mercoledì 8 agosto 2012

Alastair Crooke - Resistenza. Aspetti essenziali della Rivoluzione Islamica - Parte III, Capitolo 6 - Una cultura fatta di forza di volontà e di raziocinio



Molti racconti su Hezbollah e sul risveglio dell’Islam sciita libanese iniziano con l’arrivo in Libano di Musa al Sadr, il carismatico religioso che giunse nel 1959 dall’Iraq, oppure con la prima invasione di Israele nel 1978. Così facendo non è però possibile una vera comprensione né dell’Islam sciita libanese, né di cosa sia Hezbollah. Nessuno dei due è sbucato dal nulla negli anni Sessanta o Settanta. E gli sciiti hanno provato l’esperienza non di uno, ma di svariati risvegli politici dalla fine degli anni Cinquanta in poi. Né l’invasione israeliana, né l’arrivo di Musa al Sadr, né la Rivoluzione Iraniana vanno considerati come punto di partenza dell’affermazione politica degli sciiti libanesi.
La catena montagnosa dell’Amil, nel Libano del sud, ha servito da rifugio e da centro di irradiazione delle dottrine sciite almeno dal decimo ed undicesimo secolo. L’Iran e la città di Najaf, quando nel sedicesimo secolo iniziarono a mettere insieme il proprio patrimonio culturale, si rivolsero allo Amil. I legami tra l’Iran, Najaf in Iraq e la Siria tramite gli studiosi sciiti ed i religiosi hanno dunque oltre cinquecento anni di storia.
Ma gli sciiti vanno anche considerati come le sempiterne vittime di un massacro dopo l’altro lungo tutto il corso della loro storia: una storia fatta di persecuzioni da parte dei re arabi sunniti, dei califfi, dei crociati cristiani e degli Ottomani. Un periodo in cui non hanno mai avuto alcun potente protettore, e non sono stati tutelati da nessuna potenza esterna. Gli sciiti, non soltanto in Libano ma in tutto il mondo, hanno ereditato dalle loro vicende storiche un forte senso di vulnerabilità davanti all’ingerenza dei poteri forti. Ma hanno anche ereditato la tendenza a considerarsi una famiglia unita, a prescindere dai luoghi in cui vivono.
La storia di Hezbollah va considerata partendo da questo concetto. I cristiani del Libano hanno spesso fatto ricorso all’Occidente per avere chi li sostenesse nelle loro battaglie politiche, e i musulmani sunniti hanno sempre potuto far conto sulle forti potenze regionali sunnite e sul loro intervento, e adesso possono contare anche sulla protezione degli Stati Uniti. La storia politica degli sciiti, fino ai recenti tempi in cui è nato il loro attivismo, è stata una storia di persecuzioni e di marginalizzazione sociale e politica. Gli sciiti hanno piena consapevolezza di questo, e si sentono comunque vulnerabili nonostante i successi che hanno avuto nel rinnovarsi dal punto di vista religioso e nonostante la mobilitazione sociale e politica che sono riusciti a creare.
L’essenza della storia politica libanese è rappresentata da una serie di crisi che hanno segnato il percorso verso un più equo sistema di ripartizione dei poteri. Dietro la lotta per il potere che coinvolge i quattordici gruppi confessionali che costituiscono il paese c’è l’enorme questione di quale sarà l’identità nazionale che il Libano finirà per assumere: una orientata ad Occidente, cosmopolita e rispettosa della tradizione cristiana, o una che appare più vicina al contesto geografico libanese, che vede il Libano far parte di una regione araba ed islamica dalle cui dinamiche politiche è mera illusione il credere di potersi separare. La marginalizzazione degli sciiti libanesi e la nascita di Hezbollah devono essere inquadrate in questo contesto politico.
Alla multiforme storia della competizione settaria in Libano è spesso attribuita la responsabilità di aver plasmato il carattere del paese con una presenza e con un ruolo che non sono attribuibili ad alcun altro fattore. In realtà il Libano storico, ovvero la catena montuosa costiera nota come Monte Libano, è stato ricettacolo per molte minoranze che sono state per molto tempo vittime di persecuzione.
Per oltre mille anni, dal 632 alla fine della Prima Guerra Mondiale, la Siria di cui il Libano era una parte è rimasta sotto giurisdizione islamica, dato che il suo territorio ha visto la successiva presenza di una serie di imperi islamici. Fa eccezione soltanto il periodo compreso tra il 1098 ed il 1291, anni in cui furono presenti i crociati occidentali.
Ad un certo punto tra il decimo e l’undicesimo secolo, la setta siriana e cristiana dei maroniti si spostò dalla Siria fino a raggiungere i picchi della parte settentrionale della catena montuosa del Libano. Fu nello stesso periodo che i drusi emersero come setta separata dell’Islam, e si raccolsero lungo le vette meridionali del Monte Libano e nella parte a sud della valle della Beqaa. Quella dei drusi è una setta di derivazione ismaelita che da più parti viene considerata come non veramente musulmana. La storia del Libano come tale è, agli inizi, una storia di rivalità e di scontri fra le due comunità tribali dei drusi e dei maroniti, che all’epoca erano più in pari di oggi per numerosità; in gioco c’era la supremazia religiosa e politica sulla regione del Monte Libano che entrambi occupavano. 
Gli sciiti erano già presenti nel sud del Monte Libano e nella valle della Beqaa nell’874; i loro territori erano rimasti distinti, facevano parte della Grande Siria e furono annessi al Libano soltanto nel 1920.
Si sa poco del primo diffondersi dell’Islam sciita nel Libano meridionale, ma è probabile che gli sciiti siano stati numerosi attorno al Monte Amil, la zona collinosa compresa nell’entroterra tra Sidone e Tiro, a partire dal decimo secolo. In questo periodo l’Islam sciita era la confessione prevalente in tutta la Grande Siria. Ad Aleppo, un centro religioso importante nella Siria settentrionale, regnava una dinastia sciita, e la maggior parte della popolazione siriana era anch’essa sciita. La Grande Siria, o Bilad al-Sham, comprendeva allora tutta la Palestina storica e la Giordania, oltre che i territori di quelli che sono la Siria ed il Libano di oggi. Tutti questi territori erano prevalentemente abitati da sciiti.
La conquista della Siria nel 1070 iniziò a rovesciare le sorti degli sciiti. La conquista del paese ad opera di gruppi tribali turchi di confessione sunnita ed il successivo arrivo dei crociati furono seguiti dalla riconquista dei territori crociati ad opera di Saladino. Forti del sostegno dottrinale antisciita di Ahmad Ibn Tamiyya (morto nel 1328), quattro spedizioni militari destinate a “sradicare l’eresia sciita” vennero organizzate dai Mamelucchi nel Libano del nord negli anni compresi tra il 1292 ed il 1305. Gli sciiti vennero gradatamente eliminati e marginalizzati, per imporre a tutti di conformarsi alle credenze dei dominatori.
I dominatori sunniti per tutto il periodo delle persecuzioni dipinsero gli sciiti come non ortodossi e li criticarono come resistenti irriducibili. La propensione dell’Islam sciita all’aperta critica in campo politico venne considerata una minaccia dalle autorità sunnite.
A partire dal quattordicesimo secolo gli sciiti non costituirono più la maggioranza dei musulmani nella Grande Siria. Erano stati respinti dal nord della Siria -uccisi o costretti a convertirsi al credo sunnita- ma erano ancora numerosi a Damasco e ad Aleppo1. Sembra che il Monte Amil sia diventato un centro di insegnamento sciita in seguito alle crociate, quando gli sciiti furono spinti da Nablus in Palestina e da Amman in Giordania, fino ad allora centri urbani prevalentemente sciiti, a cercare rifugio sul Monte Amil.
Nonostante i dissidi e le persecuzioni, la migliore tradizione dell’erudizione sciita sopravvisse nelle cittadine mercantili e nei villaggi del Monte Amil. La persistenza di questa tradizione in regioni agricole e povere non deve sorprendere. La sopravvivenza sul Monte Amil di un credo profondamente articolato e di un impressionante corpus giurisprudenziale indicavano quanto fosse profonda la convinzione di essere nel giusto che aveva sempre contraddistinto gli sciiti; lo stesso valeva per le città sacrario dell’Iraq, che esercitavano da lontano la loro influenza sul Monte Amil2.
Le madrase, gli istituti islamici di insegnamento, raggiunsero il loro apice nell’Amil tra il quindicesimo ed il sedicesimo secolo. Durante questo periodo iniziò la migrazione degli studiosi sciiti verso l’Iran, l’Iraq e la Mecca. Quando la dinastia dei Safavi (1501-1722) cominciò ad imporre alla Persia la conversione dall’Islam sunnita a quello sciita, i safavidi si rivolsero agli sciiti del Monte Amil a causa della loro competenza teologica, affinché li aiutassero a fondare nuovi seminari in tutta la Persia. Gli stretti legami tra gli studiosi sciiti del Libano meridionale con l’Iran e con i seminari sciiti di Najaf in Iraq si formarono in questo modo a metà del sedicesimo secolo, e durano a tutt’oggi.


L’istituzionalizzazione del settarismo culturale

Le modalità con cui il settarismo libanese si manifesta modernamente vennero stabilite molto prima che il Libano come stato moderno si concretizzasse, nel 1943. Nel 1841 gli Ottomani avevano fondato un organismo confessionale composto da dieci membri (tre maroniti, tre drusi, un greco cattolico, un greco ortodosso, uno sciita ed un sunnita) che rappresentava le contrastanti identità del paese.
Nel 1860, dopo che i contadini maroniti erano insorti contro i proprietari terrieri drusi in una rivolta che causò la morte di undicimila maroniti e la distruzione di oltre duecento villaggi, gli Ottomani, sotto pressione dei francesi preoccupati per la salvaguardia dei loro alleati maroniti, fondarono un consiglio di rappresentanti composto seguendo linee confessionali pressappoco simili. In questa occasione si verificò il primo intervento europeo in Libano dai tempi delle crociate.
Lo storico Augustus Richard Norton ha notato che queste dinamiche erano ben presenti prima dell’indipendenza nel 1943 e che
…c’erano degli aggiustamenti periodici sia nelle proporzioni delle rappresentative confessionali sia nella distribuzione dei posti di governo. Invece da allora [dal 1943] ci sono stati solo aggiustamenti di portata limitatissima nonostante i diversi tassi di natalità tra una confessione e l’altra abbiano mutato in maniera significativa il profilo demografico del Libano3.
Fin dalla sua fondazione quindi lo stato libanese mancava dei due ingredienti che sarebbero stati necessari al suo successo: fu plasmato senza alcun accordo politico sottostante, ed ereditò e rafforzò una situazione di crescente disparità economica e sociale che si rifletteva anche nei differenti tassi di crescita della popolazione. Coloro che godevano dei più alti benefici economici, come i maroniti e la borghesia sunnita di Beirut presentavano tassi di natalità minori, mentre tassi più alti permanevano nelle comunità che vivevano nelle regioni più depresse.
In questa situazione, a differenza dei musulmani sunniti che facevano i commercianti sulla costa e dei drusi che avevano avuto un ruolo politico nel Monte Libano storicamente inteso, gli sciiti erano nel migliore dei casi tenuti ai margini. In epoca ottomana la comunità sciita era stata vittima dell’espansione maronita e drusa, e gli sciiti venivano ancora trattati come se fossero dei meno arabi.
Il nazionalismo arabo, che ha informato di sé l’identità regionale per un lungo periodo dopo la nascita dell’Islam, è nella sua essenza un fenomeno sunnita ed ha mantenuto un intrinseca diffidenza per gli sciiti (che in complesso costituiscono il quindici per cento di tutti i musulmani del mondo) considerati colpevoli di aver diviso la famiglia musulmana.
Gli sciiti non sono mai stati rappresentati adeguatamente nella burocrazia o nei corpi militari di uno stato arabo. In Libano le scuole religiose, le biblioteche ed i centri di insegnamento nel sud del paese che i savafidi avevano chiamato in causa quando intrapresero l’opera di conversione della Persia al credo sciita nel 1501 furono poi devastate dalle forze ottomane inviate a distruggere questo centro di irradiazione della cultura sciita. Gli Ottomani dispersero gli studiosi locali più eminenti e saccheggiarono le loro biblioteche. I loro correligionari sciiti in quella che oggi è la Turchia subirono di peggio sotto gli Ottomani, che li passarono puramente e semplicemente a fil di spada risparmiando soltanto la setta sciita degli alawiti, che ancora sopravvive in Anatolia.
In Libano, gli sciiti vennero marginalizzati anche politicamente, sia dai cristiani che dalla classe mercantile sunnita che sosteneva i cristiani. Nel censimento del 1932, i cui dati fanno da riferimento per l’assegnazione dei seggi in parlamento, collocava gli sciiti al 17% della popolazione. Sulla base di questo dato, furono loro assegnati dieci seggi su cinquantacinque. Ma nel 1932 la questione del censimento aveva una fortissima valenza politica ed esso venne realizzato in modo da far figurare i cristiani come maggioranza. Molti sciiti non furono censiti4.
In questo periodo le campagne in cui si concentravano gli sciiti erano in pieno declino ed erano controllate per via ereditaria da proprietari terrieri di stile feudale che occupavano la maggior parte dei seggi parlamentari destinati agli sciiti e che dedicavano poco interesse ai loro servi lavoratori. Le condizioni di vita nei villaggi sciiti erano semplicemente atroci se paragonate a quelle riscontrabili normalmente altrove. Nel 1943 nel distretto del Libano Meridionale, che consisteva di trecento villaggi per la maggior parte abitati da sciiti, non esistevano ospedali e neppure reti di irrigazione. La povertà e l’analfabetismo, nelle comunità contadine degli sciiti, erano ordinaria amministrazione.
L’ordinamento su base settaria dello stato aveva imposto che ogni setta fosse responsabile in proprio per la creazione ed il funzionamento di istituzioni come le scuole e gli ospedali, anziché poter fare affidamento su quelle create e fatte funzionare sulla base di una comune identità libanese. La setta, basata sulla sua influenza politica più che sulle esigenze della comunità, diventò così il canale attraverso il quale si poteva accedere ai finanziamenti statali. Essere sottorappresentati politicamente, in un sistema così concepito, esasperava l’ingiusta distribuzione delle risorse e contribuisce a accrescere la povertà delle comunità tenute ai margini della vita politica, come quella sciita.
All’inizio degli anni Settanta a Beirut e nelle zone del Monte Libano che la circondano si trovava il 64% delle strutture private per l’educazione primaria, il 73% delle scuole secondarie e la totalità delle sedi di istruzione universitaria. Il 65% dei medici operava a Beirut, dove si concentrava soltanto il 27% della popolazione.
Mentre le zone rurali languivano, lo sviluppo economico e strutturale di Beirut continuava spedito, soprattutto grazie ai legami dei maroniti e della popolazione urbana sunnita con la rete del capitale occidentale. Dopo una breve guerra civile nel 1958, Beirut aveva prosperato come l’indiscusso centro delle reti finanziarie che collegavano il mondo industrializzato con gli stati del golfo produttori di petrolio. Tuttavia la rapida urbanizzazione che si verificò a seguito dell’ingresso nell’economia capitalistica contribuì ad un ulteriore inasprimento delle disparità interne al Libano. A soffrirne in modo spropositato furono ancora gli sciiti.
Lo sviluppo economico di Beirut promosse una massiccia emigrazione dei contadini sciiti verso la capitale. Nel 1973 soltanto il 40% della popolazione sciita era rimasto nelle campagne, e gli sciiti costituivano il 29% della popolazione di Beirut5. La maggior parte di questi sciiti di recentissima urbanizzazione si stabilirono in un anello di sobborghi appropriatamente descritto come “la cintura della miseria” di Beirut.
Le varie centinaia di migliaia di sciiti che si stabilirono a Beirut ed attorno ad essa, nella “cintura della miseria”, non vennero mai assimilati all’identità urbana libanese. Al contrario, le condizioni di povertà e di mancanza di servizi sociali contribuirono a rafforzare l’identità sciita nei suoi aspetti confessionali. Questa consapevolezza collettiva fu rafforzata dal diffondersi della credenza, non certo priva di giustificazioni, secondo la quale gli sciiti avevano sopportato i costi della continua conflittualità libanese in misura molto maggiore rispetto agli altri gruppi. Gli sciiti furono cacciati dalle loro case nelle regioni meridionali in due occasioni successive alle invasioni israeliane del Libano del sud nel 1978 e nel 1982, e subirono la pulizia etnica dalle enclave cristiane durante la guerra civile.
Ancora più importante fu la scostanza con cui questi emigranti sciiti vennero accolti a Beirut. In gran parte fittavoli, mezzadri e braccianti agricoli, diventarono gli “sporchi rivenduglioli di Chiclet6 delle strade della capitale. Gli schifiltosi cittadini di Beirut additavano “quella gente” con uno sdegno ed un disprezzo inconfondibili. In uno studio svolto a Burj Hammud, che è un quartiere periferico di Beirut, gli sciiti risultano descritti come sporchi, inaffidabili ed avidi, nonché come una minaccia sessuale nei confronti delle donne cristiane7.


Gli sciiti si mobilitano

Con alle spalle la rottura delle relazioni con i loro villaggi di provenienza, l’interruzione dei tradizionali rapporti con i padroni terrieri di tipo feudale e le “famiglie colte” anch’esse in pieno declino, e con le loro aspettative continuamente frustrate, gli sciiti erano disponibili per la mobilitazione politica e sociale.
Non avevano però un capo rivoluzionario con il carisma, la visione e le qualità nobilitatrici in grado di trasformare la disponibilità del popolo ad abbandonare vecchi e logori schemi comportamentali nell’adozione di una nuova mentalità, di un nuovo stile di vita e di una nuova prospettiva con cui guardare al futuro. Nel 1959 la leadership, l’ideologia ed il carisma giunsero nel sud del Libano, nella persona di Musa Sadr.
Musa al Sadr era nato in Iran nel 1928, figlio di uno ayatollah. La famiglia al Sadr, come abbiamo visto nei capitoli precedenti, era nota per i suoi intelletti brillanti ed aveva costituito il punto focale del circolo di Najaf. Musa al Sadr non aveva intenzione, all’inizio, di diventare un religioso e sperava anzi di darsi ad una carriera di tipo laico; suo padre tuttavia, temendo per il futuro dell’Islam sciita in Iran, lo convinse ad abbandonare i suoi progetti originari e a studiare legge. Un anno dopo la more del padre avvenuta nel 1953, Musa al Sadr si trasferì in Iraq a Najaf: fu un atto che plasmò il suo pensiero sul futuro dell’Islam sciita e che finì per tracciare la rotta alla futura rivoluzione nel sud del Libano.
Quello che Musa al Sadr portò in Libano nel 1958 partendo dalla città di Najaf era proprio una concezione dell’Islam sciita di tipo innovativo. Il suo trisnonno era nato nel Libano del sud, ma a seguito di tumulti anti Ottomani in cui rimasero uccisi due dei suoi figli aveva abbandonato il Libano alla volta di Najaf. Da questo punto di vista Musa al Sadr era un capo piuttosto improbabile per gli sciiti libanesi: in Libano non aveva protettori, nonostante la rete di conoscenze di cui la sua famiglia poteva disporre in Iran ed in Iraq fosse estesa e ramificata.
Musa al Sadr impersonava un nuovo tipo di leader, quello del religioso attivo politicamente e coinvolto in prima persona nella vita della propria comunità. Era alto, di bell’aspetto, con due occhi verdi dallo sguardo penetrante. Conosceva diverse lingue e sapeva conversare su argomenti che riguardavano il pensiero occidentale con la stessa competenza di cui parlava di teologia sciita.
Si impegnò con successo per dare agli sciiti un’identità politica nuova e nel mobilitarli sul terreno politico. Si erano già verificati, tra gli ultimi anni Cinquanta ed i primi Sessanta, casi di proteste e di scioperi di impronta sciita, ma la strategia di mobilitazione seguita da Sadr seguì quanto predicato a Najaf sul rovesciamento della tradizione e della pratica fin lì storicamente seguita, portando l’Islam sciita dall’essere una forza passiva ed immobilista al rappresentare lo strumento adatto all’azione ed al cambiamento energico.
Il linguaggio esoterico dell’Islam sciita diventò quello di un’ideologia che si accordava alle preoccupazioni quotidiane del benessere umano, e che andava a ridestare anche le vitali energie dell’uomo in vista della resistenza, cosa che spinse la comunità sciita alla rivolta. Organizzandosi politicamente e ricompattandosi dietro le proprie milizie, gli sciiti riuscirono a prendere nelle loro mani il proprio destino e a diventare un modello per il risveglio sciita ed una sfida per il sistema politico e sociale libanese che era stato responsabile del loro disconoscimento e della loro marginalizzazione.
Musa al Sadr, l’ayatollah Fadlallah e gli altri si adoperarono per includere un pratico sistema di servizi sociali come componente fondamentale dell’identità islamica degli sciiti libanesi. L’estesa rete di servizi sociali e di previdenza che i due religiosi riuscirono a costruire permise di fornire i servizi di cui il sud del Libano aveva un disperato bisogno, ma le stesse organizzazioni divennero anche dei catalizzatori per la presa di coscienza degli sciiti e dei mezzi per costruire una “cultura della resistenza”. Nel caso di Hezbollah, le attività sociali attualmente realizzate costituiscono il retaggio diretto di tutto questo.
Dal 1976, due anni prima della Rivoluzione Iraniana, Fadlallah era andato evidenziando i mutamenti intellettuali e psicologici che avrebbero portato gli islamici dal tradizionale atteggiamento di acquiescenza passiva -tipico dell’Islam sciita- mostrato davanti alla loro storia di marginalizzazione economica verso una propensione favorevole nei confronti del successo economico e nei confronti delle moderne tecnologie. Fadlallah considerò il caso entrandone nel merito, ma fece presente che questo mutamento era desiderabile anche per il rafforzamento del potere contrattuale che portava sul piano politico e che poteva materializzarsi in blocchi di mobilitazione e di resistenza.
Fadlallah era a favore della forza e del potere militare: la forza, sosteneva, consente ad un uomo di essere se stesso e non qualcun altro, e gli permette di riappropriarsi del controllo della propria vita:
Essere forti significa che il mondo ti dà le sue risorse e la sua ricchezza; di contro, quando si è deboli, la vita diventa peggiore e le energie dell’uomo diventano sprecate; si diventa soggetti a qualcosa che ricorda il soffocamento o la paralisi. La storia, la storia della guerra e della pace, della scienza e della ricchezza, è la storia di chi è forte8.
Questo concetto era rivoluzionario. Fin dalle sue origini il pensiero sciita non aveva mai considerato la conquista del potere come un prerequisito per un’esistenza buona e pia. Anzi, era l’ascetismo ad essere considerato come la risposta più appropriata che la spiritualità sciita potesse produrre davanti al “narcisismo dell’uomo ed alla tirannia della ricchezza, che è il più grande degli idoli umani”9.
In Occidente il programma di attività sociali di Hezbollah, bollato come “attività caritatevoli” o “roba finanziata dall’Iran”, viene derubricato a sistema sfacciato per acquistare sostegno politico per il movimento. Si tratta di una considerazione errata: il programma di attività sociali di Hezbollah fa parte della sua pratica politica. Il suo scopo  quello di creare “comunità capaci di sopportare i rovesci improvvisi e dotate di una forte volontà”, in grado di fare conto su se stesse per la propria difesa. Fadlallah ha scritto che l’uomo “forte e pio” ha più meriti dell’uomo “pio e debole”: non è soltanto con le parole che gli uomini proibiscono il male, ma anche con la forza delle armi.
L’obiettivo, così come lo indicò l’ayatollah Fadlallah durante la guerra civile libanese, era quello di creare uno “stato umano” che fosse in grado di fornire al popolo le risorse necessarie ad aiutare se stesso ed all’assistenza reciproca dei suoi componenti. In contrasto con la concezione occidentale di stato-nazione come strumento dell’economia di mercato, Fadlallah propose lo “stato umano”, che doveva essere edificato a partire dai valori umani ed avrebbe posto in atto le norme necessarie ad una comunità conforme a criteri di giustizia.
Il periodo della permanenza di Musa al Sadr in Libano, fino al viaggio in Libia del 1978 durante il quale scomparve senza lasciare traccia diventando così noto come “l’imam scomparso”, coincise con l’inizio di un periodo cruciale per le relazioni tra Libano ed Israele. Nel 1968 l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) aveva cominciato a compiere raid armati in territorio israeliano partendo dal Libano del sud. Nei primi anni Settanta il Libano era diventato il principale punto di partenza per gli attacchi contro Israele, nonché l’unico dopo l’espulsione dell’OLP dalla Giordania.


Verso la realizzazione di una forza sciita di difesa militare

Con l’intensificarsi delle rappresaglie israeliane contro il Libano del sud a seguito delle azioni dell’OLP, Musa al Sadr richiese protezione per gli sciiti che vivevano nel sud. Gli sciiti avevano cominciato ad abbandonare i loro villaggi e a trasferirsi a nord per fuggire dalla zona dei combattimenti. Sadr reagì fondando campi di addestramento in cui gli sciiti potessero imparare a difendersi. Stabilì collegamenti con i palestinesi, ma queste relazioni si indebolirono e si fecero sempre più tese con il crescere delle sofferenze degli sciiti.
Sotto la pressione degli attacchi israeliani e delle attività dei commandos palestinesi, gli amari dissapori che esistevano tra i gruppi confessionali del Libano esplosero, e nel 1975 cominciò la guerra civile. Sadr ed i suoi seguaci fondarono una propria milizia chiamata Amal, addestrata e rifornita dall’OLP.
L’anno 1979 vide il rovesciamento dello Shah e la Rivoluzione Iraniana. La rivoluzione galvanizzò gli sciiti in tutto il mondo, ma per quelli che vivevano in Libano, come ebbe a precisare all’epoca il grande ayatollah Fadlallah, essa fece da sostegno all’imminente mobilitazione di massa dando agli sciiti una forte sensazione di potenza: se si fossero organizzati, se avessero fatto le cose con cura e con determinazione, avrebbero conseguito grandi vittorie contro i loro nemici.
Quando Israele invase nuovamente il Libano nel 1982, la resistenza che in definitiva riuscì a sconfiggerlo e a costringerlo a ritirarsi nel 2000 era costituita dalla comunità sciita e Hezbollah ne costituiva il nerbo; una comunità mobilitata, che aveva attinto motivazioni ed ispirazione dalla Rivoluzione Iraniana.
All’inizio “[i combattenti di Hezbollah] erano molto impreparati, per più versi incoscienti, ma erano coraggiosi. Semplicemente si incamminavano verso la linea del fuoco e venivano falciati molto malamente. Era quasi come vedere gli attacchi degli iraniani contro l’Iraq”10, come annotava un corrispondente in merito ai primi tentativi militari di Hezbollah dopo che era stata rivelata l’esistenza di una sua ala militare nel 1985.
Dalla metà del 1986 la Resistenza Islamica di Hezbollah comprese che era necessario evolversi e sviluppare nuove tattiche se si voleva conseguire qualche successo contro gli israeliani. Hezbollah non poteva limitarsi al ruolo di avanguardia armata all’interno di una coalizione di guerriglieri, e continuare a combattere isolandosi dal sostegno popolare. Il movimento non soffriva soltanto per le perdite severe in certi attacchi, ma anche del fatto che la sua rapida crescita nella valle della Beqaa vicino ai confini siriani e nella città di Beirut aveva portato il gruppo in rotta di collisione con Amal e con la Siria. Nel 1987 le truppe siriane a Beirut si scontrarono direttamente con Hezbollah; più seriamente, nel 1988, fu guerra aperta tra Hezbollah ed Amal, causata dai timori di quest’ultimo che Hezbollah stesse erodendo la base dei sostenitori di cui Amal godeva presso gli sciiti. 
Anche nei suoi rapporti con la popolazione del sud c’erano stati attriti causati sia dall’imposizione, da parte di Hezbollah, di restrizioni di derivazione islamica ad attività tradizionali come il gioco del backgammon, sia dalle rappresaglie israeliane contro operazioni di resistenza di tipo militare che alla popolazione parevano essere condotte in modo incompetente e destinate al fallimento fin dal primo abbozzo. Gli sciiti non mettevano in discussione il fatto di resistere, ma quello che volevano era che si trattasse di una resistenza efficace, le cui azioni contro la potenza occupante non portassero soltanto a lutti spropositati per la popolazione civile.
All’inizio la resistenza all’occupazione israeliana contemplava un aggregato di gruppi sciiti basati nella zona, che operavano il più delle volte in piena autonomia e sotto una guida locale. Si pensa che in questa prima fase della resistenza, a suo modo caotica, abbiano operato fino a diciotto o ventiquattro componenti; quella che dominava era Amal, il movimento più numeroso.
In molti casi le appartenenze si sovrapponevano: i combattenti risultavano affiliati a due o più formazioni di resistenti. Per questo negli anni compresi tra il 1983 ed il 1988, quelli in cui c’era l’uso di prendere ostaggi, la responsabilità delle azioni spesso veniva attribuita erroneamente, o mendacemente, a movimenti che si basavano sulla sovrapposizione delle appartenenze. Hezbollah ha negato sistematicamente il proprio coinvolgimento nella presa di ostaggi in Libano nei primi anni Ottanta.
Hezbollah reagì a questa situazione di relativa anarchia cambiando l’organizzazione del proprio braccio armato. Tuttavia, soltanto dopo il 1987 iniziò a dare consistenza alle proprie file rispetto alla galassia confusa della resistenza, ad introdurre una struttura rigidamente compartimentata e ad imporre quella segretezza riguardo alla propria struttura ed alle proprie attività militari che costituiscono ancora oggi le sue caratteristiche peculiari. A tutt’oggi il fatto che qualcuno appartenga al braccio armato di Hezbollah è cosa ignota tanto alle famiglie quanto agli altri appartenenti all’organizzazione. Soltanto a partire dal 1991, dopo che la guerra con Amal si era conclusa nel 1989, si può dire che il Movimento di Resistenza Islamico si sia affermato come il precursore delle moderne formazioni militari di Hezbollah.
Per comprendere i cambiamenti che si verificarono dopo il 1991 e che trasformarono le capacità di Hezbollah come formazione per la resistenza armata, occorre capire che la componente essenziale della resistenza non è costituita soltanto dall’introduzione di cambiamenti organizzativi e dall’acquisizione di competenze, ma dal portare all’assunzione di un atteggiamento in cui una volontà forte abbia un ruolo di primo piano, dal  rafforzare una cultura condivisa basata sulla resistenza e sulla lealtà, dall’inculcare la propensione al sacrificio volontario per il bene della comunità, e dall’incoraggiare lo studio approfondito del nemico.
Gli osservatori occidentali spesso cercano di individuare qualche mutamento cruciale, tecnico od organizzativo che sia, che possa spiegare i successi militari di Hezbollah. E’ vero che Hezbollah ha sviluppato una struttura organizzativa molto diversa dai modelli seguiti in Occidente, e che oggi dispone del personale esperto e delle competenze che non possedeva prima. E’ vero anche che possiede unità specializzate di elevata preparazione ed equipaggiamenti sofisticati che schiera secondo modalità innovative; a sostenere il suo successo tuttavia, come ogni comandante militare di Hezbollah si affretta a sottolineare, ci sono il morale e la forza di volontà dei suoi combattenti.
La maniera di procedere di Hezbollah è sempre stata quella di costruire con cura una strategia che possa condurre a mutamenti concreti della situazione. Un appartenente ad Hezbollah la ha definita come “una rivoluzione che comprende i propri limiti; una rivoluzione consapevole del fatto che disconoscere l’esistenza di questi limiti può portare al disastro: dunque, una rivoluzione che capisce quanto sia necessario coinvolgere la gente. Questo è il limite che si deve rispettare”.
Il nostro interlocutore aggiunse anche che
…rispettare la necessità obiettiva di agire con calma – non muoversi più velocemente di quanto la situazione, il grado di mobilitazione ed il grado di coscienza popolare permettano – significa che il movimento evita di impegnarsi in obiettivi a breve termine. La preparazione psicologica richiede pazienza, il non attendersi risultati immediati e considerare i successi conseguiti come prodromi di vittorie che verranno.
Nel corso di questa conversazione, un altro maturo leader di Hezbollah, dotato di una lunga esperienza nel tracciare le linee della strategia militare del movimento, sottolineò le componenti essenziali di questa rivoluzione: “costruire un impianto ideologico, permettere a comunità resistenti che lo fanno proprio di concretizzarsi, e provvedere ad una leadership carismatica che eserciti fascino sulle persone, ma il cui compito concreto è quello di proteggere e di rafforzare la comunità.
Hezbollah definisce il suo processo di risveglio delle coscienze in termini di coesione e di sviluppo: “Il suo obiettivo è quello di creare comunità che condividono delle competenze e che sono in grado di resistere con successo ad eventuali rovesci”. Questo atteggiamento, spiegò l’appartenente a Hezbollah, si basa su numerosi principi: la psiche dei singoli individui viene rafforzata con lo studio della filosofia (tutti i comandanti militari seguono lezioni di questa materia) e con l’esercizio del pensiero critico. Il tutto rispetta l’invito dell’Imam Khomeini a sostituire la “mente colonizzata” con una “mente indipendente”. Lo scopo è quello di stabilire una condizione di basilare fiducia in se stessi e la capacità di resistere a stress improvvisi. La condizione di “equilibrio” così ottenuta permette al, o alla, combattente di evitare quelle oscillazioni dell’umore dalla disperazione alla eccessiva sicurezza di sé che possono indebolire un soggetto impegnato in un intenso confronto psicologico con il nemico.


Liberare il pensiero

Il programma di Hezbollah può essere considerato nel dettaglio come una versione del pensiero di Habermas sul sottrarre la sfera della vita pubblica dall’influenza delle istituzioni, oppure, in questo caso, dall’influenza del pensiero occidentale. Jürgen Habermas considerata la capacità di avvalersi del raziocinio e del pensiero critico all’interno di associazioni fatte di privati cittadini come il punto di partenza per lo sviluppo di una cultura che avrebbe potuto evolversi esprimendo le vere necessità ed i veri interessi dei cittadini, al di là del pervasivo influsso del pensiero strumentale.
Partendo da questo assunto, Hezbollah intende liberare i musulmani dall’idea secondo la quale la teoria, e quindi le sue “verità”, sia soltanto il corretto riflesso di un indipendente dominio di “fatti”. Questa è la mentalità occidentalizzata, che considera i fatti come fissi, dati ed inalterabili, e che ritiene che da questi fatti, essendo dotati di caratteristiche identificabili dalle scienze naturali, sociali od economiche, sia sempre possibile individuare le “leggi naturali” che rispecchiano fedelmente il loro svolgersi.
Gli islamici considerano questo tipo di studio atomizzato ed empirico dei soli elementi dell’universo che risultino prontamente quantificabili (con l’esclusione di ogni altro tipo di ragionamento) come la causa prima dello strumentalismo. Questo modo di pensare ha condotto l’Occidente al darwinismo sociale, al razzismo ed agli esperimenti scientifici che i nazisti conducevano sugli esseri umani; tutte cose perpetrate con incrollabile fiducia nel dominio delle “leggi naturali”. Gli islamici pensano invece che la verità si trovi nella più profonda comprensione dei valori umani e della natura del mondo reale.
La pratica politica di Hezbollah costituisce anche un passo avanti nella ridefinizione dell’individuo che l’Islam compie, abbandonando la culturalizzazione della politica in cui i problemi dell’ingiustizia, dello sfruttamento e delle disuguaglianze vengono a tutti gli effetti anestetizzati come questioni politiche, e vedendo in modo diverso tutto quello che nel mondo occidentale contemporaneo ha a che fare con argomenti come l’ingiustizia e l’oppressione.
Invece di essere considerati “giuste cause” meritevoli di attenzione da parte della protesta politica o della resistenza, questi argomenti vengono sottratti al piano della politica ed inquadrati come differenze culturali. Queste differenze sono considerate il risultato delle scelte di vita che hanno portato il singolo individuo a fare proprio lo stile di vita al quale deve le condizioni in cui si trova.
Simili differenze “culturali”, come la vecchia condizione degli sciiti libanesi come oggetto di disprezzo e di discriminazione da parte del resto della popolazione, vengono disinnescate e considerate qualche cosa di naturale, come se fossero delle condizioni date contro le quali non c’è lotta che basti. Sono considerate mero frutto dell’opera delle “leggi naturali”, intente a produrre i loro inevitabili risultati.
Il tutto costituisce qualcosa contro cui è inutile combattere; come l’evoluzione naturale ha prodotto i suoi disastri, allo stesso modo si dovevano tollerare queste conseguenze. La “tolleranza”, intesa come risposta appropriata da adottare nei confronti di coloro che nel modello di Popper figurano come saldamente in mano alla loro cultura “statica” ed ai loro istinti, è quello che contraddistingue la civiltà contemporanea
La prima risposta di Hezbollah a questa cultura di depoliticizzazione è stata quella di promuovere il rafforzamento della psiche, tramite la coltivazione del ragionamento e delle facoltà critiche del singolo individuo: l’idea è quella di dotare ciascuno di una “mente indipendente”.
Il secondo passo è stato quello di interrompere le dinamiche che oppongono meccanicamente l’individuo alla collettività -che sono frutto dell’esigenza tutta occidentale della personalizzazione della cultura- con la pretesa di rappresentare l’unica base possibile per la tolleranza in una società pluralista che rispetti i diritti dei singoli. In una società aperta l’individuo innalza se stesso al di sopra della cultura cui appartiene.
Hezbollah utilizza le sue attività sociali e di sostegno alla comunità proprio per restituire alla cultura la sua dimensione politica: sottolineando la collettività come insieme di valori, norme e ruoli modello cui gli sciiti possono far riferimento per la loro vita quotidiana, Hezbollah libera gli individui da una cultura intesa come “credenze ed idiosincrasie che restano nella sfera privata” e che non hanno alcun significato sul piano politico. Hezbollah, al contrario, articola norme condivise, -come il martirio dell’Imam Hussein dovuto a cause di giustizia, ad esempio- che restituiscono ad una cultura comune il suo valore politico e ne fanno in questo modo una base per la resistenza.
Hezbollah si richiama allo studioso combattente Ibn Mubarak, che nell’ottavo secolo, come abbiamo già avuto modo di notare, con i suoi racconti sul martirio degli eroi che combatterono le prime guerre in nome dell’Islam  riportò nel suo gruppo di combattenti lo spirito che doveva pervadere la prima comunità di credenti che si strinse attorno al Profeta. Ibn Mubarak aveva enfatizzato anche le norme condivise che guidavano gli intenti dei combattenti il jihad insieme all’impegno, al sacrificio ed alle azioni puramente volontaristiche di coloro che lo avevano interiorizzato. Altri temi che riecheggiano oggi e che riguardano la leadership vengono dai racconti che esistono sulla forza e sull’autocontrollo di cui Ibn Mubarak sapeva dare prova e sull’empatia che esisteva tra lui ed i suoi compagni d’armi, che a sua volta richiamava quella che pervadeva le relazioni tra il Profeta ed i suoi compagni11.
Hezbollah lavora per il rafforzamento di ogni singolo appartenente anche tramite la contemplazione del concetto che ognuno di loro possiede circa l’attributo divino della potenza, e tramite una raffigurazione personale di questa potenza; uno sceicco di Hezbollah ha definito la cosa come l’acquisizione di uno stato mentale dotato di una forza intrinseca. Questa qualità permette ad una persona di mettere insieme la forza di volontà e lo spirito giusto per confrontarsi e per prevalere contro una forza sproporzionata che venga usata contro di lui, o contro di lei. Un tipo di preparazione mentale riassunto dall’Imam Hussein, che contrapponeva “la vittoria del sangue alla vittoria della spada”. Si tratta, in altre parole, di prepararsi dal punto di vista della forza di spirito e della determinazione politica a resistere contro forze soverchianti.
Partendo dallo stesso concetto di “rafforzamento menale”, suggeriva lo sceicco,  era possibile giungere ad una condizione di fermezza e di capacità di resistere ai rovesci che “avrebbero condotto un avversario, pur superiore, al dover ammettere di non essere in grado di infliggere una sconfitta sul piano psicologico”.
In quarto luogo, Hezbollah adotta una prassi fatta di leadership carismatica, che protegge dagli abusi di potere e che permette di sviluppare l’impegno verso il mantenimento di una condotta comportamentale improntata a principi di onore. Questa dottrina ha lo scopo di cercare di pareggiare le competenze e le abilità personali dei singoli individui per giungere alla costruzione di una comunità forte e coesa. Queste comunità forti possono a loro volta costituire un modello più ampio per le altre, notava lo sceicco.
Il movimento cerca di fortificare la comunità rafforzando “l’individuo come essere umano e rafforzando le relazioni di questo essere umano con gli esseri umani che gli sono prossimi, che siano nella struttura della famiglia, del vicinato, della tribù, del clan o della nazione”12. Cerca fortificarla anche psicologicamente, innalzando ed esaltando figure esemplari tratti dalla narrativa dell’Islam. La costruzione di una identità culturale comprende anche un ampio repertorio a firma Hezbollah di musica inneggiante alla libertà, di poesia e di opere d’arte visiva che permettano alle persone di entrare in contatto con i valori che queste figure esemplari impersonano.
Il movimento enfatizza anche icone e gesta tratte dalle comunità stesse: il più delle volte si tratta di figure di martiri che vengono presentate alla devozione in quanto rappresentanti determinati valori essenziali per fondare la capacità comunitaria di resistere ai rovesci. Hezbollah cerca anche di creare legami personali diretti tra i singoli individui e queste icone, stabilendo dei collegamenti tra i ruoli ricoperti dalle persone all’interno della comunità, per quanto modesti, ed i valori di cui le icone sono portatrici. Favorire l’autostima degli individui viene considerato un importante elemento per sviluppare le capacità di resistere agli sconvolgimenti improvvisi, e come la soglia verso una più ampia mobilitazione.
Un attivista ci ha descritto tutto questo come un “processo di addestramento personale degli individui”, ed al tempo stesso un sistema di lavoro di gruppo basato su piccole squadre. Sotto questo aspetto, Hezbollah riecheggia il metodo di lavoro seguito dalle piccole squadre di addestratori che venivano usate dal movimento per i diritti civili negli Stati Uniti nelle fasi di mobilitazione di una certa comunità in vista di una data campagna. L’obiettivo di Hezbollah è quello di mettere ogni individuo nelle condizioni di contribuire al meglio alla comunità cui appartiene. Questo può voler dire aiutare qualcuno ad intraprendere un’attività, oppure addestrarlo come membro di una milizia d’élite.
Mettere ciascuno in condizioni di camminare con le proprie gambe rappresenta una parte del più ampio obiettivo che è quello di permettere a ciascuno di dare e ricevere rispetto, in maniera reciproca, all’interno di una comunità regolata secondo giustizia. Una delle richieste del Profeta era proprio quella che gli esseri umani trattassero gli uni gli altri con rispetto; essere rispettati dagli amici, essere rispettati come padri o madri, come mariti o come mogli, come uomini d’affari o  come donne. Il rispetto viene considerato un importante antidoto alla disumanità ed all’alienazione tipiche della società contemporanea.
Il primo passo è quello di instaurare una condizione di rispetto per se stessi, sviluppando la fiducia e la conoscenza di sé; il passo successivo consiste nell’affidare ai giovani incarichi in cui debbano dare prova di responsabilità e di attitudine al comando. Facendo in modo che i singoli individui siano rispettati dalla comunità, ovvero facendoli sentire apprezzati e necessari, è considerato un modo per renderli più forti e per metterli in grado di resistere a sollecitazioni repentine. La coesione della comunità origina dall’idea secondo la quale un servizio reso alla comunità costituisce una risposta diretta al rispetto di cui gli individui godono, che nasce da un processo che gli appartenenti a Hezbollah definiscono “di rete” e da uno spirito comunitario caratteristico, frutto di un attento lavoro di sviluppo sul piano psicologico.
Un capo di Hezbollah ha spiegato che con rete si intende il processo che punta ad incoraggiare lo scambio di favori, per piccoli che possano essere, tra i membri della comunità. L’offerta di qualche piccolo servizio disinteressato a qualcun altro ed il riceverne uno diverso come contraccambio, aiuta a costruire dei legami comunitari e permette di interiorizzare il senso di un più importante dovere sociale che sta al di là del dovere individuale.
Tutto questo incarna il concetto coranico che abbiamo già precisato, quello secondo cui l’abitudine di cedere agli altri parte della propria ricchezza e l’essere disponibili a servire la comunità consolidano il distacco dai beni materiali e radicano gli ideali del dono di sé e del sacrificio in nome della comunità. Si tratta del tentativo di trasfondere le regole alla base di una vita comunitaria che si svolge secondo giustizia alla vita degli sciiti contemporanei, che vivono nel Libano di oggi.
L’obiettivo è quello di incanalare energia, che si tratti di entusiasmo o che si tratti di rabbia, verso obiettivi socialmente e politicamente vantaggiosi.
“Successivamente [dopo la guerra del 2006] abbiamo impiegato molto tempo ad incanalare il senso di rabbia. Vogliamo che questa rabbia non prenda canali distruttivi e diventi invece qualcosa che sia in grado di portarci dei vantaggi sul piano politico, magari aiutando la resistenza, o di tradursi in qualche attività costruttiva dal punto di vista sociale”, ha spiegato un attivista.


Cultura della resistenza e psicologia della forza di volontà

Questa serie di misure destinate a rafforzare le comunità dal basso sono alla base della dottrina militare di Hezbollah. Lungi dal rappresentare un movimento irreggimentato come lo si reputa in Occidente -o un movimento totalitario vero e proprio, come lo dipingono i suoi detrattori- in cui non c’è posto per l’iniziativa personale o per le decisioni autonome, Hezbollah adotta una dottrina che incoraggia la responsabilità e le iniziative personali e che è fortemente centrata sullo spirito di servizio nei confronti della comunità. Quella di Hezbollah è un’etica basata sull’autodisciplina, più che sulla disciplina di corpo adottata senza alcun pensiero critico che è propria del totalitarismo.
Durante il conflitto con Israele nel 2006, un comandante militare di Hezbollah spiegò che “i comandanti delle piccole unità della milizia che hanno operato nei villaggi godevano di una quasi completa autonomia, sia pure nell’àmbito di quanto stabilito dal piano generale che era stato messo a punto prima dell’inizio della guerra”. Queste unità “facevano rete” a loro discrezione con le unità vicine.
La struttura del comando militare del movimento fu cambiata, a partire dal 1989, proprio perché riflettesse questo concetto di autonomia; la maggior parte delle unità sono costituite da miliziani a mezzo servizio stanziati localmente e sono appoggiate dalle unità di autodifesa dei villaggi. Esiste anche una brigata di soldati di prima linea, piccola ma altamente professionale, che viene dispiegata a piccoli gruppi a sostegno della milizia; esistono anche unità della riserva e corpi specializzati, ma l’aspetto fondamentale è che tutti questi corpi armati operano in rete avvalendosi di un alto grado di autonomia, entro i limiti di piani d’azione decisi in precedenza e che tengono conto delle possibili eventualità.
Hezbollah ha evitato consapevolmente il pericolo di diventare un’organizzazione enfiata e visibile. La sua rete orizzontale di piccoli gruppi di miliziani dotati di alta professionalità e che operano su un terreno che conoscono si è tradotta in una macchina da guerra efficace pur essendo quasi invisibile sul campo.
I parametri d’azione nel cui rispetto le unità combattenti devono operare vengono decisi da una leadership militare di cui fanno parte anche i capi politici locali. Esistono comandanti militari in ogni regione e per ogni unità specializzata, ma Hezbollah ha quasi completamente eliminato gli strati intermedi di “comando e controllo” da cui dipendono le unità militari di tipo occidentale.
Questi livelli intermedi sono stati eliminati molti anni fa, perché Hezbollah si accorse che se si schierava rispettando la gerarchia militare occidentale di tipo classico, diventava molto facile per il nemico compiere delle identificazioni. Cosa ancora più importante, un assetto flessibile permetteva alle unità combattenti di prendere in modo relativamente libero le decisioni che si fossero rese necessarie in base alle circostanze, senza dover continuamente fare riferimento alla gerarchia e senza dover attendere istruzioni. Si considerano le unità che operano a livello locale come meglio in grado di giudicare le proprie azioni di quanto lo siano i loro capi a Beirut, e si conferisce loro l’autorità per farlo.
Le doti di leadership, che sono fondamentali in una struttura che delega tanta responsabilità ai comandanti delle singole formazioni, nella dottrina di Hezbollah vengono considerate una qualità innata dell’individuo: essere un capo è sostanzialmente una questione di carisma personale e di tratti del carattere come l’integrità, la sincerità e l’affidabilità, che infondono fiducia negli altri. Esiste comunque un’altra indiscutibile qualità necessaria ad un capo militare, che il movimento tiene in grande considerazione: la capacità di mobilitare, di incantare un individuo o una comunità. In un certo senso, quello che conferisce alle doti di leadership una sorta di tocco mistico.
Al ruolo del capo nella mobilitazione e nell’instaurazione di una coscienza rivoluzionaria nel popolo viene attribuita una significatività enorme. I discorsi di Sayyed Hassan Nasrallah vengono ascoltati con attenzione estatica nel mondo musulmano ed arabo. Viene considerato come uno dei migliori oratori, lui che utilizza un’attenta combinazione di stili che unisce il linguaggio dell’uomo della strada a contenuti filosofici ed intellettuali. I suoi discorsi hanno anche un’altra caratteristica distintiva: sono pieni di realismo, e non vi viene millantato alcun traguardo. Nasrallah spiega parla con attenzione di politica, e poi si dispone a rispondere con franchezza alle critiche; è praticamente l’unico in tutto il mondo arabo ad adottare questo stile.
A livello dei quadri l’accesso alle posizioni di comando avviene tramite un processo di selezione tra pari, in cui sono i compagni ad identificare in qualcuno le qualità necessarie, più che con un processo di selezione dall’alto basato sulle competenze manageriali secondo l’uso occidentale. “I comandanti devono sviluppare le qualità di carattere degli uomini che guidano, stabilire una struttura di valori che responsabilizzi i giovani per le loro azioni e rendere più forte la comunità”; così ha detto un ex comandante di Hezbollah con esperienza nel campo dell’addestramento della milizia. Questo assunto contrasta con la definizione occidentale di leadership, che rimanda piuttosto al possesso di conoscenze, addestramento e competenze professionali come caratteristiche necessarie per accedere a ruoli di comando.
Il conflitto in Libano nell’estate del 2006 sfociò nel conseguimento della superiorità sul terreno da parte di Hezbollah, un movimento islamico di primo piano, a spese di una forza militare superiore. I successi nell’intelligence e la vittoria politica ottenuta hanno dimostrato che Hezbollah ha utilizzato con successo una strategia di guerriglia pianificata con attenzione confrontandosi con un nemico palese e ben identificabile, utilizzando armamento pesante su aree geograficamente molto estese e per un periodo di tempo sufficientemente lungo ad assicurare il raggiungimento degli obiettivi.  
Hezbollah nel 2006 ha fornito il modello per il prossimo sviluppo della guerra asimmetrica e lo ha applicato strategicamente su una zona vasta, con le unità combattenti che di volta in volta si disimpegnavano dalla zona di combattimento insieme alle loro armi, solo per ricomparire in villaggi che le truppe israeliane pensavano di aver conquistato e ricominciare ad attaccare gli israeliani da dietro le loro linee. In passato, l’operato di Hezbollah sarebbe stato caratterizzato dal fattore sorpresa, che è un elemento fondamentale della strategia del movimento, e da prese di contatto col nemico di portata limitata, sia dal punto di vista geografico che dal punto di vista della loro durata nel tempo.
La strategia del 2006 era semplice: ignorare la superiorità aerea occidentale. Fin dai tempi del ritiro israeliano nel 2000, Hezbollah aveva cominciato ad approntare una rete di gallerie sotterranee e di postazioni per eludere l’attesa campagna di bombardamenti aerei tramite bunker sotterranei fortificati collocati fino a quaranta metri sotto il livello del suolo. Al termine dell’iniziale attacco aereo, non importa quanti giorni fosse durato, i miliziani uscivano dai bunker sotterranei ed organizzavano un prolungato attacco contro il nemico con razzi e missili.
Il concetto fondamentale, qui, è prolungato. Nessuno si aspettava che razzi e missili causassero danni veri e propri ad Israele, o che colpissero gli israeliani a livello psicologico: tuttavia un attacco prolungato avrebbe avuto un suo impatto sul morale, nonostante infliggesse danni autentici in misura molto ridotta13. Hezbollah aveva calcolato che dal momento del fuoco fino all’identificazione delle batterie da parte dell’aeronautica israeliana e all’impiego di caccia contro di esse trascorrevano novanta secondi.  Con anni di assiduo addestramento le squadre di Hezbollah addette ai lanciarazzi avevano imparato a schierare, fare fuoco e nascondere al sicuro i lanciatori mobili in meno di sessanta secondi, col risultato che né l’artiglieria né gli attacchi aerei potevano fermare il continuo lancio di razzi di Hezbollah contro Israele. Nel corso della guerra Israele ha dimostrato di non essere in grado di indebolire neppure in misura minima lo schieramento di missili e di razzi di Hezbollah.
Lo scopo degli attacchi prolungati con i missili e con i razzi era quello di obbligare l’avversario, frustrato dai continui fallimenti dei bombardamenti destinati a fermare questi attacchi, a schierare truppe sul terreno. Nel corso di quest’ultima e critica fase dei combattimenti, con i soldati nemici allo scoperto, una ben addestrata e ben comandata forza guerrigliera dotata di una perfetta conoscenza del terreno adatto avrebbe potuto, come infatti accadde, infliggere enormi danni al moderno apparato militare israeliano e finire per sconfiggerlo.
Non erano i carri armati dell’esercito israeliano a proteggere la fanteria nel terreno collinoso del Libano meridionale; era piuttosto la fanteria, erano gli uomini appiedati e allo scoperto, che dovevano -rovesciando la situazione che sarebbe normale per l’utilizzo di mezzi corazzati- proteggere i carri dai micidiali attacchi di Hezbollah condotti con missili lanciati a mano. Israele ha perso in questo modo molti mezzi corazzati e molti uomini.
Il prezzo che Hezbollah ha dovuto pagare è stato rappresentato dai bombardamenti aerei che hanno causato gravi danni alle infrastrutture civili e fatto vittime civili in tutto il Libano; ma la comunità sciita del Libano meridionale ha dimostrato di avere le risorse essenziali per colmare le perdite subite. Tra i combattenti di Hezbollah ci sono state in paragone poche vittime, forse meno di duecento uomini.
Questo risultato è stato reso possibile dall’adozione da parte di Hezbollah della rete orizzontale fatta di unità autonome che utilizzano deliberatamente sistemi a bassa tecnologia, completata dallo schieramento episodico ed inatteso di piccole unità specializzate e dotate di armi ad alta tecnologia per mantenere alti il morale e la motivazione dei combattenti. Ma è dovuto anche alle competenze di Hezbollah nel campo dell’intelligence e della propaganda; molti giornalisti e commentatori israeliani hanno pubblicamente affermato durante il conflitto che preferivano fidarsi dei resoconti degli aventi rilasciati da Hezbollah piuttosto che di quelli delle Forze di Difesa dello Stato di Israele.
Nonostante i danni sofferti alle infrastrutture libanesi e le molte vittime civili, il leader di Hezbollah Sayyed Hassan Nassrallah riassunse la sua concezione degli esiti della guerra in un discorso in cui, il 25 settembre 2006, celebrava la vittoria. “Oggi, tutti voi state mandando un messaggio politico e morale estremamente importante e serio… al mondo intero… non sottovalutate la vostra vittoria… la vostra fermezza e la vostra resistenza hanno messo allo scoperto gli Stati uniti, ed hanno alzato il livello di consapevolezza nei popoli di tutto il mondo”.


Il valore della resistenza e della lotta

La vittoria di Hezbollah, secondo l’opinione del suo capo, ha mostrato al mondo musulmano che la strategia impiegata dai governi arabi e musulmani di orientamento filooccidentale –una politica che viene considerata assecondare gli interessi statunitensi- basata sull’assunto che non esiste altra alternativa al mostrare condiscendenza davanti alla potenza politica e militare degli Stati Uniti, non è l’unica possibile.
Hezbollah, la resistenza in Iraq ed in Afghanistan e, in un diverso contesto, Hamas, hanno mostrato ai musulmani che l’alternativa esiste e che è rappresentata dalla sfida armata intesa come parte di una resistenza più ampia, concretizzata in modo asimmetrico a fronte del soverchiante potere militare dell’Occidente in fatto di armamenti convenzionali.
La vittoria di Hezbollah costituisce un elemento di questa resistenza asimmetrica -un caso di successo militare da prendere ad esempio- capace di infliggere sconfitte all’egemonia militare occidentale nella regione, e quindi di minarne anche la statura politica e la narrativa stessa.
La filosofia di resistenza fatta propria da Hezbollah deriva dagli stessi principi che sottendono il suo programma di attività sociali:
Quando parliamo di giustizia, di diritti umani o di welfare dobbiamo fare caso alla definizione ed alla prospettiva che utilizziamo per accostarci all’argomento. Dobbiamo mostrare come l’Islam assegni a questi concetti un valore ed una importanza che sono intrinseci.
L’Islam considera questi valori come valori essenziali. Il rispetto dell’uomo, della sua dignità e della sua vita sono tutti aspetti dell’Islam, non sono strumenti che i politici possano utilizzare per controllare gli uomini. 
Pensiamo che esista una marcata differenza tra la visione d’insieme occidentale e quella islamica. Nel pensiero occidentale la politica e la governabilità sono considerati dei fini, ed i valori sono i mezzi attraverso i quali si esercita la politica. Le cose nell’Islam stanno in modo opposto: è la politica a dover mettersi a servizio della diffusione dei valori umani e dell’etica.
Se percorriamo la storia a ritroso e leggiamo qualcosa sul Profeta e sulla sua famiglia, comprendiamo che non c’era nulla di più estraneo a loro del sacrificare i valori in nome della conquista del potere. Gli sciiti ed i musulmani in generale considerano al giorno d’oggi personaggi come l’Imam Ali o l’Imam Hussein come dei modelli per i movimenti rivoluzionari, perché anteposero i valori umani alle questioni politiche.
Oggi la ricorrenza dell’Ashura (la commemorazione annuale degli sciiti del martirio dell’Imam Hussein) fornisce ad ogni musulmano un modello ed una via plausibile per resistere e lottare contro l’ingiustizia. Questo stimolo nasce dal fatto che Ashura insiste sul fatto che la dignità umana ed i valori umani sono superiori a qualunque altra cosa. Il messaggio dell’Ashura è che i valori umani sono a tal punto di importanza vitale che un capo come l’Imam Hussein, il nipote del Profeta, si era sacrificato per essi rifiutando qualunque compromesso sui principi, anche a costo di dover affrontare la morte.
Dietro la resistenza e la lotta, nell’Islam, ci sono esattamente questi valori nobili; a nessun livello l’uomo ed i suoi valori possono essere ignorati. Sono queste considerazioni a determinare il quando ed il dove un musulmano possa andare in guerra, ed anche a definire le condizioni in base alle quali si può fare pace. Le decisioni sulla guerra e sulla pace tengono questi valori in attenta considerazione. La questione del quando fare pace e del quando andare in guerra, dunque, non va considerata un mero espediente politico: è piuttosto una questione di principi e di dottrina.
Il nostro concetto di martirio andrebbe inteso più o meno allo stesso modo. Il martirio non è la stessa cosa del commettere suicidio. Quando sono in gioco i nostri valori esenziali e i nostri principi, o quando vengono infranti, offriamo il nostro corpo in sacrificio; è il suo spirito a rimanere di guardia ai nostri valori.
I gruppi jihadisti come Al Qaeda non mettono in atto alcuna mobilitazione popolare di questo genere. Il loro modo di costruire una consapevolezza, basato “sullo shock e sull’indignazione” non contempla alcun lavoro formativo sul popolo e mira a favorire il senso di ostilità e soverchianti sentimenti di rabbia e di vendetta anziché l’atteggiamento “di consapevolezza, non di ostilità” che Sayyed Hassan Nasrallah indicò come il risultato che desiderava emergesse dal conflitto sostenuto da Hezbollah nell’estate del 2006.
Le tattiche di Al Qaeda, che rappresentano un riflesso del suo senso di impotenza a livello globale, vengono condannate come ingiuste dalla schiacciante maggioranza dei musulmani. Le azioni di Al Qaeda, che per loro stessa natura possono portare a risultati imprevedibili compresi quelli controproducenti, hanno fatto vittime per lo più innocenti, le cui morti vengono considerate moralmente ingiuste dalla grande maggioranza dei musulmani.
Hezbollah invece si è confrontato direttamente con una macchina da guerra occidentale di tipo convenzionale ed ha vinto, cosa che come spesso affermano i suoi critici Al Qaeda non è fino ad oggi riuscita a fare. Il fatto che un simile risultato sia stato raggiunto da un movimento politico di primo piano che si presenta alle elezioni, deve rendere conto al proprio elettorato e mostra un autentico coinvolgimento per quanto riguarda le condizioni di vita dei musulmani -a differenza di certi gruppi jihadisti- non è passato inosservato agli occhi del pubblico.
I movimenti come Hamas e Hezbollah considerano i risultati del genere cercato da Al Qaeda incontrollati, incontrollabili e capaci di scatenare esplosioni di violenza puramente emotiva e scriteriata di carattere puramente distruttivo, nemiche di ogni miglioramento per la società. Li vedono come quel tipo di rivoluzione incontrollata che finisce con la rovina dei suoi stessi protagonisti: tattiche che sono una ricetta perfetta per scatenare tumulti e conflitti in mezzo ai musulmani.
Esistono poche questioni più delicate, per gli sciiti, dell’emergere di gruppi sunniti radicali che li trattano da eretici. Gli sciiti sono forse il quindici per cento di tutti i musulmani al giorno d’oggi, e dunque si sentono particolarmente vulnerabili a cospetto di quei sunniti che li considerano infedeli passibili di morte.


La guerra ideologica interna

Il rifiuto dell’autorità sunnita da parte degli sciiti dopo il martirio di Hussein nel 680 ha portato alcuni sunniti a bollare quella sciita come un’interpretazione errata dell’Islam, ed appena pochi anni dopo la morte di Ali una setta dell’Islam chiamata Khawarji aveva già cominciato a massacrare ogni sciita in cui si imbatteva. I capi politici sunniti in ogni caso temevano la minaccia ideologica degli sciiti assai meno di quanto ne temessero quella politica.
I califfi e i re imprigionarono ed uccisero gli imam sciiti; i giuristi sunniti furono incoraggiati a formulare un’ortodossia sunnita che marginalizzasse gli sciiti e tendesse alla loro esclusione, e a limitare la loro attrattiva. Verso la fine del X secolo gli sciiti venivano uccisi, e perfino bruciati vivi. Quando le forze turco-bizantine invasero il Medio Oriente nel 971, la prima reazione dei sunniti fu quella di incolparne gli sciiti. Le abitazioni sciite vennero incendiate e gli abitanti aggrediti ed uccisi. A metà del XI secolo la persecuzione degli sciiti era diventata un’abitudine, uno schema comportamentale che si sarebbe ripetuto attraverso i secoli fino ai giorni d’oggi.
Oggi il sentimento antisciita è diffuso in modo particolare in mezzo a certi gruppi sunniti di orientamento salafita ed in Al Qaeda. Alcuni di questi movimenti jihadisti antisciiti invitano esplicitamente dai loro siti web i musulmani ad uccidere gli sciiti, ed anche ad assassinare quei sunniti che, come i capi di Hamas, hanno rapporti con movimenti sciiti come Hezbollah, che i siti definiscono solitamente come “il Partito del Diavolo”.
Un appartenente alla direzione di Hamas picchiò con forza il pugno sul tavolo per sottolineare questo punto: “Se Osama bin Laden per voi occidentali è stato un disastro, per noi è stato una catastrofe”.
Le condizioni dei musulmani sono ovunque peggiorate a causa della “guerra al terrore”. Le cose vanno peggio per i musulmani al Cairo come a Parigi, e nei territori palestinesi Israele si è sentito autorizzato a scatenare contro di noi massicce azioni militari.
Sayyed Nawaf Mousawi, uno dei principali strateghi politici di Hezbollah, è stato molto esplicito a proposito del pericolo che i gruppi jihadisti di ispirazione sunnita come Al Qaeda possono costituire per i movimenti sciiti come Hezbollah. Notò che Hezbollah era molto vulnerabile a quello che definiva come “una tendenza khawarji”.
Sayyed Mousawi sottolineava il fatto che molti moderni pendant di questa antica tendenza all’odio settario e sanguinario avevano “marchiato i leader di Hezbollah come destinati all’assassinio”. Sayyed Mousawi ha anche detto che simili movimenti, Al Qaeda compresa, “rappresentano davvero un grosso pericolo per il mio popolo e per la popolazione palestinese, più di quanto non lo siano per gli interessi occidentali, per quanto grande sia la minaccia nei loro confronti. Il pericolo vero è questo, questo è il pericolo di cui si deve essere consapevoli”.
Il fatto che gli sciiti vengano presi di mira, ha spiegato Sayyed Mousawi, è dovuto al paradosso che “gli jihadisti pensano che siamo troppo moderati, che desideriamo troppo prendere parte ai processi democratici che loro considerano soltanto un altro complotto colonialista ordito dagli americani per avere la supremazia nella regione”, mentre gli americani attaccano a loro volta perché “ci considerano una minaccia per la loro egemonia”.
“Per quale altro motivo gli Stati Uniti dovrebbero dedicare al Libano tanto tempo, tanta attenzione e tanti sforzi, se non per l’esistenza di Hezbollah?” ha chiesto un capo di Hezbollah. “Se Libano significasse soltanto Siniora, Jumblatt e Geagea [tutti capi libanesi appartenenti a diverse confessioni religiose] gli Stati Uniti se ne occuperebbero, anche soltanto un minimo?”
Le preoccupazioni degli Stati uniti per Hezbollah sono le stesse preoccupazioni che molti paesi europei hanno espresso e derivano dalla stessa ragione: Hezbollah viene visto come lo vede lo Stato di Israele. I capi di Hezbollah dicono e ripetono che quando degli europei vengono a conferire con loro, le loro argomentazioni restano invariabilmente centrate su Israele. Visitatori del genere definiscono sempre Hezbollah come “l’altro” che si contrappone ad Israele. Di conseguenza, concentrano il loro impegno sul disarmo del movimento e sul tentativo di addomesticarlo e di indebolirlo tentando di subordinare tutte le sue branche ad un rafforzato governo centrale di Beirut.
E’ una storia già vista: una Turchia che si ripete. In Turchia ed in altre parti del mondo musulmano le istituzioni dell’Islam sono state “nazionalizzate” e coloro che vi ricoprivano delle cariche sono diventati dei servitori civili e dei docili dipendenti del governo, dopodichè hanno tranquillamente accettato di entrare in sonno. Come abbiamo visto nell’ultimo capitolo, lo stato nazione è sempre stato considerato dall’Occidente come uno strumento tramite il quale rafforzare le proprie istanze.
Il problema è semplicemente il fatto che questo modello in Libano non ha mai funzionato. Il governo libanese è sempre stato frutto di accordi di spartizione del potere concepiti come un sistema di contrappesi tra il peso e la forza di ciascun singolo gruppo confessionale. Questo è uno dei motivi per cui il Libano presenta una storia tanto lunga di interferenze esterne: ogni volta questo o quel gruppo confessionale ha tentato di far valere la propria posizione contro quella degli altri chiamando in soccorso questo o quel protettore esterno. Di casi del genere è fatta la storia degli ultimi cinquecento anni ed è poco probabile che le cose cambino per quanto prevedibile in futuro.
L’abitudine di considerare Hezbollah come “l’altro” che si oppone ad Israele ha chiuso all’Occidente la strada verso ogni più profonda comprensione di questo movimento, che rappresenta l’avanguardia del pensiero sull’evoluzione delle comunità musulmane. Se i politici fossero capaci di vedere un po’ più in là del loro naso osserverebbero, come siamo andati qui illustrando, una comunità islamica che funziona come modello sperimentale del modo in cui una comunità musulmana compassionevole, organizzata secondo giustizia ed equità sia ancora in grado di funzionare anche in uno stato come il Libano, che è dominato dai valori occidentali.
Nel microcosmo rappresentato dall’Islam sciita in un Libano occidentalizzato, sta emergendo l’ideologia, la struttura sociale ed il contenuto umano di qualcosa che potrebbe davvero dare forma, in futuro, al macrocosmo. Si tratta di un processo che ha condotto i capi di Hezbollah a ridefinire il significato di comunità, di cultura, di attività economica e di individualismo secondo modalità nuove; Hezbollah rappresenta un esperimento continuo all’interno di un Libano più grande, e al tempo stesso permette di osservare uno dei modelli più creativi di tutto il mondo musulmano. In prospettiva, i suoi rapporti con Israele possono diventare qualcosa che, nel contesto di una vicenda di una portata tanto maggiore, riveste l’importanza di una nota a piè di pagina.  


1 Albert Hourani, ‘From Jabal Amil to Persia’, in H.E. Chehabi (ed.), Distant Relations, London: I.B. Tauris con il  Centre for Lebanese Studies, Oxford, 2006, p. 52.
2 Ibid., p. 64.
3 Augustus Richard Norton, Amal and the Shi’a, Austin: University of Texas Press, 1987, p. 7.
4 Rania Maktabi, ‘The Lebanese Census of 1932 Revisited: Who Are the Lebanese?’, British Journal of Middle Eastern Studies, 26(2), 1999, p. 219.
5 Elizabeth Picard, ‘The Lebanese Shi’a and Political Violence in Lebanon’, in David Apter (ed.), The Legitimization of Violence, London: Macmillan, 1997.
6 Chiclet è una marca di gomma da masticare da poco prezzo, venduta agli angoli delle strade, il più delle volte da bambini.
7 Souad Joseph, ‘Politicisation of Religious Sects in Borj El-Hammoud’, tesi di dottorato, Columbia University, 1975, p. 210; citato in Richard Augustus Norton, Amal and the Shi’a.
8 Mohammad Fadlallah, Al-Islam wa Muntiq al-Quwwa (Islam and the Logic of Force), Beirut: al-Mu’asasah al-Jam’iyah li al-Dirasat was al-Nashr, 1976.
9 Musa al-Sadr in un discorso del 1975.
10 Timur Goksel, citato in Hala Jaber, Hezbollah, New York: Columbia University Press, 1997, p. 28.
11 Michael Bonner, Jihad in Islamic History: Doctrines and Practice, Princeton, NJ: Princeton University Press, 2006, p. 100.
12 Sayyed Hassan Nasrallah, in un discorso pronunciato il 31 gennaio 2007 a Beirut.
13 Alastair Crooke e Mark Perry, ‘How Hizbullah Defeated Israel’, Asia Times, Ottobre 2006, URL (consultato nel novembre 2008): http://www.atimes.com/atimes/others/hezbollah.html

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