martedì 26 novembre 2013

A Firenze regnano il degrado e l'insicurezza (amministrative 2014)


"Degrado e insicurezza regnano nella città delle giunte rosse insieme a rifiuti ovunque: il 24 novembre Firenze è stata oltraggiata dalla manifestazione podistica del sindaco, che non ha pensato ai nostri marò e neppure alla crisi dell'industria automobilistica nazionale che avrebbe suggerito a chiunque non fosse stato accecato da pauperistiche nostalgie condannate dalla storia e dal crollo del muro di Berlino di organizzare un gran premio[*] invece di attirare undicimila persone che hanno bivaccato per le strade, causato una giornata di vendite perse ai commercianti e fatto diminuire il valore degli immobili.
A Breve Firenze della Libertà presenterà allo Hotel Mediterraneo la propria campagna per i militari per le strade e per l'organizzazione di una prova del campionato mondiale di offshore nelle acque dell'Arno, nell'esclusiva cornice del Ponte Vecchio e del Lungarno Archibusieri".

Comunicato stampa di "Firenze della Libertà", 25 novembre 2013.

[*] Qualche piccolo precedente fa pensare che la cosa non sarebbe troppo aliena al gentrified world del boiscàut Matteo Renzi.


L'intento del testo è scopertamente ironico. Non avevamo messo in conto il fatto che quando si parla di politica "occidentalista" realtà e fantasia finiscono spesso per coincidere.




sabato 23 novembre 2013

Repubblica Islamica dell'Iran e Federazione Russa: alleanza militare ed energetica in Medio Oriente secondo Conflicts Forum



Traduzione da Conflicts Forum.

L'unica cosa sicura che è venuta fuori dai primi incontri degli Stati Uniti e dei "cinque più uno" [il gruppo di paesi che conduce le trattative sul nucleare con la Repubblica Islamica dell'Iran, N.d.T.] è che finalmente si è fatta chiarezza sulle vere posizioni delle parti in causa. E' chiaro che i sauditi -come Eraclito negli inferi- stanno diventando matti cercando di uccidere i demoni del Medio Oriente, dove con demoni deve intendersi qualsiasi cosa che sia altra da loro. A differenza di Eraclito però non hanno nessun Ermete, nessuna guida, che gli faccia capire che non possono davvero uccidere Medusa o Cerbero, il cane dalle molte teste, perché si tratta soltanto di immagini. Immagini che in ultima istanza sono scaturite dalle profondità dello stesso Eraclito. Fino ad oggi non sembra che all'interno della Casa dei Saud sia venuto fuori alcun Ermete, almeno per quanto si può notare stando all'esterno di essa. Si direbbe anzi che i suoi appartenenti sembrino oggi come oggi impossibilitati ad agire a causa di una odiosa disputa familiare in merito al futuro della corona.
A meno che non arrivi presto un deus ex machina, cosa che potrebbe anche succedere, i sauditi paiono davvero intenzionati ad inasprire la loro minacciosa intenzione di massacrare tutti i "demoni" della Siria, del Libano, dell'Iraq, dello Yemen e dell'Iran. Una missione da Eraclito in un oltretomba mediorientale che avrà di sicuro una certa influenza sulla tempistica per una Ginevra II, ma che può anche costituire il problema per le negoziazioni con l'Iran. L'intransigenza dei sauditi incoraggia sia la Francia che lo stato sionista a cercare di bloccare i negoziati. La Francia lo fa per motivazioni essenzialmente commerciali: spera di sostituire gli Stati Uniti nel ruolo di parner commerciale favorito dell'Arabia Saudita, mentre i sionisti lo fanno perché il Primo Ministro dello stato sionista non ha mai concepito un negoziato con l'Iran che fosse qualcosa di diverso da una discussione sui termini della sua resa.
Le recenti dichiarazioni di portavoce ufficiali degli Stati Uniti, attori cooptati dai mass media del mainstream statunitense, sottolineano il mutamento degli interessi statunitensi ed anche l'abbandono del concetto secondo il quale gli Stati Uniti dovrebbero fare soltanto gli "avvocati dell'Arabia Saudita e dello stato sionista". Tutte cose che fanno pensare che l'amministrazione statunitense intenda contrastare l'asse franco-saudita e sionista. Cosa ancora più importante, quello che filtra fa pensare che la struttura di accordo temporaneo proposta a Ginevra non sia stata buttata lì al momento, ma scaturisca dai colloqui tra Stati Uniti e Repubblica Islamica dell'Iran tenutisi negli ultimi mesi in Oman; insomma, gli Stati Uniti sembrano chiaramente intenzionati a proseguire sul cammino intrapreso nei confronti dell'Iran.
L'altro elemento chiave per gli eventi interconnessi che si verificano in Medio Oriente è la Russia. Una Russia che cooperando con l'AmeriKKKa è riuscita a raggiungere un accordo sugli armamenti chimici con la Siria. Una Russia che per la prima volta dopo trent'anni ha un suo ruolo in un Egitto divenuto fragile, in un momento in cui l'influenza ameriKKKana si è offuscata.
La Russia è profondamente coinvolta nella campagna contro l'estremismo sunnita e può fondatamente affermare di aver influenzato la stesura della bozza sull'accordo temporaneo proposto a Ginevra grazie agli specifici contatti diretti con Tehran che coltiva da lunga data. Ora, la Russia è un potenziale alleato di un Iran che emerge dall'isolamento, o considera l'Iran come un concorrente suscettibile di minacciare direttamente i suoi interessi nel campo dell'energia?
"E' stata espressa l'idea", ha notato l'autorevole commentatore Fyodor Lukyanov, "che da un'uscita dell'Iran dall'isolamento costituirebbe una perdita per la Russia perché la relazione privilegiata attualmente in essere è basata essenzialmente sul fatto che Tehran è colpita dalle sanzioni e non ha alcun altro cui rivolgersi se non la Russia. Questo vale soprattutto per i rapporti che riguardano la costruzione di centrali nucleari e la cooperazione tecnica e militare. Appena l'Iran avrà altre opportunità, si rivolgerà immediatamente verso i più influenti paesi occidentali. C'è sempre il rischio che un paese che si dimostra "amichevole" in tempo di bisogno si allontani appena la morsa dell'isolamento si allenta. E' quello che è successo, in una certa misura, con la Libia di Gheddafi e con la Serbia del dopo Milosevic".
Conflicts Forum è riconoscente verso un collega che ha comunicato dietro invito questo suo punto di vista da addentro il Medio Oriente: "I recenti disordini in Siria sono serviti ad inasprire e a rendere molto più evidente la frattura che già esisteva in Medio Oriente fra i due blocchi opposti; una divisione che nel corso dell'ultimo decennio si è ulteriormente allargata. Di sicuro sono stati molti i fattori che ci hanno portato fino a questo punto, ma un contributo significativo lo ha dato il progetto di costruire un gasdotto per portare il gas dal Qatar attraverso l'Arabia Saudita, la Giordania e la Siria fino al Mediterraneo e di qui ai mercati europei. Il governo di Assad rappresentava il primo ostacolo sulla strada di questa conduttura politicamente strategica. Solo che Assad non era l'unico ad ostacolarne la realizzazione; il progetto ha fatto sì che Russia ed Iran scoprissero di avere interessi in comune in materia di risorse energetiche che costituiscono a loro volta un buon motivo per sostenere la scelta di Assad, ed ha anche fatto in modo che i loro interessi strategici e politici finissero per coincidere. Una situazione simile si trova per il caso dell'esportazione del gas turkmeno; Iran e Russia bloccano ogni possibilità di fornitura diretta all'Europa che possa superare il percorso del gas atttraverso i gasdotti russi, iraniani o condivisi tra i due paesi.
Per i russi, proteggere gli sforzi fatti per diventare il principale fornitore energetico dell'Unione Europea e prevenire ogni concorrente in questo settore rappresenta una priorità strategica. L'Iran ha interesse ad impedire che il Qatar diventi il principale esportatore di gas dal Golfo Persico, specialmente in un momento in cui l'Iran è sottoposto a sanzioni e non gli è possibile esportare il gas che produce. Gli iraniani non guardano tanto all'Europa, ma alla possibilità di rifornire i propri vicini, Siria e Libano compresi, considerati dall'Iran come un mercato in crescita. Tutti e due i paesi, soprattutto, desidererebbero impedire che l'importanza strategica come fornitori di energia del Qatar e dell'Arabia Saudita per i paesi europei diventi ulteriormente ampia. Russia ed Iran hanno ogni interesse ad imperdire che la conduttura dal Qatar venga realizzata, ma hanno anche interesse a far sì che in futuro Siria e Libano siano economicamente stabili, cosa che un gasdotto contribuirebbe ad assicurare.
Al di là di questi punti di vista condivisi, la composizione degli interessi di Russia ed Iran è più sfumata. La Russia sta guardando con attenzione al gasdotto, progettato dagli iraniani, destinato a portare il gas dal Golfo alla Siria e che viene sviluppato in accordo con l'Iraq. L'Iran ha dichiarato che lo scopo principale della conduttura è quello di fornire gas alla Siria, all'Iraq e per quanto sarà possibile anche al Libano. Si pensa che Iraq, Siria e Libano considerati insieme avranno bisogno di circa sedici miliardi di barili equivalenti all'anno, mentre la capacità della struttura in progetto arriva a quaranta miliardi. Le preoccupazioni dei russi potrebbero riguardare l'eccedenza, che potrebbe arrivare ad altre destinazioni attraverso la progettazione di condotte alternative che vadano dal Mediterraneo orientale all'Europa e che oggi come oggi sono oggetto di viva considerazione. Gli iraniani tuttavia sono stati molto chiari nell'affermare che non è loro interesse rifornire l'Europa, ma i paesi ad est come l'India e la Cina. Il Pakistan sta scemando dall'orizzonte degli interessi iraniani a causa dell'intransigenza politica mostrata dal suo governo. Al di là di questo, l'interesse è quello di fornire gas ai paesi confinanti. Questo è quello che i portavoce iraniani affermano.
Possiamo supporre che un protrarsi della crisi siriana metterebbe i bastoni tra le ruote ai progetti iraniani, ma non toccherebbe direttamente gli interessi russi perché Gazprom non ne sarebbe impedita nell'estendere ulteriormente il North Stream della propria rete di gasdotti verso l'Europa, né nella realizzazione di un South Stream. Oltreutto, né la Siria né l'Iran vedrebbero in questo una ragione per cui i russi dovrebbero indugiare oltre per un accordo in Siria dal momento che la sconfitta dell'estremismo sunnita porrebbe fine a qualsiasi preoccupazione il governo russo possa avere in materia di competizione nel settore energetico.
Il nuovo governo e la nuova presidenza iraniani hanno chiaramente l'intenzione di cambiare una situazione in cui l'Iran il gas lo importa, per sfruttare al massimo il significativo potenziale che esso ha come esportatore. In questo contesto l'Iran  sta portando avanti i negoziati con il "cinque più uno" e allo stesso tempo sta indicando che è sua intenzione aprire la propria industria energetica agli investitori stranieri. L'Iran ha bisogno di attrarre investimenti stranieri nel settore energetico per cento miliardi di dollari. Per questo, gli iraniani si sono anche resi disponibili a cambiare i contratti in essere e ad alleggerire le procedure per rendere il settore più appetibile agli investitori esteri. Naturalmente, l'Iran vorrebbe creare una vera competizione tra le più grandi compagnie petrolifere internazionali, russe, cinesi e forse anche statunitensi. Anche i russi vogliono che l'Iran apra alle compagnie russe il settore del gas naturale.
Se l'Iran diverrà un esportatore consistente, il mercato internazionale del gas ed il percorso delle forniture cambierebbero in modo significativo. La Russia sta osservando con molta attenzione tutte le mosse iraniane in questo campo, specialmente per quello che riguarda una possibile apertura nei confronti dell'Occidente in generale, allo scopo di proteggere i propri interessi nel caso essa si verifichi. I russi controlleranno ogni tentativo di portare il gas iraniano in Europa attraverso la Turchia, l'Azerbaigian o il Mediterraneo orientale scavalcando la Russia ed escludendo Gazprom dalla partita. Ci si può aspettare che i russi si muoveranno in modo concreto per sventare ogni mossa del genere, come hanno già fatto in passato. Ad esempio, Gazprom ha fatto in modo che il gasdotto iraniano-armeno, in funzione fin dal 2009, venisse ridotto al cinquanta per cento della capacità prevista e non avesse così la portata sufficiente ad esportare in Europa.
Per i russi, restare i principali fornitori di gas all'Europa -ed usare questa posizione di forza come punto di appoggio per la loro politica nei confronti dei paesi europei- è una priorità strategica. Per questo la Russia sta facendo forti pressioni per la rimozione degli ultimi ostacoli che si contrappongono alla costruzione del South Stream, per esempio in Serbia. Ma è possibile che una volta che il South Stream sarà in funzione, i russi vedranno di buon grado l'afflusso di gas iraniano in esso.
Ci sono molte ragioni che spingono Russia ed Iran a cooperare in campo energetico e ad affermare i propri interessi comuni come il controllo del trasporto a livello mondiale, delle forniture e del prezzo del gas naturale. Hanno una forte influenza nel futuro di questa industria e nel prezzo del gas sul mercato internazionale. Nel caso che non riescano a rafforzare la loro cooperazione, sono destinati ad entrare in concorrenza e la cosa sarà a detrimento di entrambi.
Una cooperazione strategica dovrebbe prevedere una divisione dei mercati per comune accordo -con la Russia che si concentra sull'Europa e l'Iran che si concentra sulla Cina, sull'India, sul Giappone e sui paesi confinanti- una serie di progetti per interconnettere i gasdotti esistenti, e la promozione della cooperazione regionale per i giacimenti nel Caspio; questa potrebbe includere anche un accordo per il controllo delle esportazioni dal Turkmenistan. Oggi come oggi sono in corso tentativi per promuovere la cooperazione a tre livelli distinti: attraverso accordi bilaterali di cooperazione nel campo del gas naturale e del petrolio, attraverso il forum dei paesi esportatori di gas naturale (GESF) che riunisce i tredici maggiori produttori, e tramite l'Organizazione per la Cooperazione di Shanghai, di cui fanno parte i più grandi produttori ed i più grandi consumatori di petrolio e di gas del continente asiatico.
Soprattutto, le relazioni bilaterali nel loro complesso e l'alleanza tra Russia ed Iran sono in ascesa. La Russia di oggi è, ed è destinata a rimanere, il principale fornitore di armamenti e di tecnologia nucleare all'Iran e rappresenta un contrappeso vitale all'Occidente, soprattutto se si tiene conto del rafforzarsi dell'influenza dei russi sulla regione e dell'impegno che la Russia ha dimostrato nel sostenere e nel proteggere i propri alleati. Iran e Russia condividono anche molti dei rispettivi interessi strategici, primo tra tutti la protezione delle risorse naturali, la prevenzione dell'espandersi dell'ideologia salafita radicale e della militanza di AlQaeda; condividono anche l'intento di tutelare i rispettivi interessi in materia di sicurezza nel Caspio, in Asia Centrale, in Medio oriente e nel Golfo. Il confluire dei massimi interessi strategici nazionali tra i due paesi non lascia loro altra scelta che quella di cooperare anche nel settore del gas e dell'energia".
Questo punto di vista ha l'appogggio di Fyodor Lukyanov: "è tempo [per i russi] di promuovere la propria apertura verso l'Iran: il conflitto in Siria, in tutte le sue multiformi manifestazioni, ha cambiato il panorama diplomatico mediorientale. La posizione intransigente della Russia, anche se basata su considerazioni di ordine mondiale che superano quelle di ordine regionale, ha portato ad un risultato inatteso.
Gli interessi russi ed iraniani sono strettamente imparentati, assai più di quanto non lo fossero prima, quando i due paesi stavano sostanzialmente cercando di sfruttare l'uno i punti deboli dell'altro in nome dei propri interessi particolari. L'emergere di un'alleanza che è dovuta alla situazione -e oggi come oggi anche alla logica- tra Mosca, Tehran, Baghdad, Damasco e Hezbollah ha fatto della Russia un attore regionale più influente di quanto essa potesse aspettarsi anche solo due anni or sono. Sulla piega presa dagli eventi... si basano i fondamenti per agire in Medio Oriente".

venerdì 22 novembre 2013

Ha Keillah pubblica una risposta a Moni Ovadia


Da qualche tempo il prestigio e l'autorità dello stato sionista, cui nessuno ha mai osato negare nulla sul piano internazionale, stanno conoscendo una fase di appannamento.

Ha Keillah è la versione in rete di un "bimestrale ebraico torinese, organo del gruppo di Studi Ebraici".
Nel suo numero di ottobre ha pubblicato una "risposta a Moni Ovadia" firmata da una certa Silvana Tedeschi.
I tempi di pubblicazione sono quelli che sono; la "risposta" non fa riferimento alla recente decisione di Ovadia di abbandonare la comunità ebraica di Milano, ma ad un altro e ancor più irrilevante episodio di qualche mese fa. In un articolo di gazzetta Ovadia (a cui dovrebbe essere imminente a questo punto la consegna dei gradi da SS-Standartenfuhrer onorario) si è espresso favorevolmente ad un'eventuale decisione dell'Unione Europea che stabilisse di "escludere da tutti gli accordi commerciali ed economici con lo stato sionista le attività e le produzioni che avvengono nelle colonie".
Lo scritto di Silvana Tedeschi è permeato da una tale competenza e da una tale fondatezza, da una così rigorosa inventio argomentativa che persino la redazione di una rivista come questa ha pensato giusto farlo seguire da alcune righe di commento.
Il nome dello stato che occupa la penisola italiana compare nell'originale citato; come sempre ce ne scusiamo con i nostri lettori, specie con quanti avessero appena finito di pranzare.

Cara Ha Keillah,
vorrei, tramite tuo, rispondere a un articolo comparso su l’Unità a metà luglio, in cui Moni Ovadia plaudeva a una proposta, o decisione, dell’Unione Europea, di boicottare quanto prodotto dagli abitanti ebrei dei “territori”. Ora io mi domando: il Sig. Ovadia non avrà mai mangiato una mela Melinda, gustato un formaggio di malga o bevuto un calice di vino atesino? E non sa che il sud Tirolo fu strappato all’Austria dall’Italia? Ci sarebbero altre buone cause nel mondo che il Sig. Ovadia potrebbe patrocinare: penso che gli sarà capitato di indossare una maglia di gran firma, prodotta per l’Italia in Bangladesh, con il lavoro di bambine pagate 2 dollari l’ora, o di acquistare un oggetto di rame, minerale scavato da poveri minatori in Cile, e l’elenco potrebbe continuare.
Il Sig Ovadia sappia che i prodotti agricoli coltivati da arabi nei territori sono commercializzati in Israele, e che in Israele gli arabi godono di tutti i diritti civili, e hanno rappresentanti alla Knesset.
Vorrei ancora fare presente al Sig. Ovadia, già apprezzato attore ed ora talk man, che noi, che non siamo leghisti, apprezziamo il “melting pot”. Mi pare che lui stesso sia di origini bulgare, allora che ci fa in Italia? A Torino vivono e lavorano centinaia di romeni, e poi cinesi, africani e altri, e nessuno tranne razzisti o leghisti, ci trova nulla da ridire. Il Sig. Ovadia appartiene forse a queste categorie?

Cordialmente
Silvana Tedeschi

Torino, 2 Agosto 2013

Per chiarire l’argomento riteniamo opportuno ricordare che, a differenza degli abitanti del Sud Tirolo, gli arabi dei Territori (che non sono da considerarsi parte di Israele neanche secondo la legislazione israeliana) non godono di tutti i diritti civili perché sono soggetti a un regime di occupazione militare e, non essendo cittadini israeliani, non sono ovviamente rappresentati alla Knesset, a differenza degli arabi con cittadinanza israeliana che vivono entro i confini precedenti al 1967 (ma non è a quelli che si riferivano né l’Unione Europea né Moni Ovadia). Invece gli ebrei che vivono nei Territori sono cittadini israeliani e godono dei diritti civili e politici.

HK

martedì 12 novembre 2013

Moni Ovadia lascia la comunità ebraica di Milano


All'inizio di novembre 2013 si viene a sapere dalle gazzette che Moni Ovadia ha deciso di lasciare la comunità ebraica di Milano. 
Da altre gazzette si viene a sapere che l'occidentalame ha gradito assai poco ed è verosimile che Ovadia sia stato aggiunto alla lista da cui la feccia gazzettiera è solita attingere nel caso occorra linciare qualcuno.
Il suo scritto rappresenta d'altronde un caso molto grave, pieno com'è di argomentazioni fondate e di obiettive critiche al sionismo contemporaneo. Dal momento che assieme alla competenza non c'è nulla che più della fondatezza e dell'obiettività sia in grado di irritare maggiormente gli "occidentalisti" dei foglietti e della politica, possiamo concludere che ci sono tutti gli estremi per fare di Ovadia un nostalgico delle camere a gas alla prima occasione utile.
Dal gazzettaio "occidentalista" è il minimo che ci si possa attendere.
Va detto che questo periodo, per il sionismo gazzettiero, non è dei più felici. Dopo non si sa quanti anni lo stato sionista sta attraversando un momento difficile dal punto di vista diplomatico. Tra le altre cose il governo yankee ha da qualche tempo messo in secondo piano i continui piagnistei della lobby sionista cui non ha negato nulla per decenni, ed ha aperto un canale di dialogo con la Repubblica Islamica dell'Iran; i difensori dello stato sionista continuano come se nulla fosse con la propaganda, e fanno come al solito finta di non sapere cosa possa aver mai combinato la loro committenza per suscitare reazioni scostanti e gravide di repulsione in qualunque consesso minimamente civile e documentato,
הַסְבָּרָה nonostante.

Lunedì scorso tramite un'intervista chiestami dal Fatto Quotidiano, ho dato notizia della mia decisione definitiva di uscire dalla comunità ebraica di Milano, di cui facevo parte, oramai solo virtualmente, ed esclusivamente per il rispetto dovuto alla memoria dei miei genitori.
A seguito di questa intervista il Manifesto mi ha invitato a riflettere e ad approfondire le ragioni e il senso del mio gesto, invito che ho accolto con estremo piacere. Premetto che io tengo molto alla mia identità di ebreo pur essendo agnostico.
Ci tengo, sia chiaro, per come la vedo e la sento io. La mia visione ovviamente non impegna nessun altro essere umano, ebreo o non ebreo che sia, se non in base a consonanze e risonanze per sua libera scelta. Sono molteplici le ragioni che mi legano a questa «appartenenza».
Una delle più importanti è lo splendore paradossale che caratterizza l'ebraismo: la fondazione dell'universalismo e dell'umanesimo monoteista - prima radice dirompente dell'umanesimo tout court - attraverso un particolarismo geniale che si esprime in una "elezione" dal basso. Il concetto di popolo eletto è uno dei più equivocati e fraintesi di tutta la storia.
Chi sono dunque gli ebrei e perché vengono eletti? Il grande rabbino Chaim Potok, direttore del Jewish Seminar di New York, nel suo «Storia degli ebrei» li descrive grosso modo così : «Erano una massa terrorizzata e piagnucolosa di asiatici sbandati. Ed erano: Israeliti discendenti di Giacobbe, Accadi, Ittiti, transfughi Egizi e molti habiru, parola di derivazione accadica che indica i briganti vagabondi a vario titolo: ribelli, sovversivi, ladri, ruffiani, contrabbandieri. Ma soprattutto gli ebrei erano schiavi e stranieri, la schiuma della terra». Il divino che incontrano si dichiara Dio dello schiavo e dello Straniero. E, inevitabilmente, legittimandosi dal basso non può che essere il Dio della fratellanza universale e dell'uguaglianza.
Non si dimentichi mai che il «comandamento più ripetuto nella Torah sarà: Amerai lo straniero! Ricordati che fosti straniero in terra d'Egitto! Io sono il Signore!» L'amore per lo straniero è fondativo dell'Ethos ebraico. Questo «mucchio selvaggio» segue un profeta balbuziente, un vecchio di ottant'anni che ha fatto per sessant'anni il pastore, mestiere da donne e da bambini. Lo segue verso la libertà e verso un'elezione dal basso che fa dell'ultimo, dell'infimo, l'eletto - avanguardia di un processo di liberazione/redenzione. Ritroveremo la stessa prospettiva nell'ebreo Gesù: «Beati gli ultimi che saranno i primi» e nell'ebreo Marx: «La classe operaia, gli ultimi della scala sociale, con la sua lotta riscatterà l'umanità tutta dallo sfruttamento e dall'alienazione». Il popolo di Mosé fu inoltre una minoranza. Solo il venti per cento degli ebrei intrapresero il progetto, la stragrande maggioranza preferì la dura ma rassicurante certezza della schiavitù all'aspra e difficile vertigine della libertà.
Dalla rivoluzionaria impresa di questi meticci «dalla dura cervice», scaturì un orizzonte inaudito che fu certamente anche un'istanza di fede e di religione, ma fu soprattutto una sconvolgente idea di società e di umanità fondata sulla giustizia sociale.
Lo possiamo ascoltare nelle parole infiammate del profeta Isaia. Il profeta mette la sua voce e la sua indignazione al servizio del Santo Benedetto che è il vero latore del messaggio: «Che mi importa dei vostri sacrifici senza numero, sono sazio degli olocausti di montoni e del grasso dei giovenchi. Il sangue di tori, di capri e di agnelli Io non lo gradisco. Quando venite a presentarvi a me, chi richiede da voi che veniate a calpestare i Miei Atri? Smettete di presentare offerte inutili, l'incenso è un abominio, noviluni, sabati, assemblee sacre, non posso sopportare delitto e solennità. I vostri noviluni e le vostre feste io li detesto, sono per me un peso sono stanco di sopportarli. Quando stendete le mani, Io allontano gli occhi da voi. Anche se moltiplicate le preghiere, Io non ascolto. Le vostre mani grondano sangue. Lavatevi, purificatevi, togliete il male delle vostre azioni dalla mia vista. Cessate di fare il male, imparate a fare il bene, ricercate la giustizia, soccorrete l'oppresso, rendete giustizia all'orfano, difendete la causa della vedova».( Isaia I, cap 1 vv 11- 17).
Il messaggio è inequivocabile. Il divino rifiuta la religione dei baciapile e chiede la giustizia sociale, la lotta a fianco dell'oppresso, la difesa dei diritti dei deboli. Un corto circuito della sensibilità fa sì che molti ebrei leggano e non ascoltino, guardino e non vedano. Per questo malfunzionamento delle sinapsi della giustizia, i palestinesi non vengono percepiti come oppressi, i loro diritti come sacrosanti, la loro oppressione innegabile.
Qual'è il guasto che ha creato il corto circuito. Uno smottamento del senso che ha provocato la sostituzione del fine con il mezzo. La creazione di uno Stato ebraico non è stato più pensato come un modo per dare vita ad un modello di società giusta per tutti, per se stessi e per i vicini, ma un mezzo per l'affermazione con la forza di un nazionalismo idolatrico nutrito dalla mistica della terra, sì che molti ebrei, in Israele stesso e nella diaspora, progressivamente hanno messo lo Stato d' Israele al posto della Torah e lo Stato d'Israele, per essi, ha cessato di essere l'entità legittimata dal diritto internazionale, nelle giuste condizioni di sicurezza, che ha il suo confine nella Green Line, ed è diventato sempre più la Grande Israele, legittimata dal fanatismo religioso e dai governi della destra più aggressiva. Essi si pretendono depositari di una ragione a priori.
Per questi ebrei, diversi dei quali alla testa delle istituzioni comunitarie, il buon ebreo deve attenersi allo slogan: un popolo, una terra, un governo, in tedesco suona: ein Folk, ein Reich, ein Land. Sinistro non è vero? Questi ebrei proclamano ad ogni piè sospinto che Israele è l'unico Stato democratico in Medio Oriente. Ma se qualcuno si azzarda a criticare con fermezza democratica la scellerata politica di estensione delle colonizzazioni, lo linciano con accuse infamanti e criminogene e lo ostracizzano come si fa nelle peggiori dittature.
Ecco perché posso con disinvoltura lasciare una comunità ebraica che si è ridotta a questo livello di indegnità, ma non posso rinunciare a battermi con tutte le mie forze per i valori più sacrali dell'ebraismo che sono poi i valori universali dell'uomo.

sabato 9 novembre 2013

Scusaci, Bashar. La Repubblica Araba di Siria nel novembre 2013 secondo Conflicts Forum



Traduzione da Conflicts Forum.

Chiunque abbia visitato la Siria nel corso degli anni può notare la notevole trasformazione in senso qualitativo compiuta dall'esercito siriano e da tutto l'apparato di sicurezza. L'esercito siriano non è più l'organizzazione apatica e demotivata di un tempo; oggi è reattivo, di discreta efficienza e fiducioso nei propri mezzi. Non c'è più alcuna deferenza nei confronti dei personaggi ricchi o influenti, alla guida di autovetture costose o adibite a servizio di stato; ai posti di blocco nessuno può contare su trattamenti di favore. La presenza dell'esercito non è sempre visibilissima, ma esso si trova appena dietro l'angolo, dedito ai propri compiti con cortese efficienza. I vari anelli di sicurezza attorno a Damasco causano grossi ingorghi, ma chiunque visiti la capitale nota che la città è pulita, dotata di infrastrutture moderne e che funziona con efficacia ed efficienza, anche se non in assoluta normalità.
Con questo, non si vuole affermare che non esista tensione. La tensione esiste eccome: i prezzi sono alti, la maggior parte delle persone ha in qualche modo interiorizzato la maniera di convivere con il conflitto, e permane il timore insistente per gli amici e per la famiglia sparsi in tutto il paese. Il fatto è che quello che viene trasmesso dalla maggior parte dei media occidentali fa vedere un intrepido "corrispondente di guerra" di un qualche genere che si ritrova alle prese con un territorio reso instabile dai combattimenti e in mezzo ad un ambiente ostile, e reti di attivisti che agiscono furtivi sottoterra per assicurare i servizi più essenziali, come l'assistenza medica, alla popolazione. Sia la guerra che gli attivisti esistono sul serio, ma non costituiscono la normalità nella maggior parte della Siria. Cosa ancora più importante, la narrativa che le gazzette producono per servire se stesse mette effettivamente in ombra e rende invisibili i cambiamenti, che sono qualitativi e politicamente di tutto rilievo, che stanno attraversando sia il governo che la società siriana intesa nel senso più ampio. Negli ultimi anni la Siria è cambiata molto. A volte una crisi porta gli individui o la società nel suo complesso a frammentarsi, e ne indebolisce la volontà. Una crisi profonda può far sì che qualcuno, una comunità o una società, acquisiscano nuova capacità di resistere e maggior fiducia in se stessi. Potrà anche essere un fenomeno passeggero, ma questa è la Siria di oggi. E questo ha delle implicazioni importanti.

Questo nuovo modo di affrontare la situazione è rinforzato da nuove dinamiche. Il governo avverte con chiarezza che a livello internazionale la politica sta cambiando in senso favorevole, compresa quella statunitense. I servizi segreti di paesi europei come la Germania, la Francia ed il Regno Unito hanno riallacciato rapporti con Damasco. Altri paesi europei stanno con calma prendendo in considerazione l'idea di riaprire le loro ambasciate, alcuni stati del Golfo stanno informalmente esprimendo alle loro controparti siriane i sensi della loro delusione per la politica portata avanti fino ad oggi dal Consiglio dei Paesi del Golfo in generale e dall'Arabia Saudita in particolare, e la maggior parte dei paesi mediorientali sembra oggi favorevole ad una soluzione politica. Anche gli egiziani fanno capire di avere più interessi in comune con la Siria di quanti non ne abbiano con il loro protettore saudita, ma la situazione politica in Egitto non permette oggi di esprimere liberamente questa propensione. A Damasco, comunque, ci sono pochi dubbi sul fatto che il guscio dell'isolamento diplomatico sia stato rotto.

Tutto questo è stato un'iniezione di fiducia per il governo, che ha preso una nuova direzione; la guerra non è più una preoccupazione soverchiante e si pensa in misura sempre maggiore a quello che serve per avviare un processo politico, ed anche ai cambiamenti che la società siriana dovrà affrontare dopo la guerra. Non è soltanto il governo ad essere seriamente impegnato in questo dibattito; il partito Baath ha aperto la discussione sul futuro della siria anche ad altre correnti politiche e ad altri gruppi di interesse e la scorsa settimana si è tenuta una riunione sull'argomento dominata da un clima molto franco; lo stesso sta succedendo nella società siriana nel suo complesso. 

Fuori dalla Siria col vocabolo "transizione" si intende, alla maniera di una prescrizione precisa, quello che il mondo esterno "si attende" dalla Siria. Una transizione è evidentemente necessaria, ce ne sarà una e, come abbiamo appena scritto, in un certo senso è già in corso e sicuramente non sarà una cosa semplice. Tuttavia la transizione che dall'esterno si vorrebbe imporre al governo siriano ignora il più ampio sconvolgimento in corso in Medio Oriente: si invoca la ripartizione del potere come se rappresentasse una specie di panacea, ma in realtà non esiste alcuna "grande idea" a sostenere la visione del futuro, per nessuno degli stati della regione. Il modello turco, quello degli stati del Golfo, quello egiziano, quello dei Fratelli Musulmani, quello occidentale basato sul mercato liberale sono tutti o in parte screditati. E' improbabile che la Siria riesca da sola ad elaborare con facilità le idee su come impostare la propria società su nuove basi, in tempi tanto turbolenti. La ripartizione del potere può far parte della risposta, ma in Siria, in Egitto e in Tunisia la crisi e le sfide da affrontare sono troppo più serie del semplicistico invito occidentale a formare governi di unità nazionale. 

Dietro il mutato clima nelle diplomazie c'è, senza dubbio, un maggiore apprezzamento ed un maggior riconoscimento dei governi occidentali per la situazione reale degli armamenti chimici. Un cambiamento silenzioso ha fatto seguito a questo apprezzamento. Le ispezioni hanno messo in chiaro il fatto che la Siria non possedeva gas nervino. La Siria deteneva scorte di sostanze chimiche di per sé piuttosto normali e dal comportamento stabile, che rappresentavano i costituenti precursori per la produzione dei gas. Finché rimangono separati, i precursori non sono particolarmente pericolosi; ecco perché la distruzione delle scorte siriane sta procedendo in modo così veloce. Soltanto quando vengono mescolate queste sostanze diventano altamente volatili e soggette ad un rapido deterioramento se non vengono utilizzate con molta rapidità. I costituenti di base vengono di solito tenuti ben separati, anche nella testata di lancio; si mescolano soltanto quando i contenitori si rompono al momento dell'impatto.

Sappiamo almeno dai tempi della guerra del 2001 che il Presidente Assad non aveva tempo per armi del genere; era stato suo padre a schierarle per primo, in reazione allo spiegamento nucleare dello stato sionista. Da allora, le scorte di sostanze chimiche dei siriani non sono mai state in condizioni di poter essere usate militarmente. Nonostante questo l'esercito ha continuato a schierare reparti addestrati alla guerra chimica e ha continuato ad addestrarli e a simulare combattimenti, come qualsiasi altro esercito, sia pur senza mischiare i componenti base ovvero senza realizzare in concreto alcuna arma.

A causa della volatilità che queste sostanze presentano una volta mischiate, i governi in possesso di armamenti chimici aggiungono stabilizzatori ai componenti base per evitare ai loro stessi soldati il pericolo derivante da essa. Sta diventando più chiaro che il gas sarin usato in Siria sia a marzo che ad agosto di quest'anno aveva una composizione ed effetti simili, ma non conteneva alcuno degli inibitori che ci si potrebbe aspettare di trovare negli arsenali chmici ufficiali. In altre parole, il sarin non aveva un "DNA" del tipo ufficiale ed è dunque molto improbabile che sia arrivato dalle scorte chimiche governative. I russi hanno piuttosto fornito alle Nazioni Unite prove empiriche che riguardano entrambi i casi e che fino ad ora l'ONU non ha pubblicato; quello che i funzionari russi riferiscono fa pensare che entrambi gli attacchi siano stati messi in piedi dall'opposizione, come provocazioni deliberate. A parte tutto questo, sappiamo anche che l'opposizione e alcuni stati del Medio Oriente si aspettavano "sviluppi consistenti" immediatamente prima gli eventi del 21 agosto: fonti di informazione mediorientali ed internazionali indicano il coinvolgimento del Principe Bandar nell'utilizzo del gas sarin e la consapevolezza del Primo Ministro Erdogan del fatto che uno "sviluppo di vasta portata" stava per verificarsi in Siria; in agosto, funzionari turchi ne avevano parlato ad Istanbul con esponenti dell'opposizione.

In Europa ci sono governi complici di tutto questo, o davvero si credeva che il Presidente Assad avrebbe utilizzato armamenti chimici contro il proprio stesso popolo? Non è chiaro chi sapesse cosa, e a quale livello, ma per congetture si può dire che l'attenta sorveglianza delle esercitazioni dei battaglioni chimici siriani intrapresa da statunitensi e sionisti sia stata in qualche modo "interpretata" per suggerire che l'esercito siriano avesse l'intenzione di usare simili armamenti contro l'opposizione, e che si dovesse dissuaderlo e ammonirlo ripetutamente. Quando si sono verificati gli eventi del 21 agosto, il terreno era già pronto perché qualche politico saltasse diritto alla conclusione che l'esercito siriano aveva alla fine messo a segno un attacco chimico, proprio come la "interpretazione" dei servizi aveva fatto pensare fosse probabile che succedesse. Le tensioni verificatesi all'interno dei servizi statunitensi su come utilizzare le informazioni sull'arsenale chimico siriano, la maggior parte delle quali erano di fonte sionista, sono già state rese pubbliche, e parimenti pubblica è la notizia di alcune dimissioni all'interno della CIA che sono state la conseguenza di questi disaccordi.

Man mano che si fa strada la consapevolezza del fatto che l'Occidente può essere arrivato ad un niente da una guerra sulla base di false premesse (un'altra volta!) si nota che molti governi cominciano a cambiare atteggiamento sia nei confronti del governo siriano che nei confronti dell'opposizione; guadagnano terreno opinioni più scettiche sul conto della sincerità dell'opposizione, e si sentono anche domande scomode sulla politica dei suoi sostenitori. Vediamo anche un ripensamento della considerazione in cui viene tenuto il Presidente Assad. Gli europei stanno ricominciando a collaborare con Damasco a livello di intelligence, mentre gli interessi politici statunitensi sembra stiano prendendo strade differenti anche se sembra che l'ascesa dei gruppi jihadisti di AlQaeda stia emergendo come la principale preoccupazione per la sicurezza, mettendo in ombra il vecchio obiettivo principale rappresentato dal rovesciamento del governo siriano. Ora come ora, sembra che gli Stati Uniti non abbiano alcuna politica per la Siria.  

In Medio Oriente c'è chi pensa che in questo non avere alcuna politica si celi l'intenzione degli Stati Uniti di lasciare  il posto alla Russia, perché siano i russi a prendere qualche iniziativa per metter fine al conflitto, sempre che i russi intendano prendersi questa gatta da pelare (cosa che gli Stati Uniti non vogliono fare). A questo si accompagna l'idea che la Russia possa svolgere un ruolo altrettanto utile agli Stati Uniti arrivando ad una soluzione per la questione nucleare iraniana. In altre parole, un bipolarismo coi russi, in determinate aree del Medio Oriente, potrebbe andar bene anche agli ameriKKKani.

Mettere la sordina è prova di buon senso; limitando l'attenzione a due questioni di primaria importanza come i negoziati con l'Iran e il processo di pace tra Palestina e stato sionista, il Presidente Obama può portare i democratici alle elezioni del Congresso di metà mandato vantando di aver agito in tre campi essenziali per rendere "sicuro" lo stato sionista: quello della sicurezza dello stato sionista rappresenta oggi come oggi la principale preoccupazione dell'elettorato in materia di politica estera, ora che l'idea di plasmare gli stati mediorientali viene considerata dall'elettorato come un brutto film. In primo luogo la principale minaccia alla sicurezza dello stato sionista, ovvero l'arsenale chimico siriano, è stato distrutto. In secondo luogo, l'Iran è stato "costretto" a rinunciare all'idea di dotarsi di armi nucleari, in terzo luogo i palestinesi sono stati costretti a negoziare la pace con lo stato sionista e di ogni fallimento in questo campo potrà essere accusato lo stato sionista, più che il presidente degli Stati Uniti. Forse, con gli interessi ameriKKKani contestualizzati in questo modo, possiamo pensare che si arrivi anche a considerare il Presidente Assad come un possibile alleato nella causa comune della lotta allo jihadismo. Dopotutto, è questa la logica che sottostà alla ripresa dei legami dell'intelligence occidentale con il governo siriano.

A questo quadro che raffigura una Siria in piena metamorfosi politica si contrappone un aspetto che non è cambiato: l'Arabia Saudita, a tutt'oggi, ha continuato a progredire in ampiezza con le sue intromissioni in Iraq, in Libano ed in Siria, dove migliaia di jihadisti stranieri continuano ad infiltrarsi per prendere parte ai combattimenti. Non sorprende dunque l'enfasi con cui il Presidente Assad, nel corso del suo incontro con Laktar Brahimi, ha sostenuto che è necessario che questi gruppi e chi continua ad armarli vengano messi in condizioni di non nuocere se si vuole che il processo politico vada avanti.

Se prosegue l'intromissione saudita, vengono meno le prospettive di qualunque Ginevra II. Allo stesso modo, non esiste alcuna opposizione siriana definita con cui si possano portare avanti delle trattative: esistono dei personaggi con cui il governo può intraprendere un dialogo, cosa che sta effettivamente succedendo, ma la maggior parte di queste personalità contano solo per se stesse e non hanno alle spalle alcuna vera organizzazione, alcun gruppo costituito, e nessuna influenza sulla Siria. Possono esprimere il loro punto di vista, e lo stanno facendo, ma nessuno di costoro può contare su una base in grado di influire sugli equilibri politici in Siria.

La realtà è che innanzitutto occorrerà un'intesa tra Iran e Arabia Saudita, che faccia da presupposto perché un accordo al vertice tra Stati Uniti e Russia abbia qualche possibilità di funzionare. Su questo piano l'opposizione siriana -che è sempre più frammentata- è irrilevante: essa dovrà seguire la tendenza generale che emergerà, se mai ne emergerà una. Tutti coloro che sono interessati al processo di pace in Siria stanno dunque aspettando di vedere se l'Arabia Saudita continuerà a comportarsi come si sta comportando, o se cambierà atteggiamento. Alcuni intravedono la possibilità di un cambiamento in questo senso, semplicemente perché la politica oggi seguita dai sauditi è evidentemente dannosa per la stessa Arabia; gli stessi però sono anche consapevoli del vuoto di potere che c'è ai vertici del regno e del timore, radicato nella casa dei Saud, di perdere la pretesa supremazia sul mondo islamico, che starebbe sfuggendo loro dalle mani lasciandoli con una legittimità come custodi dei luoghi santi di Medina e la Mecca sminuita e in qualche modo minata. Non è molto probabile che un cambiamento di rotta nella politica saudita si sarebbe verificato in tempo per una Ginevra II da tenersi nel mese di novembre.