggere tutti i tunnel costruiti da Hamas, cosa che di per sé è improbabile, non ci vorrà molto per costruirne altri; qui contano le competenze, e l'utilizzo di una mano d'opera addestrata.

Oltre a tutto questo, c'è anche l'aspetto meno noto dell'operazione Margine Protettivo rappresentato dal livello delle perdite dei sionisti, che si è rivelato parecchio più alto di quanto si temesse. Ovviamente le vittime palestinesi sono assai di più; oltre milleottocento morti e novemila feriti, civili per oltre il sessantotto per cento. Un paragone con la Piombo Fuso del 2008-2009 è eloquente. In quel caso l'IDF uccise mille e quattrocentoquaranta palestinesi nel corso di ventitré giorni, perdendo nove soldati in combattimento ed altri quattro per fuoco amico. Stavolta, l'IDF ha fino ad oggi perso sessantaquattro soldati in ventotto giorni. La censura militare ha permesso che il numero dei morti fosse pubblico, ma ha fatto circolare pochissimi dati sui feriti; una fonte degna di credito li calcola in oltre quattrocento. 
La popolazione ebraica dello stato sionista ammonta a circa un decimo di quella del Regno Unito. In proporzione, le perdite in ventotto giorni di guerra superano il numero di vittime britanniche complessive di sei anni di guerra in Iraq e di dodici anni di guerra in Afghanistan. Una valutazione rivelatrice è stata fatta da un ex maggiore generale dell'esercito statunitense, Robert H. Scales, insieme ad un esperto di questioni di difesa, Douglas A. Olivant:
"Non ci sono più gli sparuti e ondivaghi gruppi di combattenti visti all'opera ai tempi di Piombo Fuso nel 2008. A Gaza oggi si combatte inquadrati in squadre strettamente coordinate e ben organizzate, sotto comandanti ben interconnessi e che dispongono di buone informazioni. Le unità si attestano e combattono dai seminterrati e dalle gallerie: aspettano che i soldati dell'IDF li superino e poi li prendono alle spalle" (cfr. "Gli eserciti del terrore combattono, più efficienti e letali che mai", Washington Post, 4 agosto 2014).
Gli scriventi estendono le loro conclusioni agli sviluppi in corso in tutto il Medio Oriente, ivi compresi i combattenti islamici in Iraq. Le loro conclusioni sono in un paragrafo dirompente, soprattutto se consideriamo da quale parte arriva, e che è opportuno citare per intero.
"Quello che stiamo vedendo a Gaza, in Siria ed in Iraq dovrebbe servire come antidoto contro qualunque guru della politica istituzionale che si azzardi ad invocare un ritorno delle forze statunitensi in Iraq. I Marines e i soldati statunitensi sono ancora delle forze combattenti di prim'ordine, ma il vantaggio comparativo di cui godono è diminuito. I gruppi terroristici stanno diventando veri e propri eserciti in cui la dedizione fanatica si accompagna a competenze tattiche di recente acquisizione; intervenire di nuovo in questo contesto potrebbe portare a perdite di scala molto maggiore, come i sionisti hanno imparato a proprie spese".
Il 4 agosto, prima i sionisti hanno avanzato la proposta di una breve tregua; poi hanno stretto un cessate il fuoco di tre giorni.  Si tratta di un gesto che contrasta visibilmente con l'insistenza con cui, appena un giorno prima, il Primo Ministro Benjamin Nethanyahu aveva parlato di "completare la missione". Forse questo repentino mutamento di rotta nasce dai resoconti prodotti dagli ambasciatori sionisti in ogni parte del mondo, o forse l'amministrazione Obama ha alla fine fatto pressioni. Ma forse è stato perché i comandanti dell'IDF si erano fatti un'idea della situazione molto più realistica di quella dei loro politici, e hanno detto chiaramente che si sarebbe dovuto cantare vittoria e ritirarsi. Finché si era ancora in tempo.

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