giovedì 29 novembre 2012

Matteo Renzi: guerra all'Iran. ADESSO!


«Non sono d’accordo con Bersani sul fatto che la centralità di tutto sia il conflitto israelo-palestinese. Il problema è generale di tutta l’area del Medio Oriente. E al centro c’è l’Iran. Dobbiamo noi Europa per primi ascoltare il grido di dolore delle ragazze di Teherhan [sic]. Se non risolviamo lì, non risolviamo il conflitto israelo-palestinese. A Gaza cosa c’è scritto, infatti? ’Grazie Theran’ [sic]. L’Europa non deve lasciare la questione Iran soltanto agli Usa: è quella la madre di tutta le battaglie nel Medio Oriente....»
Tanto scrive la gazzettina in cui tanta cognizione di causa ha a suo tempo profuso il Pinocchio d'Egitto.
Su dove porti per gente simile l'ascolto del "grido di dolore delle ragazze di Tehran" non è il caso di avere dubbi. Ad esportare democrazia a domicilio di clienti tanto difficili, secondo il borgomastro di Firenze loro europei dovrebbero addirittura passare avanti agli Stati Uniti, e pazienza se il potenziale bellico, mezzi ed effettivi, non è propriamente lo stesso.
Chissà se i boiscàut di Rignano sull'Arno verranno inviati sul fronte di Abadan al primo scoppiare delle ostilità, o se la tutela di un mèntore tanto autorevole eviterà loro le piacevolezze della vita di trincea.

mercoledì 28 novembre 2012

Oded Na'aman - "...Più che altro è una punizione..." Testimonianze di soldati sionisti



Traduzione da Asia Times

"Nessun paese al mondo tollererebbe che dei missili cadessero a pioggia sui suoi cittadini, proveniendo dal di fuori dei propri confini" ha detto il presidente Barack Obama durante una conferenza stampa la scorsa settimana. Una considerazione che gli è servita per giustificare l'operazione Colonna di Difesa, l'ultima campagna militare in ordine di tempo che lo stato sionista ha intrapreso nella striscia di Gaza. Facendo propria questa descrizione delle cose Obama dà per assodato, come molti altri, che Gaza rappresenti una entità politica esterna e indipendente rispetto allo stato sionista.
Le cose non stanno così. E' vero che i sionisti hanno ufficialmente abbandonato l'occupazione militare della striscia di Gaza nell'agosto del 2005, ritirando le proprie truppe di terra ed evacuando gli insediamenti; nonostante il fatto che non esista più una presenza stabile sul terreno, lo stato sionista ha comunque mantenuto un ferreo controllo sulla striscia di Gaza, da allora fino ad oggi.
Le testimonianze dei veterani dell'esercito sionista spiegano che si è trattato di un disimpegno per modo di dire. Prima dell'operazione Colonna di Difesa i sionisti hanno scatenato le operazioni Pioggia d'Estate e Nuvole d'Autunno nel 2006, e le operazioni Inverno Caldo e Piombo Fuso nel 2008; tutte hanno contemplato l'invasione da parte delle truppe di terra. In una delle testimonianze un vetrano parla di una operazione durata cinque mesi, nel corso della quale ai soldati veniva ordinato di sparare per "stanare i terroristi" in modo che fosse possibile "ucciderne qualcuno".
Il blocco navale dei sionisti impedisce agli abitanti di Gaza di pescare, e il pesce è una fonte di cibo tra le più importanti per chi vive nella Striscia. Il blocco aereo impedisce di muoversi liberamente. I sionisti non fanno entrare a Gaza materiale da costruzione, impediscono le esportazioni nello stato sionista e nella West Bank, ed impediscono gli spostamenti tra Gaza e la West Bank che non siano motivati da ragioni di emergenza umanitaria. Lo stato sionista controlla l'economia palestinese imponendo di quando in quando delle tasse di importazione. Gli ostacoli messi dai sionisti hanno impedito lo sviluppo ed il miglioramento delle malmesse infrastrutture fognarie di Gaza, una cosa che può rendere insostenibile la vita a Gaza nel giro di una decina d'anni. Il blocco degli impianti di desalinizzazione per l'acqua di mare ha trasformato l'acqua corrente in un pericolo per la salute. I sionisti hanno più volte demolito le piccole centrali elettriche di Gaza per essere sicuri che la Striscia continui a dpendere dalle forniture di energia elettrica provenienti dallo stato sionista: ormai da anni i black out quotidiani sono una cosa normale. La presenza dei sionisti si fa sentire ovunque, che sia militare o meno.

I leader politici si affidano a concezioni sbagliate della realtà. In questo modo, non importa se volontariamente o meno, nascondono informazioni che ci sono indispensabili per comprendere gli eventi. Tra le persone che meglio possono correggere queste concezioni sbagliate ci sono coloro che  hanno avuto il compito di porre in opera le decisioni politiche prese da uno stato sovrano: in questo caso sono i soldati sionisti a rappresentare un'autorevole fonte di informazioni sull'operato del loro governo. Io sono un veterano dell'IDF (le forze di difesa dello stato sionista) e sono in grado di affermare che le esperienze che abbiamo fatto in prima persona smentiscono l'assunto accettato da molti -presidente Obama compreso- secondo cui Gaza è un'entità politica indipendente che conduce la propria esistenza al di fuori dei confini dello stato sionista. Se Gaza è fuori dallo stato sionista, come mai vi eravamo stanziati? Se Gaza è fuori dallo stato sionista, come mai siamo noi a controllarla?
Oded Na'aman


[Le testimonianze che seguono sono di veterani sionisti e sono parte delle 145 raccolte dall'organizzazione non governativa Breaking the Silence, pubblicate in Our Harsh Logic: Israeli Soldiers' Testimonies From the Occupied Territories, 2000-2010. Il libro raccoglie testimonianze rappresentative di ogni divisione dell'IDF e di tutti gli insediamenti militari nella West Bank e nella Striscia di Gaza.]


1. Una casa devastata
Unità: Brigata Kfir
Luogo dell'avvenimento: distretto di Nablus
Anno: 2009

Qual è stato l'avvenimento che più ti ha impressionato nel corso del periodo di servizio che hai trascorso nei territori?
Le perquisizioni che abbiamo fatto a Hares. Ci avevano detto che c'erano sessanta abitazioni da perquisire; io pensavo che i servizi ne sapessero qualcosa e cercai di giustificare così la cosa con me stesso.
Usciste di pattuglia?
No, si mosse tutto il battaglione. Gli uomini si sparpagliarono per tutto il centro abitato, entrarono nella scuola, spaccarono le serrature, entrarono nelle aule. Una diventò la stanza per gli interrogatori dello Shin Bet, una diventò una cella per i detenuti e nella terza andavano i soldati per riposare. Andammo casa per casa, battendo su tutte le porte alle due del mattino. Le famiglie morivano di paura, le ragazze se la facevano addosso. Noi gli si entra in casa e si butta tutto all'aria.
Come funziona, in questi casi?
Funziona che fai riunire tutta la famiglia in una stanza e ci metti qualcuno di guardia; a quello di guardia gli dici di puntargli il fucile contro, e poi vai a frugare in giro per tutto il resto della casa. Secondo un altro ordine che avevamo, tutti quelli nati dopo il 1980... tutti quelli che avevano dai sedici ai ventinove anni, non importa chi fossero, si dovevano portar via ammanettati e bendati. I soldati ricoprivano di urli gli anziani: uno di loro ebbe un attacco epilettico ma continuarono a urlargli contro. Da tutte le case in cui entrammo, portammo alla scuola qualcuno di età compresa tra i sedici e i ventinove anni. Li facemmo sedere legati nel cortile della scuola.
Vi avevano detto il perché di tutto questo?
C'erano da trovare le armi. Ma di armi non ne trovammo neanche una. I soldati confiscarono i coltelli da cucina; qualcuno si mise anche a rubacchiare, un tizio si fregò venti sicli. Altri entravano nelle case e cercavano qualcosa da portarsi via, ma era un villaggio molto povero; c'era chi andava dicendo "Che palle, non c'è nulla da rubare".
Erano di questo tenore le conversazioni tra i soldati.
Certamente. Godevano a vedere quella miseria, i soldati ne parlavano compiaciuti. Ad un certo punto qualcuno si mise a urlare contro i soldati. Tutti si erano accorti del fatto che si trattava di un malato di mente, ma uno degli uomini decise che l'avrebbe picchiato comunque, così lo fracassarono di botte. Lo colpirono alla testa con il calcio del fucile, quello si mise a buttare sangue, lo presero e lo portarono alla scuola insieme a tutti gli altri. C'era già pronta una risma di ordini di arresto firmati dal comandante di battaglione, con uno spazio rimasto bianco; bastava scriverci che la presona era in stato di detenzione perché sospetta di turbativa della pace. Sicché si scrivevano il nome e il motivo dell'arresto. A certi le manette di plastica erano state strette al massimo. Io mi misi a parlare con i detenuti: uno mi raccontò che era stato portato nel territorio dello stato sionista a lavorare per un colono, e che dopo due mesi di lavoro quel tizio non l'aveva pagato e l'aveva consegnato alla polizia.
Tutte queste persone venivano dallo stesso villaggio?
Sì.
Che cos'altro ricordi di quella notte?
Un dettaglio, che però mi colpì. Una casa che era appena stata distrutta. C'era un cane addestrato per la ricerca di armi, ma non se l'erano portato dietro: distrussero la casa e basta. Accanto c'era una madre che guardava e piangeva. I bambini sedevano per terra con lei e la accarezzavano.
Che cosa vuol dire che distrussero la casa?
Vuol dire che fracassarono i pavimenti, ribaltarono i divani, gettarono per terra i quadri e le piante, ribaltarono i letti, spezzarono gli armadi e ruppero le tegole. Mi ricordo anche altre cose, come l'espressione della gente quando gli entri in casa. E dopo tutto questo rimanevano per delle ore legati e bendati dentro la scuola. L'ordine era di liberarli alle quattro del pomeriggio. Stettero in quelle condizioni per più di dodici ore. C'erano degli investigatori dei servizi che li interrogarono tutti, uno per uno.
C'erano stati attacchi terroristici nella zona?
No, e non trovammo neanche un'arma. Secondo il comandante di brigata quelli dello Shin Bet avevano sentito dire che parecchi ragazzi di quella zona tiravano pietre.


2. Il blocco navale
Unità: Marina
Località: Striscia di Gaza
Anno: 2008

Più che altro è una punizione. Detesto queste faccende: "Loro ci hanno fatto quello, e allora noi gli facciamo questo". Avete idea di che cosa significhi il blocco navale per la gente che vive a Gaza? Significa stare senza cibo per qualche giorno. Per esempio, pensate che ci sia un attacco a Netanya e che decidano di mettere per quattro giorni il blocco a tutta la Striscia. Nessuna nave può prendere il largo. Un pattugliatore Dabur sta fisso all'ingresso del porto: se qualcuno cerca di uscirne, in capo a qualche secondo i soldati cominciano con gli spari di avvertimento e magari fanno anche arrivare degli elicotteri d'assalto per incutere ancora più timore. Abbiamo fatto un sacco di operazioni con gli elicotteri d'assalto: quelli degli elicotteri non sparano molto, perferiscono che siamo noi a farlo, ma gli riesce di spaventare la gente volandogli in cerchio sopra la testa. Cioè: tutto d'improvviso ti ritrovi un Cobra sopra la testa, che agita l'aria e fa svolazzare tutto quello che hai attorno.
Questi blocchi sono frequenti?
Molto. Il blocco ci può essere tre volte in un mese, e poi più nulla per tre mesi di séguito. Dipende.
Quanto dura un blocco? Un giorno, due giorni, tre, quattro o di più?
Non mi ricordo di un blocco navale che sia proseguito per più di quattro giorni. Se durassero di più gli abitanti di Gaza comincerebbero a morire, e penso che questo l'IDF lo sappia. Il settanta per cento della gente vive di pesca, non ci sono altre possibilità. Per loro il blocco navale significa non avere da mangiare. Famiglie intere stanno senza mangiare per tutto il tempo del blocco. Mangiano pane ed acqua.


3. Sparare per uccidere
Unità: Corpo dei Genieri
Località: Rafah
Anno: 2006

Durante le operazioni a Gaza, se vedi qualcuno che cammina per strada, gli spari al busto. Durante una missione nella Philadephi Route, se qualcuno va in giro di notte, gli spari al busto.
Sono frequenti queste operazioni?
Sono quotidiane. Nella Philadelphi Route ci andiamo tutti i giorni.
Quando andate in cerca di tunnel, come si comportano le persone che vi vedono? Sono quelle che vivono nella zona, dopotutto.
Funziona così: si porta un gruppo su al terzo o al quarto piano di uno stabile. Un altro gruppo perquisisce gli scantinati. Tutti sanno che per tutto il tempo della perquisizione qualcuno cercherà di attaccare. Sicché si manda gente in alto, che possa sparare a chiunque giù per la strada.
Quanto si spara in questi casi?
A volontà.
Cioè: eccomi qui. Sto su al terzo piano. Sparo a tutti quelli che vedo?
Sì.
Ma è Gaza, in una strada, il posto più densamente popolato al mondo!
No, no: sto parlando della Philadephi Route.
E' una zona di campagna?
No, non proprio. C'è una strada, è un po' come una periferia, non un centro cittadino.
Durante le operazioni negli altri quartieri di Gaza è la stessa cosa. Si spara. Durante le operazioni notturne, si spara.
Si dà un qualche avvertimento alla gente, perché se ne stia chiusa in casa?
No.
E si è davvero sparato alle persone?
Si è sparato a chiunque camminasse per la strada. E alla fine si dice sempre "Oggi abbiamo ammazzato sei terroristi". Chiunque cammini per la strada è un "terrorista".
Dicono questo, agli incontri che seguono la missione?
L'obiettivo è quello di uccidere terroristi.
Che regole d'ingaggio ci sono?
Chiunque vada in giro la notte, gli si spara per uccidere.
Anche durante il giorno?
Si è parlato anche di questo; chiunque vada in giro di giorno va considerato come una persona sospetta. Ma anche un bastone da passeggio può essere qualche cosa di sospetto.


4. Operazione assassinio
Unità: Forze Speciali
Località: Striscia di Gaza
Anno: 2000

All'inizio dell'Intifada c'è stato un periodo in cui si uccideva la gente con i missili lanciati dagli elicotteri.
E' successo all'inizio della seconda Intifada?
Sì. Ma fu un bel casino perché si facevano degli errori e si ammazzava gente che non c'entrava nulla, così ci dissero che saremmo stati impegnati per un'operazione di eliminazione al suolo.
E' questa l'espressione che usarono, "operazione di eliminazione al suolo"?
Non mi ricordo. Ma sapevamo che sarebbe stata la prima di tutta l'Intifada. Era una cosa che i comandanti consideravano molto importante, e cominciammo ad addestrarci. Il piano era di beccare un terrorista sulla via per Rafah, bloccarlo in mezzo di strada ed eliminarlo.
Non arrestarlo?
No, eliminarlo direttamente. Prenderlo a bersaglio. Solo che l'operazione venne cancellata, e pochi giorni dopo ci dissero che avremmo dovuto compiere un arresto. Ricordo che ci restammo male; dovevamo arrestare il tipo, invece di fare qualche cosa di più casinoso, se così si può dire. Così mettemmo a punto i dettagli...
Sicché ci ritroviamo lì in attesa dentro il blindato; con noi ci sono degli agenti dello Shin Bet, e possiamo ascoltare le ultime novità dai servizi. Era avvincente, qualcosa come "E' seduto in casa a bere il caffè, sta scendendo le scale salutando i vicini", roba così. "Sta tornando in casa, sta scendendo di nuovo, sta dicendo questo e quello, sta aprendoil bagagliaio, sta facendo salire un amico". Una cosa davvero dettagliata. Ma poi non si è messo a guidare lui, a guidare c'era qualcun altro, e a noi hanno detto che la sua arma era dentro il bagagliaio. Non era armato, quindi sarebbe stato più facile arrestarlo. Per lo meno mi sono sentito un po' meglio, perché sapevo che se fosse corso a prendere l'arma che aveva, gli avrebbero sparato.
Dov'era l'agente dello Shin Bet?
Stava seduto sul blindato con me. Eravamo in contatto con il comando, e quelli ci dicevano che il tizio sarebbe passato tra cinque minuti, tra quattro, tra uno... E all'ultimo momento gli ordini cambiarono, probabilmente fu il comandante di brigata a cambiarli. Bisognava eliminarlo. Di lì a un minuto. Non ci avevano preparati a questo. Di lì ad un minuto avremmo dovuto ammazzare.
Perché dici che "probabilmente fu il comandante di brigata" a cambiare gli ordini?
Perché lo penso io. Ripensandoci, tutta la faccenda pare un'operazione politica del comandante, che cercava di guadagnar punti facendo il suo primo morto; e anche il comandante della brigata ci stava provando... Tutti lo volevano, tutti ci sentivano. Arriva la macchina, e le cose non vanno come pianificato: la macchina si ferma, ma davanti ce n'è un'altra. Per quanto mi rammento dovevamo sparare, era lì a tre metri. Dovevamo sparare. Dopo che la macchina si fu fermata, io presi la mira e sparai. Il fuoco fece un sacco di rumore folle. E la macchina, appena iniziamo a sparare, iniziò ad accelerare venendo nella nostra direzione.
L'auto che c'era davanti?
No, quella dei terroristi. Probabilmente quando qualcuno ha colpito chi guidava, gli è rimasto il piede piantato sull'acceleratore e la macchina si è involata. Il fuoco di fucileria ha cominciato ad aumentare e l'ufficiale acanto a me comincia a urlare "Fermi, fermi, cessate il fuoco" ma nessuno smette. I nostri ragazzi escono e si mettono a correre, allondanandosi dalla jeep e dal mezzo corazzato; sparano qualche proiettile e poi tornano indietro. Per qualche minuto, tutto attorno si sentono fischiare proiettili impazziti. "Fermi, fermi, cessate il fuoco" e allora quelli smettono. Hanno sparato decine, se non centinaia di proiettili, contro la prima auto che avevano davanti.
Questo lo dici perché poi avete fatto delle verifiche?
No, perché abbiamo portato fuori i corpi. In quella macchina c'erano tre persone. A quello che sedeva dietro non è successo nulla. E' sceso, si è guardato attorno e ha alzato le mani. Ma i due corpi sui sedili davanti erano letteralmente a pezzi...
Alla fine ho contato quanti proiettili mi erano rimasti. Avevo sparato dieci colpi. Tutta la faccenda è stata terribile: rumore, rumore che ccresceva sempre. Tutto è durato per un secondo e mezzo. E poi abbiamo porato fuori i corpi, li abbiamo portati via. C'è stato un debriefing. Non dimenticherò mai di quando abbiamo portato i corpi alla base. Ci siamo messi a semicerchio ad un paio di metri di distanza dai corpi, che si erano riempiti di mosche, e abbiamo fatto il debriefing. Il debriefing consisté in un "Buon lavoro, è stato un successo. C'è stato qualcuno che ha sparato all'auto sbagliata, e parleremo del resto quando saremo di nuovo alla base". Io ero completamente sconvolto per via di tutte quelle detonazioni, per il rumore pazzesco. Abbiamo visto tutto in un video, ogni cosa era stata documentata in un video per il debriefing. Nel video c'erano tutte le cose che ti ho detto, la gente che correva, il momento delle scariche di fucileria che non saprei dire se sono durate venti secondi o un minuto intero, ma sono state centinaia di proiettili ed era chiaro che quella gente era rimasta uccisa, ma il fuoco era continuato e i soldati erano corsi lontano dal blindato. Io ho visto solo un mucchio di ragazzi assetati di sangue che sparavano una quantità folle di proiettili, e per giunta sulla macchina sbagliata. Era un video orribile, e il comandante dell'unità se lo prese. Sono sicuro che sentiremo molto parlare di lui.
 Cosa vuoi dire?
 Voglio dire che diventerà un ufficiale al comando regionale o magari anche un capo di stato maggiore, un giorno. Quella volta disse che "l'operazione non è stata portata a termine in modo perfetto, ma la missione è compiuta e ci hanno chiamato dallo stato maggiore, dal ministro della difesa, dal primo ministro". Tutti erano soddisfatti perché è una buona cosa per il reparto, e l'operazione si era rivelata proprio "un bel lavoro", eh. Il debriefing successivo era solo una scusa.
Cioè?
Cioè nessuno si è fermato un attimo a dire che "sono morte tre persone innocenti". Magari non c'era altro modo di fermare quell'autista, ma gli altri chi erano?
E chi erano, davvero?
All'epoca avevo un amico che si stava addestrando con lo Shin Bet; mi raccontò delle freddure che giravano circa il fatto che quel famoso terrorista era un signor nessuno. A dir tanto aveva partecipato a qualche sparatoria, e gli altri due non c'entravano niente. Quello che mi colpì è che il giorno dopo l'operazione i giornali se ne uscirono a dire che "un reparto segreto aveva ucciso quattro terroristi" e c'era tutta una storia per ciascuno di loro, da dove venivano, chi aveva fatto cosa, le azioni cui avevano partecipato. Ma io sapevo che alla base dello Shin Bet se ne stavano a sghignazzare di come avevamo ammazzato un signor nessuno e di come gli altri due non c'entrassero niente, e che al debriefing di tutto questo nessuno aveva fatto parola.
Chi condusse il debriefing?
Il comandante del reparto. La prima cosa che mi aspettavo di sentire era che qualcosa di brutto era successo, che avevamo intrapreso un'azione per uccidere una persona e che avevamo finito per ammazzarne quattro. Mi aspettavo che dicesse "voglio sapere chi ha sparato alla macchina che c'era davanti, voglio sapere perché A, B e C se la sono fatta di corsa per partecipare a questa sagra del fuoco a volontà". Ma non è successo niente, ed ho capito che a nssuno importava nulla. Questa gente fa quello che fa, e tanto basti.
I soldati ne hanno parlato tra loro?
Sì, con un paio di loro potei parlarne. Uno era rimasto davvero impressionato ma questo non era bastato per fermarlo. E non bastò nemmeno per fermare me. Ho cominciato a capire solo dopo aver lasciato l'esercito. Ma neanche questo è vero. Ero ancora nell'esercito quando ho capito che era successo qualcosa di veramente brutto. Ma gli agenti dello Shin Bet erano allegri come ragazzini in campeggio.
Cosa vuol dire?
Si battevano il cinque e si abbracciavano tra di loro; erano davvero soddisfatti di loro stessi. Al debriefing non si fecero vedere, non gli interessava. Ma come doveva essere condotta quest'operazione? Come mai nessuno tra i miei superiori ammise che si era trattato di un fallimento? Ed era stato un fallimento così grosso, con tutti quei proiettili che andavano da tutte le parti, che i ragazzi che stavano nel camion rimasero feriti dalle schegge. E' stato un miracolo se non ci siamo ammazzati a vicenda.

5. Le membra di lei erano spappolate sulla parete
Unità: Brigata Givati
Località: Striscia di Gaza
Anno: 2008
Un commilitone mi ha raccontato di aver preso parte ad un'operazione nel corso della quale una donna saltò in aria e le sue membra cosparsero tutta una parete. Avevano bussato e bussato alla sua porta senza che nessuno aprisse, così decisero di aprirla con l'esplosivo. Avevano minato la porta e proprio in quel momento la donna arrivò ad aprire. Dopo, arrivarono i suoi bambini e la videro. Ho sentito parlare di questo fatto a cena, dopo l'operazione. Qualcuno disse che il fatto che quei bambini avessero visto la loro madre spappolata contro il muro lo aveva divertito, e tutti gli altri scoppiarono a ridere. Un'altra volta mi beccai una sfuriata da tutto il plotone quando detti a dei prigionieri un po' d'acqua presa dalla borraccia in dotazione. Mi dissero "Ma cosa fai, sei impazzito"? Io non riuscivo a capire dove fosse il problema, così mi dissero "E dai, microbo". A Nahal Oz successe un incidente con dei ragazzini che erano stati mandati dai loro genitori a cercare di passare nello stato sionista per trovare qualcosa da mangiare; le loro famiglie avevano fame. Erano ragazzini di quattordici o quindici anni, credo. Mi ricordo che uno di loro stava seduto con una benda sugli occhi e che arrivò uno e lo picchiò qui.
Sulle gambe.
Sì. E poi gli versò addosso del lubrificante, quella roba che usiamo per pulire le armi.


6. Abbiamo sparato ai pescatori
Unità: Marina
Località: Striscia di Gaza
Anno: 2007

C'è una zona tutto attorno a Gaza che si trova sotto il controllo della Marina. Anche dopo che le truppe sioniste hanno lasciato la Striscia, sulla frontiera marittima non è cambiato nulla. Mi ricordo che vicino alla Zona K, che divide Gaza dallo stato sionista, c'erano bambini di quattro o di sei anni che si svegliavano presto la mattina per andare a pescare in zone dichiarate inaccessibili. Andavano lì perché tutti gli altri posti erano pieni di gente che pescava. I bambini cercavano sempre di attraversare, ed ogni mattina sparavamo nella loro direzione per spaventarli. La cosa arrivò al punto che sparavamo ai piedi dei bambini che stavano ritti sulla spiaggia, o a quelli che stavano sulle tavole da surf. A bordo con noi c'erano dei poliziotti drusi che gridavano cose in arabo ai bambini. Vedevamo quei poveri bambini piangere.
Come sarebbe a dire "sparavamo nella loro direzione"?
Si cominciava sparando in aria, poi si passa a sparargli vicino, e in casi estremi gli si spara alle gambe.
Da quale distanza?
Da cinque o seicento metri, con una mitragliatrice pesante Rafael completamente automatica.
Cosa vuol dire?
E' una questione di prospettiva. Su uno schermo vedi una misura per l'altezza e una per la profondità, e indichi dove vuoi che finisca il tiro usando un cursore. Il sistema cancella l'effetto delle onde e il tiro finisce dove deve finire; è un sistema preciso.
Miravate ad un metro dalle tavole da surf?
Più che altro a cinque o sei metri. Ho sentito di casi in cui le tavole sono state colpite sul serio, ma non l'ho mai visto succedere. C'erano altre cose che mi disturbavano, quelle che succedevano con le reti da pesca dei palestinesi. Le reti costano circa quattrocentomila sicli, una somma che per loro è come un milione di dollari. Quando ci disobbedivano troppo spesso, noi gli facevamo affondare le reti. Loro lasciavano le reti in acqua per qualcosa come sei ore. Il pattugliatore Dabur ci passa attraverso e gliele distrugge.
Perché?
Per punizione.
Per aver fatto cosa?
Perché non avevano ubbidito. Mettiamo che un'imbarcazione arrivi in una zona proibita. Arriva un Dabur, le gira intorno, spara in aria e si allontana. Un'ora dopo la barca ritorna. E torna anche il Dabur. La terza volta, il Dabur inizia a sparare alle reti, alla barca e alla fine spara per affondarla.
La zona proibita è vicina allo stato sionista?
Ne esiste una vicina allo stato sionista ed un'altra che corre lungo la frontiera tra stato sionista ed Egitto... La frontiera marittima sionista è a dodici miglia dalla costa, quella di Gaza solo a tre. Gaza ha solo tre miglia di acque territoriali e c'è il suo motivo: lo stato sionista vuole prendersi il gas, ed esiste una piattaforma di perforazione a tre miglia e mezzo davanti alla Striscia di Gaza che dovrebbe essere palestinese, mentre invece ce la siamo presa noi... Le forze speciali della Marina devono pensare alla sicurezza di quell'impianto: come ci si avvicina anche solo un uccello, quelli gli sparano. Su questa cosa si arriva a dei livelli di sicurezza manicomiali: una volta abbiamo visto delle reti da pesca messe dagli egiziani al di là del limite delle tre miglia e siamo andati ad affrontarli. Successe un disastro completo.
Cosa vuol dire?
Si trovavano in acque internazionali su cui non abbiamo giurisdizione, ma noi gli abbiamo sparato lo stesso.
Avete sparato alle reti egiziane?
Sì, anche se siamo in pace con l'Egitto.


Oded Na'aman è coautore di Our Harsh Logic: Israeli Soldiers' Testimonies from the Occupied Territories, 2000 - 2010 (Metropolitan Books, 2012). E' anche fondatore di  Breaking the Silence, un organizzazione basata nelo stato sionista che raccoglie testimonianze dei soldati dell'IDF, ed un appartenente alla rete dell'opposizione. Ha fatto il servizio militare nell'IDF, come sergente e come capoplotone in artiglieria, tra il 2000 ed il 2003. Al momento attuale si sta laureando in filosofia a Harvard. Le testimonianze tratte da Our Harsh Logic sono state adattate ed abbreviate.

lunedì 26 novembre 2012

M. K. Bhadrakumar - Una vittoria di Pirro per Benjamin Netanyahu


Traduzione da Asia Times.

 Il Primo Ministro dello stato sionista Benjamin Netanyahu ad una prima occhiata avrebbe scatenato l'aggressione contro Gaza vincendola a punteggio pieno. Dieci tiri e dieci centri, il risultato della settimana di combattimenti chiamata "Operazione Colonna di Difesa".
L'unico problema è che si tratta di una vittoria di Pirro, qualcosa che fa tornare in mente l'illusione creata dalle streghe nel dramma di Shakespeare: "Nessun potere di uomo nato da donna / potrà nuocere a Macbeth". Ma la realtà non è lontana: "Macbeth mai sarà detronizzato, fino a quando / il grande bosco di Birnam fino all'alta collina di Dusinaine / non si muoverà contro di lui".
L'illusione è rappresentata dal fatto che l'offensiva sionista ha distrutto il quartier generale di Hamas e spazzato via Ahmed Jabari, il capo del movimento, grazie ad un operazione di omicidio mirato. Tutto questo, all'apparenza, mette una pietra sopra a tutto il movimento di resistenza. L'angosciosa realtà, invece, è rappresentata dal fatto che la Cupola di Ferro dei sionisti, che si voleva impossibile da oltrepassare, si è rivelata un mito; non è riuscita a fermare più dei due terzi dei razzi di Hamas. Cosaaltro rimarrebbe allo stato sionista se non un'offensiva di terra?
Persino questa opzione potrebbe rivelarsi illusoria, come si è rivelata illusoria nel corso delle operazioni sioniste contro Hezbollah in Libano nel 2006: in quell'occasione le elusive formazioni combattenti si rivelarono corrispondere a gruppi di vicini di casa. E' probabile che la realtà pura e semplice, di cui il Presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha fornito una anticipazione, sia che "se le truppe sioniste entrano a Gaza, corrono rischi molto più gravi di avere dei morti o dei feriti".
E' chiaro, inoltre, che la realtà politica potrebbe rivelarsi piuttosto scoraggiante perché lo stato sionista ha fatto una cosa che non aveva mai fatto prima nel corso di tutta la sua storia: si è seduto al tavolo dei negoziati cercando la pace prima che fossero trascorsi tre giorni dal lancio di un'offensiva militare.

Punteggio pieno
Il fatto paradossale è che si può anche ammettere che Netanyahu abbia fatto centro. Ha furbescamente assecondato le invocazioni alla Grande Israele che esistono presso la pubblica opinione scatenando un attacco contro Hamas, e può benisimo aver migliorato le prospettive del partito cui appartiene, il Likud, che nelle elezioni del prossimo gennaio è alleato con il partito ultranazionalista Yisrael Beitnu di Avigdor Lieberman.
La popolarità del Likud stava declinando ed il partito era minacciato dall'alleanza di opposizione tra il Kadima Shaul Mofaz, guidato dall'ex primo ministro Ehud Olmert, e lo Yair Labed, guidato dall'ex primo ministro Shaul Mofaz. Netanyahu ha pensato, giustamente, che la società dello stato sionista sia orientata a destra ed impregnata di militarismo, e che una dimostrazione di forza sotto la sua guida sarebbe stata la mossa giusta per deviare il vento politico dalle vele delle formazioni all'opposizione.
Netanyahu ora può andare dicendo che sotto la sua guida lo stato sionista ha "degradato" l'apparato bellico di Hamas e che esso costituisce ora una minaccia più debole. Può spingersi fino ad affermare che Hamas negli ultimi tempi si stava allargando troppo e che è stato lui a fargli vedere dove fermarsi.
Il giudizio di Netanyahu secondo il quale l'interruzione dei rapporti di Hamas con Damasco (e con Tehran) avvenuta nel corso dell'ultimo anno rappresentava una buona occasione per colpire non è priva di fondamento. I nuovi protettori di Hamas -il Qatar, la Turchia...- hanno fama di essere cani che abbaiano ma non mordono, al contrario dell'Iran e della Siria. Inoltre, la spaccatura sulla guerra civile in Siria ha messo una certa distanza tra Hamas e Hezbollah, cosa che torna a vantaggio dei sionisti.
L'Iran e la Siria hanno ovviamente ridotto il loro ruolo a quello di testimoni, mentre avrebbero potuto comportarsi come attori in grado di fare la differenza per quanto riguarda la capacità militare di Hamas. Con l'Iraq messo come ai tempi delle caverne e una Siria sprofondata in una guerra civile di cui non si vede la fine, lo stato sionista si ritrovava con l'Egitto come unico ostacolo ed aveva le mani relativamente libere a livello regionale. Il vantaggio più grande che lo stato sionista potesse trarre dal conflitto era rappresentato dal poter avviare rapporti costruttivi con il governo egiziano capeggiato da Mohammed Morsi, che viene dai Fratelli Musulmani.
L'invio al Cairo di due esperti negoziatori è segno evidente dell'interesse di Tel Aviv verso un coinvolgimento del governo di Morsi. Per Tel Aviv è stato molto più di una vittoria simbolica il fatto che Morsi sia stato costretto a pronunciare per la prima volta la parola "Israele" durante un discorso tenuto in pubblico al Cairo nel corso di una conferenza stampa svoltasi sabato scorso.
Non c'è dubbio sul fatto che Morsi sia stato rivestito del ruolo di mediatore, sia dagli Stati Uniti, sia dalla Lega Araba che dallo stato sionista, affinché si adoperasse per un cessate il fuoco. Dal punto di vista di Tel Aviv qualsiasi cessate il fuoco cui si sia giunti oggi [il 21 novembre 2012], sia pure sotto l'auspicio delle Nazioni Unite, porta implicita l'accettazione di Morsi; una sorta di apertura che i sionisti sono fermamente decisi a sviluppare e che possono sperare utile, con l'aiuto degli Stati Uniti, sia sul terreno sia a livello politico a fini pratici in un prossimo futuro. Naturalmente nessuno pensa si possa tornare ai tempi di Mubarak, ma come si suol dire, qualcosa è sempre meglio di niente.
Il presidente sionista Shimon Peres non ha ovviamente perso tempo nel cogliere l'occasione che si presentava per lodare gli sforzi del presidente egiziano affinché si giungesse alla fine delle ostilità, dicendo che "L'Egitto è un attore significativo in Medio Oriente". I sionisti stanno cercando di indebolire i legami dei Fratelli Musulmani con Hamas, che si stavano sempre più incisivamente riflettendo nella politica di Morsi riguardo a Gaza. La guerra a Gaza poi ha costretto gli egiziani ad affrontare il momento della verità: l'opinione pubblica in Egitto si trova in una sorta di terra di nessuno. Gli egiziani starebbero dalla parte dei palestinesi, ma non vogliono che la situazione peggiori fino a trascinare l'Egitto in una guerra con lo stato sionista. Gli egiziani sentono un'affinità culturale con gli abitanti di Gaza, ma temono anche che l'enclave palestinese ospiti un buon numero di combattenti capaci di impelagare l'Egitto in un'altra guerra con lo stato sionista. L'altro grande attore sulla scena regionale è la Turchia. I sionisti hanno costretto per vie traverse il primo ministro di orientamento islamico Recep Erdogan a vedere quali fossero le carte in tavola, ma in via ufficiale per quanto riguarda la questione di Gaza è il Cairo ad essere diventato il centro della diplomazia, non Ankara. L'esperto editorialista tuco Murat Yetkin ha scritto nel quotidiano filogovernativo Hurriyet che Ankara non apprezza il "ruolo secondario" che è chiamata a ricoprire, né apprezza di dover ammettere che l'Egitto ha un'influenza a livello regionale superiore a quella della Turchia. Sull'aria di delusione che si respira ad Ankara, scrive:
Il ruolo dell'egitto nella regione è dovuto alla rivoluzione di piazza Tahrir; il suo governo è più forte di prima... L'opposizione siriana, che pure ha preso le mosse dai campi profughi in Turchia, ha affermato che considera il Cairo come il proprio quartier generale. La Primavera Araba ha lavorato in favore dell'Egitto e tutto il paese sta ancora una volta rinascendo dalle proprie ceneri diventando un modello realistico per gli altri paesi arabi. Se Morsi riesce a salvare gaza dalla furia sionista, può diventare un altro Nasser, ed in più diventare un campione per il mondo arabo.
L'attacco sionista contro gaza ha cambiato l'orientamento della politica in Medio Oriente, un fatto a sua volta destinato a tradursi in una forzata revisione della linea politica turca. Lo stato sionista spera che Erdogan agisca con maggiore realismo per quanto riguarda i legami esistenti tra Turchia e stato sionista. Lo stato sionista si è detto certo del fatto che la rottura di questi legami non abbia fatto che danneggiare gli interessi turchi, perché è venuta meno la condivisione a livello di servizi d'informazione ed Ankara ha perso così la capacità che possedeva di agire da mediatore nei conflitti in Medio Oriente.
Su questo punto tuttavia i giudizi sono ancora aperti. Erdogan si comporta anche come un demagogo. La sua roboante retorica surclassa quella di Morsi: Erdogan ha definito "terrorista" lo stato sionista e si è spinto ad affermare che Tel Aviv sta dedicandosi alla "pulizia etnica". Pare che Erdogan preferisca cavalcare l'onda dell'opinione pubblica araba piuttosto che riannodare i legami tra Turchia e stato sionista.
Se osserviamo la cosa dal punto di vista della politica estera, pare che Netanyahu abbia raccolto una serie di successi apparenti. A dire il vero il bersaglio più grosso che ha colpito comprende anche Obama. Netanyahu ha costretto il presidente degli Stati Uniti ad esprimere solidarietà allo stato sionista, nel teatro mediorientale, nonostante lo scorso anno tra i due uomini di stato si fossero manifestati dei marcati disaccordi su una quantità di argomenti, senza contare il fatto che il leader sionista ha optato per una maldestra alleanza con Mitt Romney nei momenti critici delle ultime elezioni presidenziali, cosa che ha disturbato Obama.
Quando si parla di politica mediorientale anche le sensazioni sono importanti; ancora una volta i sionisti hanno dimostrato la propria sconfinata capacità di prendere in giro l'amministrazione statunitense.
Netanyahu è un attento osservatore degli orientamenti politici statunitensi, ed ha pensato di forzare la mano ad Obama considerata l'influenza che lo stato sionista ha sul congresso statunitense, sui mass media e sui think tank. Questo, nonostante i segni di disaccordo che sarebbero venuti fuori ogni volta che il presidente statunitense si sarebbe messo a lavorare per una decisa correzione di rotta nella fallace strategia statunitense per il Medio Oriente. Netanyahu non ha sbagliato le previsioni. L'operazione Colonna di Difesa ha qualcosa in comune con la sanguinosa operazione Piombo Fuso del dicembre 2008; entrambe sono venute dopo una vittoria elettorale di Obama.
Un altro risultato non privo di importanza è il fatto che con l'eccezione dei paesi arabi nessuno ha davvero espresso parole di condanna verso il "diritto alla dfesa" dello stato sionista. Attori influenti come la Russia, la Cina ed i paesi europei hanno assunto una posizione neutrale mentre invocavano "moderazione" per entrambe le parti in lotta. Russia e Cina si attendono grandi opportunità di fare affari nel mercato rappresentato dallo stato sionista e a Mosca si conta anche su una qualche simpatia da parte di Lieberman, che è un emigrato dall'ex Unione Sovietica.
Sicuramente Leviathan, il mastodontico giacimento di petrolio e gas naturale del Mediterraneo, ha catapultato lo stato sionista nel ruolo di invidiato partner energetico. Europei, russi e cinesi: Leviathan è diventato un'ossessione per tutti. Detto altrimenti, lo stato sionista non è più un cesto vuoto dall'economia traballante.

Contando gli alberi
Alla fine il conflitto a Gaza può aver attenuato la minaccia dell'Autorità Palestinese di costringere l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite a votare il 29 novembre in favore del riconoscimento di uno stato palestinese, cosa cui lo stato sionista si oppone con le unghie e con i denti. Ci sono crescenti segnali del fatto che Ramallah sarebbe in grado di ottenere il necessario consenso in tutto il mondo, ma probabilmente, dati i rapidi cambiamenti che il Medio Oriente sta attraversando sul terreno della sicurezza, ci saranno enormi pressioni su Mahmoud Abbas affinché non getti benzina sul fuoco
In ogni caso i guadagni dello stato sionista sul terreno politico, diplomatico e militare dovranno alla fine essere raffrontati alle perdite sui esso può essere andato incontro per aver scatenato una violenza tanto scriteriata e sproporzionata contro la sfortunata popolazione di Gaza. L'immagine dello stato sionista a livello mondiale ne ha risentito. Si può prevedere con buona approssimazione che alla fine le spese supereranno di gran lunga i guadagni, e che la storia è probabilmente destinata a ripetersi, con lo stato sionista che si abbandona alla furia e alla disperazione non appena deve affrontare le realtà di volta in volta emergenti, senza risolvere niente e persino complicando la situazione per il futuro. Lo stato sionista può sicuramente aver provocato un deterioramento delle potenzialità di Hamas, in termini meramente militari. Ma anche nel migliore dei casi non può trattarsi di qualcosa di più che un fatto momentaneo; per Hamas ricostituire il proprio arsenale non è che una questione di tempo.
La realtà dei fatti è che i razzi di Hamas continuano a piovere sullo stato sionista e che i servizi sionisti non sanno da dove arrivino. E' lo stato sionista oggi a cercare la pace, non Hamas. Inoltre, i missili più letali sono di progettazione iraniana. Hamas deve capire che il continuo sostegno iraniano è preziosissimo, se intende raggiungere i livelli di Hezbollah o costringere i sionisti ad uno stallo strategico. Detto brevemente, i sionisti possono aver spinto di nuovo Hamas in braccio all'Iran; una cosa che essi stessi dovrebbero considerare una iattura.
Hamas ha ottenuto estesi vantaggi anche in termini politici e diplomatici. Il blocco sionista di gaza non è più sostenibile. L'andirivieni di ministri stranieri dei paesi confinanti verso Gaza nella giornata di martedi è rivelatore. Hamas ha definitivamente affossato la strategia sionista finalizzata al contenimento della sua influenza. Ironicamente, è persino possibile che lo stesso stato sionista abbia iniziato a "trattare" con Hamas senza rendersene bene conto; lo si noterà dagli sviluppi che nei prossimi giorni mostreranno gli sforzi della diplomazia tesi a porre fine allo scontro in atto. Lo stato sionista dovrebbe capire che il panorama politico della regione è cambiato radicalmente a favore di Hamas dal fatto che Khaled Meshal ha tenuto una conferenza stampa in diretta proprio al Cairo, nello stesso momento in cui i jet sionisti stavano colpendo Gaza. Per lo stato sionista la Primavera Araba ha portato un amaro raccolto; l'ascesa dell'Islam nella regione, sotto le insegne dei Fratelli Musulmani, sta lavorando a favore di Hamas.
Nel suo agire, lo stato sionista può aver scombinato gli equilibri di potere all'interno dello schieramento palestinese, favorendo Hamas e la Jihad Islamica in contrapposizione a Fatah in quanto autentiche voci della resistenza. Le posizioni dell'Iran pare siano state confermate, perché i paesi alleati sottobanco coi sionisti come la Giordania, o le oligarchie del Golfo Persico, si trovano ora costrette alla difensiva.
La lotta per provocare con la forza un "regime change" in Siria si fa ancora più complicata man mano che la resistenza stabilisce una propria lista delle priorità. Le mosse concitate che la Gran Bretagna e l'Unione Europea hanno compiuto questa settimana in mezzo al marasma mediorientale per accordare riconoscimento diplomatico all'opposizione siriana tradiscono il nervosismo che permea l'argomento.
Il fatto è che fino a quando la questione palestinese rimane al centro della scena, l'Occidente subirà forti pressioni affinché metta un po' di raziocinio nelle disordinate priorità con cui sta affrontando il problema del rovesciamento dell'assetto governativo siriano, mentre allo stesso tempo non fa assolutamente niente sulla questione fondamentale del conflitto arabo-sionista. E' possibile che lo stato sionista abbia reso un pessimo servigio agli Stati Uniti, al Regno Unito, alla Francia e ai loro alleati regionali, riportando l'attenzione sulla mai risolta questione palestinese.
Allo stesso modo, mentre è possibile che l'Egitto riesca a contrattare un cessate il fuoco per il conflitto in corso, non è certo possible aspettarsi che esso aiuti lo stato sionista a rafforzare il blocco di Gaza chiudendo il valico di Rafah o tornando alla collaborazione in materia di intelligence che caratterizzava l'epoca di Mubarak.
Questo significa che Morsi può semplicemente aver cercato di affrontare le concomitanti pressioni rivolte a lui per l'urgenza dell'ora, ma che nei fatti il suo orientamento strategico a fonte della questione palestinese e sulle relazioni tra Egitto e stato sionista rimarrà quello di sempre. Morsi ha già dimostrato di essere un maestro di tattica, e ci si può aspettare che tenga i sionisti nel dubbio su quello che ha intenzione di fare. La prova del fuoco sarà il Sinai, che è letteralmente una polveriera. Non esistono ricette a portata di mano per ricondurre un Sinai senza legge ed i militanti che si vanno riorganizzando laddove i servizi di sicurezza egiziani non esercitano onestamente alcun controllo sotto l'autorità del governo centrale. Lo stato sionista è atteso al varco da scelte difficili; aver aggredito Gaza può aver complicato ulteriormente le cose. Il punto debole fondamentale nella strategia di Netanyahu è che il Medio Oriente, oggi, è completamente cambiato. Come ha affermato Nic Robertson della CNN,
Hamas adesso ha un ruolo del tutto nuovo. E' ancora intrappolata negli affollati confini della énclave di Gaza dove ha vinto le elezioni sei anni fa, solo che adesso all'esterno ha più amici. Questo cambiamento è arrivato con la Primavera Araba, che ha spazzato via alcuni degli antichi alleati regionali dello stato sionista sostituendoli con leader molto più favorevoli a Hamas... L'Egitto è tutt'altro che da solo in questa rivoluzione regionale che sta iniziando ad isolare lo stato sionista... Dunque, in che situazione si trova lo stato sionista? E' più forte militarmente, ma è più debole politicamente di quanto non lo fosse nel 2009. Oggi la retorica egiziana si ferma ad un passo dall'abrogare il trattato di pace con i sionisti, ma ha assunto toni molto favorevoli a Hamas. Il mondo arabo ha da molto tempo un denominatore comune rappresentato dall'avversione per il trattamento che lo stato sionista riserva ai palestinesi. In passato molti dei leader arabi sono stati dei dittatori in grado di seguire delle linee di condotta molto diverse da quelle condivise dalla piazza, ma questo non è più vero. Nel Medio Oriente del dopo Primavera, i leader democraticamente eletti sono anche consapevoli del fatto che i fautori dell'intransigenza stanno aspettando il loro momento.
Pare che Obama comprenda le implicazioni del problema che ha davanti e che abbia presente anche la necessità ineludibile di rifondare da zero le basi del rapporto degli Stati Uniti con il mondo musulmano. Mercoledi scorso, durante la sua prima conferenza stampa dopo la vittoria elettorale, ha fornito buoni indizi del modo in cui Obama sta pensando di orientare la politica statunitense nei confronti di problemi come la Siria e l'Iran.
E' sufficiente dire che Obama può anche esser rimasto sulle sue quando Netanyahu lo ha punzecchiato sul precipitare della crisi a Gaza, ma che questo non significa che non abbia pensato ad una precisa linea di condotta. Obama anzi dovrà, assai prima di quanto Netanyahu immagini, agire in modo da mettere fine all'impasse che sta seriamente danneggiando gli interessi nel lungo periodo che gli Stati Uniti hanno in Medio Oriente.
Il nocciolo della questione è che la strategia statunitense per il Medio Oriente sta conoscendo un periodo di profonda crisi; fino al momento in cui certe radicate contraddizioni non verranno risolte -sempre che questo sia possibile- gli Stati Uniti non potranno abbandonare la scena o impegnare proprie risorse per "ricollocare" la propria posizione in Asia, laddove si sta profilando una sfida storica per il destino degli Stati Uniti intesi come superpotenza.
Certe volte, nell'ansia di vincere una battaglia, sfugge all'attenzione il fatto che è perduta la guerra. Questo può ben essere il caso. Netanyahu può aver vinto la battaglia del costringere Obama a sostenerlo, ma non è lontano il momento in cui dovrà capire che dopotutto non si è trattato di una vittoria.

L'ambasciatore M. K. Bhadrakumar è stato diplomatico di carriera in India. Ha svolto incarichi in Unione Sovietica, in Corea del Sud, nello Sri Lanka, in Germany, Afghanistan, Pakistan, Uzbekistan, Kuwait e Turchia.

domenica 25 novembre 2012

Al commentatore Faustpatrone sul caso Sakineh e sui boiscàut dei diritti umani


Il 24 novembre 2012 il commentatore Faustpatrone richiama il nostro interesse su una certa questione, riferendoci quanto segue.
carissimo dovresti esserci. sono a viareggio a una conferenza organizzata da ambienti vicini a forza italia e la destra alemanniana travestito pare da incontro di associazione culturale sulla violenza sulle donne. dovresti esserci. dicono che sakineh sia stata lapidata. ma non risulta in termini ufficiali. o sbaglio.
Di qui la nostra risposta.
In questa sede ci si è fatti un piacere di ironizzare ferocemente su questo tema.
Il bias denigratorio che influenza in modo sistematico ogni notizia che riguardi la Repubblica Islamica dell'Iran e la sua rivoluzione vittoriosa esercita un'azione distorsiva talmente costante su qualsiasi notizia faccia riferimento ad essa da far sì che un approccio obiettivo e realista nei confronti di quella realtà non possa dirsi tale se presta fede al mainstream.
Nel caso specifico un paio di anni fa i boiscàut dei diritti umani hanno statuito che questa Sakineh -di cui si è perorata la causa diffondendone foto di venti e più anni prima: in "occidente" nessuno si intenerisce per vittime poco fotogeniche- era di imminente e miseranda fine a mezzo pubblica lapidazione per il reato di "adulterio".
La farsa è arrivata al punto che se ne è inscenata l'esecuzione in piazza con puntigliosa dovizia di dettagli, a mezzo di modelle compiacenti. E' probabile che la diffusione sul mainstream di simili "manifestazioni" sia stata molto limitata dal fatto che le figuranti intervenute hanno sempre posato compostamente vestite; una cosa che i mass media non perdonano facilmente.
La campagna mediatica è andata avanti per mesi e mesi senza arrendersi neppure davanti all'evidenza, e coloro che vi hanno preso parte non hanno neppure controllato sulla letteratura disponibile quanto ci fosse di vero nelle affermazioni che difendevano, il che la dice lunga sulla preparazione, sulla competenza e -perché no- sulla buona fede di chi fa proprie certe battaglie.
Sono occorsi un paio d'anni perché il caso di Sakineh Mohammadi Asthiani venisse inquadrato in modo più obiettivo e di conseguenza fatto sparire con discrezione da gazzette e televisioncine. Nella Repubblica Islamica dell'Iran le non richieste attenzioni internazionali in materia sono state accolte dapprima con sorpresa e poi con crescente fastidio. Non si tratta soltanto della comprensibile reazione che i rappresentanti di uno stato sovrano hanno nei confronti delle intromissioni altrui; nella Repubblica Islamica dell'Iran la pena di morte per lapidazione è lettera morta da molti anni e la cosa era nota anche ai non esperti di diritto islamico da ben prima che il caso di Sakineh venisse utilizzato per auspicare la redenzione del popolo iraniano a mezzo bombardamento preventivo.
La costituzione della Repubblica Islamica dell'Iran stabilisce che la competenza e la specchiata moralità siano un requisito imprescindibile -a differenza dell'aspetto fotogenico e della disponibilità sessuale- per rivestire qualsiasi incarico di responsabilità. Questo significa che a Tehran deve aver destato più ribrezzo che scompiglio il constatare che l'"occidente" è genericamente propenso ad affidare incarichi giurisprudenziali e legislativi ad organizzazioni ed individui incapaci persino di consultare letteratura scientifica sui temi di propria competenza.
Molto obettivamente e molto giustamente, intanto che in Inghilterra le lapidazioni extragiudiziali non necessitavano di alcuna sentenza penale -e casi anche più efferati sono stati riscontrati anche nell'Iraq e nell'Afghanistan da tanto tempo redenti e democratizzati- i portavoce della Repubblica Islamica dell'Iran si limitavano a fornire descrizioni molto posate e molto realistiche di certi campioni dei "diritti umani" che costituiscono i migliori rappresentanti che i sudditi "occidentali" abbiano mai avuto.

venerdì 23 novembre 2012

24 novembre 2012; a Firenze una festa no-scav in Piazza Tasso


Si copia ed incolla dal blog di Miguel Martinez la comunicazione di una di quelle iniziative contro il progresso e per la civiltà per le quali Firenze è giustamente famosa. Il nome dello stato che occupa la penisola italiana ricorre nel testo originale; ce ne scusiamo con i nostri lettori, specie con quanti avessero appena finito di pranzare.

Questo sabato [il 24 novembre 2012], in Piazza Tasso nell’Oltrarno, faremo la prima Festa NoScav, per preparare i drappi da appendere dalle finestre: No al parcheggio interrato di Piazza del Carmine.
La cosa funziona così.
C’è una signora che gira sistematicamente il quartiere raccogliendo firme contro il parcheggio – dovrebbe essere più o meno a quota mille, ormai.
Le viene in mente un disegno e lo slogan “NoScav”, visto che vogliono scavare tre piani sotto terra nel melmoso terreno davanti alla Basilica di Santa Maria del Carmine.
Ma lei non sa disegnare bene, e così mi passa la bozza, perché almeno io ci capisco di computer.
Contatto una signora che so che è una brava grafica, e lei produce un logo, dove il profilo della chiesa si riflette nella grande buca.
Due madri casalinghe – la moglie del bronzista e la moglie del falegname – si offrono per preparare i rinfreschi, un padre napoletano si offre per fare animazione con i bambini, un idraulico pugliese aiuta a trovare i colori, e a suonare il violino ci dovrebbero essere una bambina moldava, una italo/americana e una italo/messicana.
La proprietaria di una piccola ditta porta invece un gran rotolo di stoffa bianca che ha trovato a poco prezzo per fare i drappi.
Io distribuisco i volantini davanti a una scuola elementare e una scuola dell’infanzia, perché deve essere una cosa di tutto il quartiere. E tante famiglie dicono che verranno – c’è anche una bambina che dice, “mamma, sabato posso protestare anch’io?” E discutiamo con la famiglia di artisti che abita nella piazza sul modo migliore per esporre il loro striscione.
Poi, mentre si sfoga con me il kebabbaro pakistano, che probabilmente dovrà chiudere quando i camion inizieranno a sfilare davanti alla sua bottega, mi saluta un pensionato che sta partendo per raccogliere le firme contro il parcheggio e poi uno che ha lavorato tutta la vita negli asili nido, che sta andando in giro a portare altri volantini.
Tutto questo è possibile, perché è così ovvio ciò che sta succedendo.
L’ultimo scampolo di vita vera di Firenze, con i suoi anziani, i suoi piccoli commercianti e i suoi immigrati, sta per essere colonizzato, e si riesce anche a seguire il percorso, quando tante persone tengono gli occhi aperti.
A Piazza Brunelleschi, che non è nell’Oltrarno, sorgerà un parcheggio gemello, in grado di attirare nuovi flussi di traffico nelle strette viuzze storiche.  E proprio lì, chi lavora in ambiente accademico ci avverte che hanno sfrattato da poco alcuni uffici dell’Università, per farci un grande albergo.
Alla periferia del nostro quartiere, invece, c’è il Gasometro di Via Anconella, un affascinante oggetto di archeologia industriale. Il Comune ha deciso che dovrà diventare un Centro Benessere/ristorante, ovviamente in mani private. Lo studio di fattibilità del progetto reca l’intestazione, “Per una Firenze più coraggiosa, più semplice, più bella“, e già questo dovrebbe indisporre qualunque persona sana di mente.
Lo studio parla di attirare in zona il “bacino di utenza rinvenibile all’interno della popolazione non residente nel Comune di Firenze” e turisti momentaneamente presenti nel territorio del Comune di Firenze o in quelli limitrofi”. 
Il primo bando per trasformare il Gasometro in un parco gioco per adulti che non sanno dove sbattere il SUV è andato deserto, e il senso non sfugge a chi come me fa da interprete da una vita per imprenditori: i tre o quattro potenziali candidati hanno deciso insieme di aspettare il prossimo bando, per far scendere il prezzo.
Ora, nello stesso studio di fattibilità, si spiega perfettamente il motivo per cui bisogna conquistare l’Oltrarno, ancora “sfruttabile” a differenza delle zone “sature“:
“Un’analisi geografica della distribuzione delle attività di ristorazione (rappresentati nella figura dai pallini rossi) permette di rilevare che la concentrazione delle attività la si ha soprattutto nel centro storico del Comune di Firenze mentre la zona di mercato interessata dal progetto di recupero dell’ex-gasometro, nella quale l’attività di ristorazione dovrà essere localizzata, risulta essere meno satura e quindi più sfruttabile sia nei confronti dei soggetti residenti nella medesima zona che di quelli residenti nei comuni limitrofi per iquali raggiungere il centro storico potrebbe risultare maggiormente scomodo”.
E pensate che solo da un lato del Gasometro – quello meno commerciale – ci sono già ventisette tra ristoranti, bar, rosticcerie, pizzerie e birrerie.
Cento metri più in qua, in Piazza dei Nerli, c’è tutto un palazzone che è stato comprato dal più ricco albergatore di Firenze.
Solo che davanti c’è un mercatino, che verrà opportunamente spostato in Via Aleardi, attualmente percorsa dalle automobili. Ma la soluzione magica è sempre pronta: anche in Via Aleardi, pare, faranno un parcheggio sotterraneo, e il mercatino lo piazzeranno sopra.
Tutto questo dispositivo sarà servito riducendo la zona a traffico limitato e costruendo appunto il parcheggio di Piazza del Carmine.
Due piccioni con una fava, perché si vetrinifica anche questo pezzo di Firenze e si rende impossibile la vita ai residenti, come nei palazzi vuoti dell’altra riva dell’Arno, in terra di “pub crawling“: cercate in rete e troverete che ci sono apposite agenzie che prendono giovanissimi statunitensi, sovreccitati per avere scoperto l’alcol libero, e li portano di locale in locale a bere finché non svengono per strada in mezzo al proprio vomito.
Anzi, con l’operazione, ne prendono tre di piccioni. Perché dietro il parcheggio c’è Marco Carrai, che come abbiamo visto è anche il finanziatore del sindaco Matteo Renzi, attualmente in giro per l’Italia a dire che lui sì cambierà tutto.
La ciliegina sulla torta: dicono che Piazza Tasso, un fantastico biosistema di cento etnie che convivono felicemente, stia per essere sottoposta a una gara internazionale per architetti creativi. Che saranno concordi sicuramente nel sostituire il campetto di calcio (quello che vede partite di studenti americani contro marocchini) con i parti mostruosi delle loro fantasie.
Ma questa ossessione con lo sviluppo spettacolare rientra in un quadro ancora più vasto, che viene spiegato piuttosto bene dal giornalista economico del Sole 24 Ore, Augusto Grandi, parlando della politica di Mario Monti:
“Il modello è quello di un’Europa del sud trasformata in una sorta di Bangladesh per l’Europa del nord. Bassi salari, fuga dei cervelli e importazione di braccia per lavori non qualificati. Ma un Bangladesh anche a vocazione turistica. Il paradiso dove verranno a svernare ricchi cinesi e tedeschi, russi e americani. Perché l’Italia? Perché la Grecia è troppo piccola e debole per sperimentare un modello. L’Italia è la terza economia europea, la seconda manifatturiera. Dunque la sperimentazione ha davvero senso.”
In circostanze come queste, in cui la sopravvivenza entra in ballo, nasce una meravigliosa chiarezza.
Il tremendo dispositivo unitario del potere politico (di destra o di sinistra poco importa), del turismo di massa, della mercificazione, dello spettaccolo/immagine, del traffico automobilistico, dell’inquinamento è evidente, come è evidente ciò che significa per le famiglie, per gli anziani che non vogliono andarsene, per gli immigrati che tornano stanchi dal lavoro.
E per tutti coloro che temono che saranno costretti a ricominciare la vita in un altro quartiere, solo per far guadagnare un altro po’ di soldi a un albergatore, ad Armani o a un venditore di superalcolici per adolescenti californiani.
La parola dispositivo ce l’ho messa io, perché oltre a capirci di computer, parlo pure complicato.
Ma per il resto, sono i ragionamenti che sento fare da tanti in questi giorni.

mercoledì 21 novembre 2012

Atene e Roma. Per il mainstream fiorentino un'ecumene perfetta


La screenshot presenta il sito di Controradio (un'emittente radiofonica fiorentina) così come si presentava il 21 novembre 2012.
Tra le altre cose vi si trova un'immagine così intitolata: Foto del giorno: No austerity - Scontri a Roma. La foto del giorno mostra un reparto della gendarmeria antisommossa alle prese con alcuni manifestanti. A Roma. Ora, i manifestanti ritratti portano cartelli con scritte in greco. La gendarmeria -o meglio, la Αστυνομία- ha scritte in greco sugli scudi.
L'ecumene vagheggiata per secoli è finalmente compiuta: non resta che attendere la definitiva composizione dello scisma del 1054.
Chissà chi si deve ringraziare.

domenica 18 novembre 2012

Pepe Escobar - Bombardare l'Iran? No. Bombardare Gaza? Si!


Traduzione da Asia Times.

Ci sono un sacco di guerre da scatenare, e così poco tempo per farlo. Quando sei il capo politico del paese più militarizzato del mondo, e proprio questo è il caso del primo ministro dello stato sionista Benjamin Netanyahu detto Bibi, devi pur trovare la maniera di usarli, tutti quei giocattoli che ti ritrovi.
Ti prudono letteralmente le mani dalla voglia, ma attaccare l'Iran non puoi perché ti mancano i necessari ordigni anti bunker e perché i caccia non hanno autonomia sufficiente. E soprattutto il presidente degli Stati Uniti Barack Obama, appena rieletto, ti ha fatto capire con molta chiarezza che è con la diplomazia che si deve andare avanti, non con le bombe.
Questo potrebbe indicare che Obama sta per lo meno provando a considerare l'idea di un accordo: "Ci deve essere un modo per far sì che loro (l'Iran) possano avvalersi dell'energia nucleare a scopi pacifici al tempo stesso assolvendo i loro obblighi a livello internazionale e fornendo sicure garanzie sul fatto che non stanno lavorando ad un ordigno nucleare". Questo principio ha portato il presidente ad esprimere l'intenzione di "esercitare pressioni nei prossimi mesi per cercare di aprire una linea di dialogo" attraverso il muro di diffidenza che divide gli Stati Uniti dall'Iran.
In queste condizioni, cosa può combinare Bibi? Semplice: può dare l'avvio all'Operazione Colonna di Nubi (poi chiamata Colonna di Difesa: si legga questo bellissimo scritto su certe "divine" ramificazioni) contro l'unico posto al mondo che le Forze di Difesa dello stato sionista (l'IDF) possano trasformare in un inferno e ridurre a una rovina nella totale impunità e a prezzo di "perdite collaterali" trascurabili: la popolazione del carcere a cielo aperto di Gaza, assediata, intrappolata in un embargo illegale e colpita da una condanna a morte collettiva.
Sicuramente non troverete spiegazioni come questa se leggete le gazzette di Murdoch o se guardate la CNN; e non vi troverete neppure una spiegazione dettagliata della catena di eventi che ha portato a quella che potrebbe diventare un'altra guerra.
La miglior ricostruzione temporale al momento reperibile è questa. Domenica 11 novembre si è verificato un avvenimento cruciale. Il portavoce del ministero della sanità di Gaza Ashraf al Qidra ha annunciato che un ragazzino di tredici anni, Hamid Abu Daqqa, era stato colpito allo stomaco mentre giocava a pallone con i suoi amici fuori dalla sua casa nel sud est della striscia di Gaza. Un calcioterrorista che rappresentava un'evidente minaccia per la miriade di elicotteri sionisti che gli svolazzava sulla testa.
Dare il via ad una guerra per l'IDF è un gioco. Tel Aviv ha soltanto dovuto uccidere qualche civile palestinese come il pericoloso calcioterrorista di cui sopra, e inviare nella zona qualche carro armato in più. Le fazioni armate di Gaza hanno dovuto rispondere al fuoco ed hanno preso di mira i soldati sionisti, non i civili. Proprio quello di cui Tel Aviv aveva bisogno per andare in bestia.
Il giorno seguente Hamas e gli altri gruppi palestinesi a Gaza hanno offerto una tregua ai sionisti senza alcun risultato. Mercoledi il capo del braccio armato di Hamas Ahmed al Jabari è rimasto vittima di un assassinio mirato (sentite un po' il generale David Petraeus e i suoi amichetti della CIA, che sono degli specialisti in questo genere di cose) 
Non c'è bisogno di leggere Haaretz per sapere che al Jabari è stato il miglior lavoratore in subappalto per i sionisti a Gaza, incaricato di tutelare la sicurezza dello stato sionista, per tutti gli ultimi cinque anni e mezzo. In cambio dei suoi servigi lo stato sionista buttava qualche siclo ogni tanto nelle banche di Gaza, usando camion antiproiettile.
E allora, perché ammazzare al Jabari? Semplice: a gennaio nello stato sionista ci sono le elezioni. Ed ecco che la campagna politica di Bibi si dispiega al massimo della potenza. Il motto della campagna è "ammazziamo i palestinesi". Offrendo un brivido simile si soverchia ogni altra voce politica nello stato sionista che mostri un dissenso anche minimo.


Fatemi cambiare bersaglio
Riguardo all'Iran, l'ex analista della CIA Paul Pillar e poi anche John Glaser su antiwar.com avevano visto giusto. Bibi negli Stati Uniti ha scommesso sul cavallo sbagliato, il suo patetico e sconfitto Mitt Romney, detto "raccoglitori pieni di donne".
In aggiunta a tutto questo, i rapporti tra Obama e Bibi sono gelidi come una vacanza nell'Artico almeno dal 2010, quando Obama chiese che si interrompesse la costruzione di insediamenti nella West Bank e Bibi gli rispose provocando l'Iran affinché attaccasse lo stato sionista, sperando di trascinare gli Stati Uniti in una nuova guerra.
Ora, è ovvio che Bibi si è accorto che Obama sta prendendo in considerazione l'idea di giungere ad un accordo con l'Iran. Così ha preso due piccioni con una fava: i piccioni sono gli arabi e i persiani, la fava -o le fave- sono gli omicidi mirati; ha cambiato bersaglio, passando da quell'Iran che viene definito "minaccia all'esistenza" dello stato sionista alla "terrorista" Hamas, sapendo perfettamente che fino a quando lo stato sionista uccide palestinesi mentre Washington sta guardando altrove (il teatro asiatico e del Pacifico?) i politici di Tehran non accetteranno o non si fideranno di alcun negoziato significativo.
Ecco quello che Bibi sta dicendo ad Obama: "Vuoi trattare con quei mullah svitati? Dovrai passare sul mio cadavere, tamarro!". E soprattutto, ha gioco facile con l'opinione pubblica occidentale, il cui completo lavaggio del cervello è assicurato dai mass media; ancora una volta quei perfidi terroristi palestinesi stanno puntualmente terrorizzando i poveri sionistini innocenti. Il ruolo della ciliegina su questa torta avvelenata se l'è preso quel portavoce dell'IDF che ha dichiarato che la striscia di Gaza controllata da Hamas è "una base avanzata iraniana".
Puntualissima, poche ore dopo che la tregua o il cessate il fuoco erano completamente falliti, l'amministrazione Obama intenta a prendere forma per il secondo mandato ha affermato che lo stato sionista ha "il diritto" di colpire ogni cosa ed ovunque in nome della propria "autodifesa". E che Hamas non osi controbattere.
E' probabile che sia imminente un invasione terrestre. Ma Bibi, ancora una volta, può essersi trovato ad addentare più gefillte fish di quanto possa davvero masticarne. Non ci si  attenda alcun gesto di condanna dal Club Controrivoluzionario del Golfo, un tempo noto come Consiglio di Cooperazione del Golfo, e dalle sue vigliacche petromonarchie. E non ci si attenda alcun gesto di condanna da tutti quegli "Amici della Siria" occidentali tanto offesi perché il governo Assad uccide "il proprio stesso popolo".
Eppure almeno l'Egitto, dove c'è il presidente Morsi che viene dai Fratelli Musulmani, dovrà fare... qualche cosa; saranno le piazze egiziane a predenderlo, visto che vogliono che si faccia carta straccia degli accordi di Camp David. Soprattutto, proprio il Cairo ha interrrotto la tregua tra Tel Aviv e Hamas che adesso lo stato sionista ha finito di sabotare. Inoltre, Hamas gode del sostegno della Turchia e di quello fondamentale dell'Emiro del Qatar e dei suoi petromiliardi. Rimarranno zitti ad osservare il massacro? Per quanto riguarda re Playstation di Giordania, non può certo assumere un ruolo conciliante verso lo stato sionista perché potrebbe ritrovarsi a prenotare un volo di sola andata per Londra più presto di quanto pensi. Se Obama avesse le palle, gli starebbero fumando. E batterebbe per terra Bibi. Ma non c'è da puntarci un centesimo. Sappiamo che non lo farà.

Pepe Escobar è autore di Globalistan: How the Globalized World is Dissolving into Liquid War (Nimble Books, 2007) e di Red Zone Blues: a snapshot of Baghdad during the surge. Il suo libro più recente è Obama does Globalistan (Nimble Books, 2009). Il suo indirizzo è pepeasia@yahoo.com

sabato 10 novembre 2012

Mike Whitney: Afghanistan, aria di sconfitta


Impossibile tenere il paese.
Dopo anni di perdite sanguinose le truppe statunitensi -pardon, le truppe sovietiche- abbandonano l'Afghanistan.

Nel novembre 2005 le elezioni presidenziali in AmeriKKKa assegnarono un secondo mandato a George Diabolus Bush, la cui amministrazione aveva all'epoca già aggredito ed occupato due paesi sovrani e si apprestava a mettere in atto gli stessi comportamenti nei confronti di un'altra mezza dozzina di realtà geopolitiche invise.
I mass media "occidentalisti" rispettarono le consegne e i sudditi dello stato che occupa la penisola italiana furono sottoposti per qualche giorno ad un fuoco di fila di riprese video e immagini digitali in cui un aggregato di cialtroni venuti su a fast food, di pluriripetenti, di buoni a nulla ben vestiti, di obesi in cravatta e di altri generi e specie di umanità cialtrona, ingorda, inconsapevole e viziata sbraitavano "Four more years! Four more years!".
Si trattava di scene di giubilo ampiamente giustificate, essendo l'elettorato amriki composto da gente che nella maggioranza dei casi era -ed è- così entomologicamente consapevole di sé da risultare incapace di trovare su una carta geografica i paesi che il costosissimo apparato bellico statunitense stava angariando da anni.
Nello stato che occupa la penisola italiana la cosa fu accolta con soddisfazione da vari yankee di complemento, cui si voleva conferisse credibilità il dominio completo del mainstream.
Nel 2009 i risultati dei four more years erano stati tali da far classificare la presidenza Bush come la peggiore in assoluto in tutta la storia della federazione e da far cambiare apparentemente di segno persino le scelte dell'elettorato, cosa che date le condizioni di base non era affatto da dare per scontata.
Il ripetersi della stessa scelta nel novembre del 2012 non è stato accolto da alcuna campagna mediatica all'insegna del giubilo, e non soltanto perché è stato riconfermato un individuo sgradito all'occidentalame.
La politica massmediale "occidentalista" mena vanto solo di quanto va nella direzione del cupio dissolvi, della disgregazione, della dissoluzione e del Male metafisico e non può certo associarsi al plauso di quanti hanno sostenuto una visione politica e sociale che, pur non discostandosi quasi per nulla da quella che essa veicola, è incarnata da individui che la propaganda "occidentalista" ha il remunerativo compito di denigrare ripetendo ecoicamente le istanze più ebefreniche prodotte dagli ambienti politici yankee di riferimento.
Questa ripetizione ecoica ha portato a risultati ai limiti del riferibile, come la tentata promozione di un tea party c'a' pummarola 'n coppa, raggiunti mentre chi si ostinava a conservare un barlume di razionalità veniva additato ora come pacifinto, ora come saddamita.
Intanto che la propaganda continuava a produrre e diffondere video ed immagini, il Nemico lavorava.
Non nell'ombra, ma alla luce del sole. E con ottimi risultati.
Il Nemico, i lettori lo sanno, si chiama realtà.
Ed è motivo di una certa soddisfazione per chi fa orgogliosamente e consapevolmente parte del buco nero dell'Occidente e della Prima Internazionale dell'Odio pensare di averla sempre più spesso dalla propria parte.


Afghanistan: aria di sconfitta
(di Mike Whitney)

Traduzione da Counterpunch


"Queste due visioni del mondo, una fatta di tirannia e di morte, l'altra di libertà e di vita, si sono scontrate in Afghanistan. E grazie ai coraggiosi soldati degli Stati Uniti e della coalizione internazionale, grazie ai patrioti afghani, l'incubo dei talebani è finito e quel paese sta tornando alla vita".

George Diabolus Bush, discorso tenuto al Accademia Militare dell'esercito, 2004.

Calma, George.
Gli Stati Uniti non hanno liberato l’Afghanistan.
Non hanno ricostruito l’Afghanistan.
Non hanno rovesciato i signori della guerra, non hanno fatto diminuire la produzione di oppio, non hanno fondato istituzioni democratiche forti, e neppure reso migliore l'esistenza della gente comune che lavora. Gli Stati Uniti non hanno raggiunto nessuno dei loro obiettivi strategici. I talebani sono più forti che mai, il governo centrale è una corrotta corte dei miracoli e, dopo undici anni di guerra, il paese è in rovina.
Tutto questo somiglia ad una sconfitta. L'esercito degli Stati Uniti è stato sconfitto da una milizia male armata che ha dimostrato di saper padroneggiare meglio la guerra moderna e gli scontri di tipo asimmetrico. I talebani hanno fatto vedere di essere più versatili, più motivati, più furbi. Ecco perché hanno vinto. Ecco perché hanno battuto l'esercito più celebrato del mondo.
Questi sono discorsi che agli americani non piace sentire. Sono molto orgogliosi del loro esercito e sono disposti a pagare fino a un trilione di dollari l’anno per tenerlo equipaggiato con gli armamenti più avanzati del mondo. Ma le armi non vincono le guerre, né le vince la propaganda. Se così fosse, gli Stati Uniti avrebbero vinto da un pezzo, ma così non è. Le guerre si vincono con la tattica, con le operazioni sul campo, con la strategia. Ecco su cosa ci si deve concentrare se si vuole avere successo. Ecco una citazione da un articolo di William S. Lind che spiega come mai la missione statunitense in Afghanistan ha fallito:

Una regola generale nelle cose della guerra è che un livello superiore trionfa su un livello inferiore, e la mera tecnica ricopre il livello più basso. I nostri SEALs, i Rangers, la Delta Force, le forze speciali e tutto il resto sono nettamente superiori ai talebani o ad Al Qaeda nel campo della tecnica. Ma questi avversari si sono a volte dimostrati abili nella tattica, nelle operazioni sul campo e nella strategia, e noi possiamo batterli solo se li superiamo su questi livelli, che nelle cose della guerra occupano una posizione più alta. Purtroppo è proprio in questi campi che le Forze Speciali non hanno nulla da offrire. Sono soltanto un proiettile di piombo in più, in un obsoleto arsenale di seconda generazione. ("What’s so special about Special Ops?", William S. Lind, The American Conservative)
Tutte le diavolerie ad alto contenuto tecnologico e i droni autoguidati dell’esercito statunitense si limitano a nascondere il fatto che l’America sta ancora combattendo la guerra che precedeva questa, e non si è adattata al nuovo stato di cose. Ecco un altro commento di Lind che viene a confermare questo concetto:

La più grande sfida intellettuale, nel caso delle guerre di quarta generazione –guerre contro nemici che non sono degli stati sovrani- è quella di come combatterle sul campo. La NATO in Afghanistan, come i sovietici tre decenni fa, non è riuscita a venire a capo del problema. I talebani, invece, sembra che ci siano riusciti...
L’esercito sovietico concentrò le sue risorse migliori nelle operazioni sul campo. Ma in Afghanistan fallì, come abbiamo fallito noi. Come i sovietici, noi possiamo conquistare e tenere qualsiasi posizione sul terreno in Afghanistan. Ma il farlo, così come successe ai sovietici, non ci porta neanche un passo più vicino alla vittoria strategica. I talebani, al contrario, hanno trovato un modo elegante per mettere insieme strategia e tattica mettendosi a combattere una moderna guerra decentralizzata.
La NATO chiama strategia un qualche cosa che consiste nell'addestrare abbastanza militari afghani per tenere a bada i talebani dopo il ritiro delle proprie forze. I talebani hanno reagito piazzando loro uomini in uniforme afghana, molti dei quali sono davero soldati o poliziotti governativi, che puntano le armi verso i loro istruttori della NATO. Si tratta di un colpo mortale per la nostra strategia perché rende impossibili le missioni di addestramento. Bel risultato, per le competenze operative nella guerra di quarta generazione...
I talebani sanno che questa tecnica è una tecnica operativa e non solo tattica. Ci si può aspettare che riporranno tutti i loro sforzi in essa. Quali contromisure possiamo prendere? Non possiamo fare altro che ordinare ai nostri soldati di far finta che non stia succedendo niente e di continuare a fidarsi dei loro commilitoni afghani. Un ordine simile, se applicato, metterà i nostri soldati in una posizione tanto insostenibile che il loro morale finirà per crollare. (“Unfriendly Fire”, William S. Lind, The American Conservative)
Lind non sottovaluta i talebani, né li derubrica a "caprai ignoranti". In realtà, sembra ammirare il modo in cui essi hanno interpretato la guerra di quarta generazione e battuto un nemico che dispone di tecnologia, comunicazioni e potenza di fuoco nettamente superiori. Tutto questo contribuisce alla dimostrazione della sua tesi di fondo, ovvero che la tattica, le operazioni sul campo e la strategia sono quello che più conta.

Per più di dieci anni i talebani hanno portato avanti una guerriglia impressionante, vanificando i tentativi degli Stati Uniti di stabilire una situazione sicura, di tenere posizioni sul terreno o di far crescere l'area di influenza del governo centrale di Karzai. Nel corso dell’ultimo anno, gli sforzi compiuti dai miliziani si sono dimostrati remunerativi perché gli attacchi del tipo chiamato “green on blu”, che sono quelli messi a segno da poliziotti e militari Afgani contro le truppe della coalizione, hanno scompaginato i piani statunitensi per mantenere un governo amico a Kabul dopo il termine delle operazioni belliche ed il ritiro delle truppe. I talebani hanno trovato l’anello debole nella strategia del Pentagono e se ne sono serviti a proprio pieno vantaggio. Come spiega Joshua Fust, un esperto dello American Security Project per l'Asia centrale e meridionale, “La missione di addestramento è alla base della strategia oggi in atto. Senza quella missione, la strategia crolla. La guerra è alla deriva, ed è difficile pensare che a questo punto si possa evitare un disastro totale.” (“The Day we lost Afghanistan”, Joshua Foust, The National Interest)


E' tempo di tagliare la corda?

I continui attacchi del tipo green on blu hanno convinto i leader degli Stati Uniti e della NATO che questa guerra non si potrà vincere; per questo motivo il Presidente Barack Obama ha deciso di gettare la spugna. Ecco un dettaglio da un discorso che Obama ha tenuto a maggio, durante una conferenza della NATO a Chicago:

Non penso ci sarà mai uno di quei momenti ideali nel quale potremmo dire "è tutto compiuto, tutto è andato bene, siamo arrivati dove volevamo arrivare e ora possiamo impacchettare tutto e tornarcene a casa” ... La nostra coalizione si sta impegnando in un piano che consenta di portare la guerra che abbiamo intrapreso in Afghanistan ad una conclusione responsabile.
La classe politica sta dicendo che abbandonerà. Hanno deciso di smetterla di rimetterci e di andarsene. Ecco come lo riassume il New York Times:

Dopo più di un decennio di sangue americano versato in Afghanistan... è giunta l’ora per le forze statunitensi di lasciare l’Afghanistan... Non ci dovrebbe volere più di un anno. Gli Stati Uniti non raggiungeranno neanche gli obbiettivi, ridimensionati, del Presidente Obama, e prolungare la guerra porterà soltanto a danni ancora più gravi...
Gli Ufficiali dell'amministrazione dicono che non considereranno una “ritirata logistica” sicura, ma non offrono nessuna speranza di raggiungere neppure livelli minimi di governabilità e di sicurezza. E l’unica missione finale di cui siamo a conoscenza, quella arrivare a fare in modo che una consultazione elettorale afghana nel 2014 si svolga in condizioni di sicurezza, sembra nel migliore dei casi essere in dubbio...
L’idea di realizzare compiutamente obiettivi collegati a più ampi intenti di democrazia e di sicurezza diventa sempre più sfuggente... Continuare a combattere ancora non consoliderà i modesti progressi fatti con questa guerra, e sembrano anche esserci poche probabilità di garantire che i talebani non torneranno.
L’Afghanistan post-americano sarà presumibilmente più presentabile della Corea del Nord, meno presentabile dell’Iraq e forse più o meno come il Vietnam. Ma quanto a risultati fa parte dello stesso tipo di esiti controproducenti. Dobbiamo andarcene, finché siamo in tempo a farlo sani e salvi.
Gli interessi globali dell’America ne risentono, quando essa è impelagata in guerre che non può vincere in qualche paese lontano.  (“Time to Pack Up”, New York Times)
Si noti come il Times ometta di citare la Guerra al Terrore, al Qaeda o Bin Laden, tutti argomenti che vennero utilizzati per racogliere sostegno per la guerra. Quello che importa, adesso, sono gli “interessi globali dell’America”.
Un bel voltafaccia, no?
Cosa è successo alla ferrea determinazione di combattere la “giusta battaglia” per tutto il tempo necessario, di liberare le donne afgane, di diffondere la democrazia nella vasta Asia Centrale e di eliminare i fanatici talebani una volta per tutte? Era solo un vuoto atteggiarsi che serviva a far partire la macchina da guerra e a sviare l'opinione pubblica?
Guardate come è facile per il Times virare di centoottanta gradi, quando solo pochi mesi fa provava a persuadere i lettori che avremmo dovuto stringere i denti e rimanere per proteggere le donne afgane. Date un occhiata a questo editoriale dell'agosto 2012, intitolato “Le donne dell'Afghanistan”:
L’Afghanistan può essere una terra difficile e crudele, specie per le donne e le ragazze. Molti temono che saranno ancora più vulnerabili alle dure tradizioni tribali e agli uomini che le impongono dopo la ritirata delle truppe americane nel 2014. I diritti delle donne hanno fatto modesti ma incoraggianti passi avanti nel corso dell'ultimo decennio, ma questi progressi potrebbero scomparire senza un forte impegno per la loro tutela e per il loro sviluppo da parte dei leader afghani, di Washington e degli altri partner internazionali...
...Tutti gli afghani dovrebbero essere coinvolti nel miglioramento della condizione femminile. Come ha affermato la signora Clinton, esistono moltissime indicazoni secondo le quali nessun paese può crescere e prosperare nel mondo di oggi se le donne sono marginalizzate e oppresse. (“The Women of Afghanistan”, New York Times)
Ah, ma com'è che ora dare un mano alle donne afgane "marginalizzate e oppresse" non aiuta gli "interessi globali americani"? Come era lecito aspettarsi, i più nobili sentimenti del Times sono guidati da interessi politici. In ogni caso, la tacita ammissione del Times prova che la guerra non ha mai avuto il proposito di liberare le donne o di diffondere la democrazia, e neanche di uccidere Bin Laden. Era per gli “interessi globali americani”, in particolare per gli oleodotti, per i minerali, per il Grande Gioco, per il controllo delle ricchezze immobiliari della ribollente Eurasia, che sarà il centro economico del prossimo secolo. Ecco perché gli Stati Uniti hanno invaso l'Afghanistan: tutto il resto è propaganda. C’è un’altra evidente omissione nell’articolo del Times che vale la pena notare. Gli editori fanno di tutto per evitare la parola che meglio sintetizza la situazione: sconfitta. Gli Stati Uniti non stanno lasciando l’Afghanistan volontariamente. Sono stati sconfitti. L’esercito degli USA è stato sconfitto proprio come l'esercito dello stato sionista fu sconfitto da Hezbollah nell’estate del 2006, perché hanno sottovalutato la tenacia, lìabilità, la ferocia, l'adattabilità e l'intelligenza del loro avversario. Ecco perché lo stato sionista ha perso la guerra in Libano ed ecco perché gli Stati Uniti hanno perso quella in Afghanistan.
Esiste un motivo per il quale i media non usano la parola “sconfitta”, nonostante sia la più adatta a descrivere la situazione. Perché l'uomo della strada il concetto di sconfitta lo capisce, capisce la vergogna della sconfitta, ne percepisce il dolore e ne prova la rabbia. La sconfitta porta al ripudio dei potenti, è la prova che siamo governati da folli e da cialtroni. La sconfitta è anche un deterrente forte, è un’idea che si ingigantisce nella mente delle persone e le fa diventare contrarie alle intromissioni straniere, alle azioni di polizia e alla guerra. Ecco perché il Times si guarda bene dall'utilizzare questa parola, perché ogni sconfitta fa da antidoto per una successiva aggressione, e questo è proprio quello che il Times non vuole.
Quello che nessuno dei mezzi di comunicazione di massa vuole.

La verità è che gli Stati Uniti, in Afghanistan, sono stati sconfitti. Se riusciamo a capirlo, forse possiamo fermare la prossima guerra prima che abbia inizio.


Mike Whitney vive nello stato di Washington. Ha contribuito al volume Hopeless: Barack Obama and the Politics of Illusion (AK Press). Può essere raggiunto a fergiewhitney@msn.com.