martedì 7 agosto 2012

Alastair Crooke - Resistenza. Aspetti essenziali della Rivoluzione Islamica - Parte II, Capitolo 5 - Dio è un liberale

Karl Popper

L’idea di società aperta, dalla quale provengono le rinvigorite invocazioni per la libertà e su cui si giura quanto sia futile l’opposizione alla visione occidentale del mondo, è nata in origine da una dissertazione sui comportamenti organizzativi delle api, delle formiche e dei gruppi di lontre.
A monte di tutto questo c’è Henri Bergson, un filosofo evoluzionista che ha cercato di capire in che modo le necessità dell’evoluzione della specie hanno influito su comportamenti ed istinti, e come questi ultimi sono stati modificati dall’intervento dell’autonomia della specie e dall’indipendenza. Quando Le due fonti della morale e della religione fu pubblicato, nel 1932, propose l’esistenza di due diversi tipi di organizzazione sociale in natura.
Uno era quello dell’alveare o del formicaio. Stava ad indicare una comunità guidata per intero dagli istinti: non esiste nulla di volontario in queste società. Ogni individuo, semplicemente, ricopre il ruolo che gli spetta. Nel mondo animale ci sono comunque, suggeriva Bergson, forme di società basate sugli istinti meno estreme di queste. Le lontre vivono in gruppi e seguono per lo più il loro istinto, ma dispongono di molta più autonomia rispetto alle api ed alle formiche. Bergson ipotizzò che gli esseri umani devono aver vissuto più o meno in questo modo, prima dello sviluppo della coscienza umana. Definì questo tipo di società intellettuale come “società chiusa”.
Certo, le persone non sono formiche: possiedono una volontà individuale, e questa le porta a “scegliere”: se comportarsi in un certo modo piuttosto che in un altro. Nell’analisi di Bergson, la religione assume il ruolo di una sorta di habitus mentale che lega l’intelligenza umana alla ricerca istintiva della solidarietà e dei legami sociali. Secondo Bergson essa è la voce dell’istinto che risuona nella coscienza1. Si tratta di quella che l’autore definisce “religione statica”: quella che in sostanza tiene le persone al loro posto.
Bergson considerò che esiste un altro aspetto della natura umana, aperto all’apprendimento ed al cambiamento, e che il cambiamento allontana le società umane dal mondo chiuso delle tradizioni e dei comportamenti consolidati. Bergson definì la “società aperta” come quel tipo di società in cui questa spinta umana verso il cambiamento può trovare piena soddisfazione. In una società aperta, vengono meno i contesti di coesione tradizionali. I costumi perdono il loro potere di coercizione nei confronti dei singoli individui. Le donne possono fare cose un tempo riservate formalmente agli uomini, i lavoratori non devono più pietire la benevolenza dei signori feudali, e gli individui sono esentati dall’ingombro dei ruoli tradizionali e dei legami familiari.
Karl Popper fece propria la potente metafora di Bergson nella redazione di La società aperta ed i suoi nemici, un’opera destinata ad avere un’amplissima influenza, che fu pubblicata nel 1945.  Questo fu uno scritto filosofico inconsueto perché ebbe un’eco assai più vasta di quella che è normale attendersi per un’opera di questo genere. Ha in gran parte fornito la definizione della maniera in cui gli americani e molti europei hanno considerato e considerano, fino ai nostri giorni, le società in cui vivono; in modo ancora più significativo, esso ha contribuito a definire i modi in cui essi si raffigurano le altre società.
L’iconografia proveniente dal regno animale usata da Bergson è diventata l’elemento centrale della filosofia della storia di Popper. La storia viene concepita come una serie di tentativi posti in atto dalle forze della reazione di inibire l’affermarsi di una società aperta, tramite le armi della religione e dei valori tradizionali, categoria in cui Popper comprendeva i valori sociali e culturali di una società.
La storia, pensa Popper, è stata in buona misura un susseguirsi di sforzi, più spesso coronati da successo che no, dei difensori della società chiusa di inibire le società aperte. Popper non apprezza la presa di distanza dell’Atene di Platone dall’elementare, anarchico e commerciale odoraccio che emanava dal porto perché la considera solo un caso in mezzo ad una lunga serie di risposte reazionarie, che passano dal colpo di coda hegeliano contro la Rivoluzione Francese e arrivano al marxismo dei suoi tempi: tutti tentativi di chiudere le esperienze di società aperta.
Il messaggio era chiaro. Si trattava di una riformulazione in chiave laica del mito anglosassone della libertà, e della sua cultura di competizione costruttiva cui l’Inghilterra sarebbe debitrice delle sue libere istituzioni. Cromwell aveva lottato contro re reazionari e contro l’assolutismo economico in nome della società anglosassone, intesa come aperta; Popper cercò di trasportare la vecchia analogia sassone all’interno del contesto scientifico del darwinismo evoluzionista, allo scopo di proteggere la società aperta dal marxismo laico.
Scrivendo all’inizio della Guerra Fredda, Popper identificò nel marxismo le dottrine del determinismo storico che esso aveva desunto da Hegel, in cui Popper identificò un convinto avversario dell’idea di libertà umana. Marx e la Russia vennero relegati al ruolo di minaccia reazionaria nei confronti della società aperta, concetto che fu poi Reagan a fare proprio, e a riconnetterlo alla tradizione apocalittica tipica del cristianesimo e del manicheismo, toccando un nervo scoperto negli Stati Uniti quando definì l’Unione Sovietica come un “impero del male” intento a cercare di distruggere la libertà.
Il tutto si presentava come l’aggiornamento di una narrativa che, nel far propria la scienza dell’evoluzione della specie, aveva nascosto i propri riferimenti antecedenti, che si trovavano nel retaggio protestante che contemplava un ordine naturale che sorge spontaneamente dalla competizione dei mercati. A molti americani gli scritti di Popper permisero di identificare il sistema economico basato sul libero mercato sia come il prodotto sia come il produttore della società aperta. Essi videro anche nella religione statica una forza minacciosa nei confronti della loro società, e tramite Popper intesero i valori culturali “tradizionali” come parte di una costellazione di dinamiche istintuali che impediva agli uomini di abbracciare una società dinamica.
Da questa concezione derivò la dicotomia, di stampo laico-liberale, tra coloro che vengono dominati -ed il cui comportamento viene controllato- dalla loro cultura di appartenenza e coloro che, indicati generalmente come coloro che vivono in una società aperta, riescono ad elevarsi al di sopra di essa e sono in grado di fare le loro scelte. Questa dicotomia ha avuto delle profonde implicazioni per i musulmani che vivono in Occidente, cosa che traspare dal come esso insiste sulla depoliticizzazione della cultura islamica intesa come forza collettiva, e sulla sua reinterpretazione come scelta personale, come un qualcosa cui aderire oppure no.
Walter Russell Mead, in God and Gold, ha così riassunto quella che molti occidentali hanno considerato, partendo da Popper, come una futile opposizione all’economia del libero mercato:
Come un meccanismo economico, il libero mercato arricchisce e potenzia le società che se ne avvalgono. Le società chiuse che cercano di remare contro corrente ne risultano indebolite, impoverite, ed alla fine sopraffatte. Con lo sviluppo del capitalismo, qualcosa di nuovo è accaduto: la storia ha cessato di essere un susseguirsi di aperture cui seguono le rispettive reazioni di chiusura. E’ divenuta invece la storia di un continuo spostamento verso Occidente, e dell’abbattimento di ogni muro costrittivo2.
L’altro scopo che Popper si prefiggeva nel suo libro era quello di suggerire che il modernismo laico, da solo, non era sufficiente a garantire lo stabilirsi di una società aperta: Marx può aver contemplato aspirazioni alla libertà ed alla giustizia, ma queste non potevano mitigare gli aspetti “chiusi” di un sistema comunista o totalitario. Soltanto le scelte razionali e compiute senza costrizioni da uomini e donne, interagendo nel loro insieme attraverso i meccanismi del libero scambio, potevano portare verso una “vita illuminata e degna di un essere umano in sempre maggior misura” e verso la società aperta. In breve, libertà e democrazia significavano adozione esclusiva di questo modello.


L’ideologia della società aperta

I concetti di società aperta e di libero mercato si legarono  inestricabilmente l’uno all’altro nella mentalità della maggior parte degli americani e degli europei e sarebbero diventati un refrain familiare a sostegno del progetto di una società aperta avente il fine ultimo della redenzione umana, nel successivo periodo di reviviscenza neoliberale in Gran Bretagna ed in America.
Erano queste le linee, sulle quali si adattavano i principi guida dello stato nazione, che dominavano l’immaginario americano nell’epoca della Guerra Fredda. Erano un qualcosa che avrebbe esercitato una potente presa sull’immaginario occidentale, ma che al tempo stesso non aveva alcuna attrattiva per gli islamici, che potevano identificare con chiarezza le sue origini nel pensiero cristiano.
Gli islamici videro in questo modo di pensare la stessa incompatibilità di fondo che secondo la loro analisi presentava il modello economico occidentale, come evidenziato nel precedente capitolo. Gli assunti di base occidentali derivavano tutti dalla credenza che il perseguimento degli interessi privati in una società individualizzata venisse incontro nella miglior maniera possibile alle necessità degli esseri umani. Detto in altre parole, gli islamici erano con tutto questo in profondo disaccordo.
I principi che Popper aveva sintetizzato, tuttavia, già erano stati fatti propri dalla struttura e dalle istituzioni dello stato nazione. Certo, i coloni americani dei tempi dell’indipendenza non avevano potuto contare sul beneficio delle opere di Popper, ma le loro idee riflettevano il pensiero che senza soluzione di continuità era partito dalle lotte protestanti contro il concetto di comunità religiosa e che era giunto, attraverso il puritanesimo inglese, a quei discendenti dei puritani che erano i primi coloni in America.
L’affondare le radici nella lotta tra i protestanti e l’estesa comunità consacrata rappresentata dalla cristianità è qualcosa di importante, perché da questo a loro volta nascono quegli impeti nazionalisti che hanno sconciato il diciannovesimo ed il ventesimo secolo nel modo che sappiamo: i passaggi culturali che portarono allo scontro in quei lontani tempi contenevano in nuce i nazionalisti militanti dall’esteso potenziale distruttivo che sommersero l’Europa nei secoli a seguire.
Uno di questi processi era rappresentato dalla necessità di inventarsi una “sovranità dell’individuo” che sostituisse quella di Dio, che stava al vertice della comunità religiosa, e che non era più adatta ad una lotta protestante che avesse per nemico proprio la comunità consacrata. Fu questa trasformazione, più di ogni altra, a rendere facile l’emersione di uno stato nazione forte, centralizzato e dotato di scopi determinati, centrato su un’identità etnica e sull’uso di una lingua volgare, non appena il Sacro Romano Impero si dissolse in stati nazione laici al tempo del Trattato di Westfalia.
Un altro di questi processi fu rappresentato dall’entusiastica adozione del capitalismo, e dalla necessità del capitalismo stesso che venissero aperti nuovi mercati da parte dei protestanti; un terzo processo fu la separazione da una più ampia comunità consacrata causata dalla personalizzazione, di stampo protestante, del rapporto con Dio e dalla deliberata adozione di un forte individualismo.
Questi processi aiutarono l’impeto nazionalista occidentale a prendere forma, e la connessione di questo impeto al nazionalismo ha aiutato anche il consolidamento di una risposta islamica allo stato nazione.
Thomas Jefferson, al momento di fornire il proprio contributo alla bozza della Dichiarazione d’Indipendenza americana del 1776, fece propria l’idea puritana che la natura umana avesse una conformazione tale che un ordine intrinsecamente buono si sarebbe affermato con naturalezza, presentandosi sottoforma di processo storico interpretabile come la progressiva affermazione delle scelte libere e consapevoli di una maggioranza preparata. I diritti umani, secondo Jefferson, nascono da questo ordinarsi secondo natura dei rapporti umani. Questo concetto avrebbe avuto un ruolo centrale nel dare forma alla democrazia ed alla persistente convinzione delle successive generazioni di americani secondo cui lo stato nazione America sarebbe stato in grado di fornire una ricetta di successo per la pace e la libertà in tutto il mondo3.
Il sistema di controlli e di equlibri fra le tre branche del governo, tra il governo federale e quelli dei singoli stati, e la rappresentazione delle diverse classi di cittadini e dei loro diversi interessi nella Camera dei Rappresentanti e nel Senato, furono un tentativo di ricreare in politica, e nelle istituzioni governative, un simulacro dei rapporti e degli scambi competitivi tipici dei meccanismi economici del libero mercato. Jefferson era convinto che la competizione tra istituzioni non avrebbe portato caos e conflitti, ma ordine ed armonia.
Si trattava della competizione sregolata delle tribù germaniche dell’epoca precedente quella anglosassone, riprodotta in forma istituzionale. Era anche un restringimento ed una cristallizzazione del concetto di coscienza nazionale ad un àmbito molto limitato.
Il cristianesimo aveva diffuso la credenza che la storia fosse un processo continuo destinato ad una fine predeterminata, ed è dal cristianesimo che nacque la certezza secondo la quale, negli ultimi giorni, la storia avrebbe giunta ad una specie di punto morto. Pensatori laici come Marx e Francis Fukuyama hanno fatta propria questa prospettiva teleologica, che sostiene il loro parlare di “fine della storia”.
Dietro questa concezione sta l’assunto secondo il quale la storia non va compresa in termini di cause e di eventi, ma riguardo al suo scopo ultimo, che è la salvezza dell’umanità. Questa idea ha fatto il suo ingresso nel pensiero occidentale soltanto con il cristianesimo, e lo informa di se stessa dacché il cristianesimo esiste4.
Quando gli Americani cominciarono ad osservare la propria storia in questa prospettiva, la credenza in un destino manifesto che era stata formulata nel corso del diciannovesimo secolo divenne essa stessa parte di questo processo. L’idea di un salvatore messianico si trasformò nella credenza in un’America intesa come “nazione redentrice”, di una redenzione che si raggiungeva attraverso la volontà e le azioni umane5.
Tutto questo ha retto un potente tipo di fede, laicizzata nel XVIII secolo da pensatori positivisti che pensavano che la crescita della conoscenza fosse la forza trainante del progresso sociale e politico, e che tenevano nella massima considerazione la scienza e la tecnologia per la loro capacità di accrescere il potere dell’uomo.
L’azione umana, unita al pensiero scientifico, prospettava la promessa di rivelarsi una potenza capace di tali trasformazioni da ritenerla paragonabile all’evento apocalittico considerato dai cristiani come lo strumento in grado di trasformare radicalmente gli uomini.
Sotto questo nuovo credo il pensiero strumentale conobbe una vasta espansione. Cominciò a parere sempre più assurdo, per molte persone comuni in Europa ed in America che mentre la scienza e la conoscenza crescevano per importanza e per considerazione, si dovesse affidare la gestione dei tempi moderni ad una guida divina, o cercare l’aiuto nelle sacre scritture per mettersi ai comandi di un aereo, tanto per fare un esempio.
Questi teorici del positivismo pensavano che la scienza, più che la religione, avrebbe svelato i fini ultimi dell’agire umano, e che la ricerca condotta in modo scientifico avrebbe eliminato problemi sociali vessatori, risolto il problema della scarsità di risorse e creato un mondo migliore.
Per certi versi, tutto questo era vero. Per molti altri le cose andarono in modo opposto a quanto sperato: ai più grandi contributi all’avanzamento della conoscenza scientifica fecero da contraltare cose -come il concetto di riforma del mercato o quello di ingegneria etnica nelle società musulmane- che, come abbiamo visto nei precedenti capitoli, condussero direttamente al genocidio, al massacro, alla pulizia etnica.
Molti di coloro che avevano fatto proprio il concetto di disuguaglianza razziale, maggioritario e molto in voga nell’Europa del XIX secolo, pensavano che le riforme sociali potessero in qualche modo compensare gli svantaggi innati delle stirpi inferiori: in fin dei conti tutti gli esseri umani potevano partecipare alla civiltà universale prossima ventura, ma soltanto se avessero abbandonato i propri stili di vita, per adottare quelli europei6.
In questo modo, il credo positivista si auto incaricò dello sviluppo di una scienza della società; una scienza che doveva basarsi, e su questo i positivisti furono molto chiari, sulla fisiologia umana. I positivisti credevano che le caratteristiche fisiologiche delle persone potessero spiegare molta parte del comportamento umano.  Questo avrebbe portato allo sviluppo della pseudoscienza ottocentesca nota come frenologia, che pretendeva di essere in grado i identificare facoltà mentali e morali delle persone, nonché la loro tendenza a delinquere, tramite lo studio della forma del cranio. La metodologia fu poi perfezionata per servire nei tribunali, per decidere chi fosse colpevole e chi innocente.
La scienza della razza, gli esperimenti nazisti del ventesimo secolo, la frenologia, la psicologia freudiana, lo sviluppo industriale pianificato, le politiche marxiste-leniniste e la sterilizzazione dei pazienti psichiatrici: tutti concetti che in vari tempi sono stati indicati con entusiasmo come verità scientifiche. Le conseguenze di ciò sono state ad un tempo brutali e tragiche7.


Una razionalità capovolta

Nell’introduzione a questo libro abbiamo riportato le affermazioni del religioso iraniano che sottolineava, dal punto di vista islamico, la vastità e la gravità di queste conseguenze brutali e tragiche, delle quali i musulmani sono stati spesso le vittime. Disse che nelle tragedie che l’Occidente aveva scatenato in tutto il mondo e che sono prive di qualsiasi paragone con quelle del passato, esso Occidente aveva accampato a giustificativo per le proprie azioni la scienza e la conoscenza, le cose più sacre che l’uomo possieda. Quello che ha reso questi disastri i peggiori in assoluto, spiegò, era il fatto di essere conseguenza delle azioni di uomini politici che stavano facendo quello che credevano fosse giusto. Tutti erano stati commessi in nome della democrazia e del bene dell’uomo, diceva.
Il religioso specificò tre elementi che secondo lui erano responsabili di un autentico capovolgimento del pensiero occidentale, ridottosi a commettere, sia pure in nome delle migliori intenzioni, simili atti di terrore e di brutalità in nome della scienza, della democrazia e del progresso dell’essere umano. Tutto questo si era a suo dire verificato in primo luogo perché l’empirismo occidentale aveva fatto sì che gli esseri umani venissero trattati come meri oggetti singoli, che acquisiscono un loro significato soltanto se altri soggetti parimenti umani gliene assegnano uno.
L’empirismo occidentale ha ridotto gli esseri umani ad esemplari da studiare, ad oggetti da investigare in modo sempre più strettamente centrato e scollegato da tutto il resto. Comportandosi in questo modo l’Occidente si è perso per strada: non riesce più a concepire il singolo essere umano come parte dell’umanità, come parte della natura e dell’universo. Ha separato le esistenze singole rispetto ad un più ampio quadro di conoscenza. E questo ha spinto l’uomo a considerare la natura atomizzandola allo stesso modo, come un oggetto da controllare e anche da dominare.
Il secondo passo errato, disse, è stato il considerare in qualche modo rappresentativo di “valori reali” la soddisfazione individuale di brame ed appetiti. Questa concezione distorta è il punto cruciale in cui l’autentico essere si separa dalla sua innata conoscenza della morale. Anziché avvalersi della propria coscienza morale, fondata sui concetti di giustizia, di rispetto verso gli altri esseri umani e sul senso di equità, ogni individuo ha cominciato a ricostruire valori propri ed individuali, attorno alle proprie necessità e ai propri desideri.
Questo separa inoltre l’uomo da una cultura condivisa dotata di significato politico. Una società conforme a criteri di giustizia è una società che può creare una cultura condivisa di comportamenti disinteressati, ma il far diventare la cultura una questione di scelte personali intesa come modo di vivere, ovvero il trasformarla in un bagaglio individuale di pratiche e di credenze personali e private, la trasforma in senso letterale: le stesse pratiche e le stesse credenze individuali non sono più tenute a freno dal potere della comunità e diventano espressione di idiosincrasie private e personali. Non rappresentano più la pubblica rete di norme e di regole cui possa aspirare una collettività che coltivi un ethos comune.
Il terzo e più grave aspetto specificato dal religioso era che l’adozione universale in Occidente del pensiero strumentale che la scuola positivista ha così drammaticamente rappresentato, e di cui i Giovani Turchi si sono dimostrati a loro tempo così ferventi seguaci.
Gli islamici credono che la razionalità strumentale, in pratica il calcolo dei mezzi più efficienti per arrivare alla soddisfazione di un dato desiderio, abbia dominato il pensiero occidentale per tutto il corso degli ultimi trecento anni. Lasciare che la razionalità strumentale diventi la forma predominante della conoscenza  significa intraprendere un percorso che separa drasticamente il pensiero occidentale dalle radici che accomunano filosofia islamica e filosofia occidentale, e che affondano nella tradizione greca classica.
Quando gli islamici riconoscono la validità ed i meriti dell’approccio empirico occidentale affermano anche che se esso verrà usato come unica categoria di pensiero, escludendo il ricorso ad altre categorie, non farà che portare esattamente agli stessi eccessi che hanno macchiato la storia occidentale nel corso degli ultimi due secoli. Questo è vero soprattutto nei casi in cui è il nazionalismo militante a far proprio il pensiero strumentale. Gli islamici considerano questi eventi e le conseguenze sociali che ne sono derivate il frutto delle azioni di uomini in cui le competenze cognitive si sono atrofizzate fino a ridursi in tutto e per tutto al mero calcolo dei mezzi più efficienti per raggiungere un certo scopo. 
Il montare della reificazione scientifica della natura ha portato all’abbandono del pensiero deduttivo e di quello sillogistico; soprattutto ha separato gli esseri umani dal mito, dalla leggenda, dalla intuizione, dalla veggenza, dalla poesia e dalla capacità di meravigliarsi, che ci derivano tutte da percezioni che stanno al di là del tattile e del visivo e che ci offrono altre forme di conoscenza ed una diversa comprensione del mondo reale.
Secondo gli islamici le istituzioni e le strutture dello stato nazione di tipo occidentale riflettono il libero mercato ed il cristianesimo che stanno loro alla base; essi però notano anche che il pensiero razionale strumentale sta deformando e manipolando le persone in misura sempre maggiore. Gli schemi comportamentali sociali si evolvono in forme maggiormente istituzionalizzate di razionalità strumentale, che al tempo stesso imprigionano il comportamento, sia pure in modo impercettibile, e condizionano il modo che gli occidentali hanno di vedere il mondo. Il risultato è lo sviluppo di una mentalità empirica, calcolatrice ed utilitaristica. Si instaura un circolo vizioso, in cui la razionalità strumentale diventa totalizzante ed esclusiva.
Davanti all’instaurarsi del dominio della razionalità strumentale, i musulmani come il nostro religioso iraniano, si accorgono che la scienza e la tecnologia tanto celebrate dai positivisti per la loro capacità di espandere le potenzialità umane si deformano fino a trasformarsi in brama di dominio e di controllo. E’ ironico, ma tutto quello che all’epoca dei Lumi si pensava che avrebbe liberato l’essere umano dai limiti della sua natura si è deformato e ritorto contro l’uomo stesso. Man mano che l’economia di mercato di stile occidentale si imponeva, gli esseri umani si ritrovavano assoggettati a reti sempre più pervasive di disciplina amministrativa e di controllo, messe in opera da élite sempre più potenti e accentratrici.
Gli islamici considerano questi aspetti disumanizzanti, individualizzanti e polizieschi della razionalità strumentale come perdite di libertà, e come la via principale attraverso cui il dominio dell’uomo sull’uomo ha ottenuto legittimità. La loro analisi ha profondamente influenzato il concetto di che cosa sia la libertà, e di conseguenza ha provocato anche una riconsiderazione complessiva di che i vocaboli democrazia e stato nazione dovrebbero indicare.
La democrazia in Occidente è stata definita, per usare l’espressione di James Paine, come la istituzionalizzazione della mano invisibile, della quale lo stato nazione rappresenta l’espressione politica. In questi termini essa non è conciliabile con l’Islam, così come non lo sono i meccanismi del libero mercato: inconciliabili, perché non in grado di risolvere la tensione tra gli obiettivi individuali e gli obiettivi comuni degli esseri umani.
La Rivoluzione Iraniana ha dimostrato che esisteva per gli iraniani la possibilità di sfuggire al dominio della soggezione alle norme di ispirazione laica ed al pensiero strumentale di tipo occidentale. Gli iraniani furono liberi di rifarsi alla lunga tradizione della filosofia persiana e di imparare a pensare in una maniera differente. Ecco da dove deriva il senso di liberazione e di libertà che sconcerta tanto gli occidentali, che vedono nell’Islam un qualcosa di intrinsecamente destinato a mettere su ogni libertà una cappa di irrazionale fede religiosa. Per molti musulmani la rivoluzione rappresentò una rottura nei confronti della natura ricattatoria di un sistema di pensiero come quello occidentale che, in linea generale, escludeva la metafisica e qualunque altra categoria di pensiero dall’àmbito della sua modernizzazione “oggettiva” e laicizzata.


L’empirismo come ricatto

Uno scrittore e studioso islamico si è interessato al modo in cui lo strumentalismo occidentale ha oppresso e depauperato le produzioni letterarie e filosofiche islamiche nel corso degli ultimi duecento anni, fino ad epoca recente. Dal suo punto di vista la cosa peggiore è data dal fatto che sono stati gli stessi studiosi musulmani, catturati dalla frenesia di occidentalizzarsi, ad autoimporsi un simile “ricatto”.
Frantz Fanon, nella sua analisi della psicologia degli algerini colonizzati esposta in Pelle nera, maschere bianche descrive bene le condizioni degli scrittori musulmani in questo periodo:
Ogni popolo colonizzato -in altre parole ogni popolo nella cui anima è stato indotto un complesso di inferiorità con la morte e la sepoltura della sua cultura originale e locale- si trova a tu per tu con il linguaggio del paese colonizzatore. L’individuo colonizzato viene elevato al di sopra del suo stato di abitante della giungla in base al grado in cui fa propri gli standard culturali del paese colonizzatore. Diventa più bianco man mano che rinuncia alla sua negritudine, alla sua “giungla”8.
Gli iraniani sono fuggiti dal ruolo che li faceva ingranaggi di una macchina. Sono fuggiti da “questa indifferenza, queste maniere automatizzate di catalogare, imprigionare, riportare l’uomo ad uno stato primitivo e privarlo della sua civiltà”9. La rivoluzione ha consentito loro di fuggire dal linguaggio e dalla cultura del paese colonizzatore. La loro liberazione è nata dal fatto che hanno attaccato non soltanto questi due aspetti, ma anche le radici stesse della razionalità, intesa come operante sul piano politico.  Un leader di Hezbollah ha affermato:
Per noi, questo ha significato che eravamo liberi di pensare per nostro conto a che cosa fosse giusto o meno. Ecco la nostra principale e significativa differenza rispetto all’Occidente. Non siamo più costretti ad usare un solo tipo di pensiero. Hezbollah riflette profondamente su un problema, e poi decide che cosa è giusto. Soltanto dopo si passa all’azione, in base a quanto noi pensiamo che sia giusto; proprio perché è giusto, anche se nel breve termine o alla lunga dovesse comportare un prezzo e magari non raggiungesse risultati immediati. Noi lo facciamo, perché il nostro pensiero ci dice che quella è la cosa giusta da fare.
Questa sensazione di possedere  schemi cognitivi in aperta rottura con il passato è propria anche della prospettiva di Hamas, che non scende a patti con le regole occidentali. Se queste regole escludono in linea sistematica, il pensiero islamico, se si tratta soltanto di una discussione sui mezzi e sui fini condotta in termini occidentali, “Di che cosa mai c’è da discutere?” come ci fece ironicamente notare un leader di Hamas.
Secondo Qutb, in Occidente gli schemi organizzativi di una società moderna ed atomizzata si sono ripercossi negativamente anche sulle condizioni fisiche e mentali dei musulmani e degli esseri umani in generale. Il privilegio accordato in Occidente al materialismo, in una comunità che non è altro che la somma dei suoi costituenti individuali, e ad una concezione della natura come insieme di particolari reificati, ha condotto a perdere di vista l’insieme complessivo delle cose. Qutb ha accusato l’Occidente di essere ossessionato dal benessere materiale, dall’individualismo e dai propri esclusivi interessi economici e politici. A suo dire il pensiero strumentale occidentale ha la responsabilità di aver spinto l’intera società a sbilanciarsi in questo modo.
Qutb avanza l’idea di un Occidente sovvertito; la civiltà è senz’altro progredita grazie al suo dominio sulla natura reso possibile dalla tecnica, ma è regredita dal punto di vista culturale: il pensiero e l’esperienza ne hanno sofferto. La forma di tirannide del XXI secolo è rappresentata da tutto questo e Slavoj Žižek così ne ha definito la sostanza: le vittime ultime del positivismo non sono, come si crede comunemente, le “fumose” nozioni metafisiche tanto aborrite dai positivisti, ma gli stessi fatti concreti. In questo modo la scienza funziona come una forza che agisce nel campo sociale, come una specie di istituzione ideologica: la sua funzione diventa quella di produrre delle certezze, di fare da punto di riferimento affidabile, e di fornire speranza. La laicizzazione perseguita dal positivismo radicale trasforma l’uomo in un essere privo di empatia, privo di grandi passioni e di grandi coinvolgimenti, ed in fin dei conti trasforma la vita stessa in un processo anemico ed astratto10. Žižek continua:
La scienza oggi compete concretamente con la religione, e sul suo stesso terreno, perché provvede a due necessità di tipo essenzialmente ideologico: la necessità di speranza e la necessità di censura, che tradizionalmente sono il campo di azione della religione. Per dirla con John Gray, la scienza soltanto ha il potere di ridurre gli eretici al silenzio. Al giorno d’oggi è l’unica istituzione rimasta a poter avanzare pretese di autorità. Come la Chiesa nel passato, ha il potere di distruggere, o di marginalizzare, i pensatori indipendenti… Dal punto di vista di chiunque apprezza la libertà di pensiero si tratta sicuramente di qualche cosa di brutto, ma senza dubbio è da qui che soprattutto nasce il prestigio della scienza. Per noi, la scienza è qualcosa in cui cercare rifugio dalle incertezze, qualcosa che promette, e in qualche misura mantiene anche, di realizzare il miracolo di liberarci dal pensiero, mentre le chiese sono diventate i santuari del dubbio11.
Lo stato nazione, la richiesta di riforme avanzata alle società musulmane ed il positivismo intransigente si sono abbattuti sull’Islam in molti modi disastrosi e brutali: il modo in cui lo stato nazione è stato introdotto in Medio Oriente nel corso dell’ultimo secolo ha soltanto aggiunto a tutto questo la sensazione di trovarsi davanti ad una continua tragedia.
In Medio Oriente le nuove frontiere nazionali tracciate dai colonialisti evitano deliberatamente di tenere conto della distribuzione delle etnie sul territorio. I colonialisti britannici e francesi, ad esempio, hanno creato lo stato dell’Iraq seguendo linee che non corrispondono a nessuna concentrazione etnica omogenea. Fu scelto, deliberatamente, di creare uno stato che somigliasse a un minestrone. Invece di tenere conto della distribuzione delle etnie, è chiaro che i britannici, agendo con regolarità ed in modo intenzionale, ritagliarono una maldestra mappa in nome di una cosciente politica di sfruttamento coloniale praticata in tutto l’impero; una politica, che poneva le minoranze etniche in una posizione di vantaggio, nell’intento di utilizzarle per facilitare il dominio coloniale.
Mettendo le minoranze in una posizione di privilegio, i britannici potevano costruire uno stato indebolito ed in cui esisteva la possibilità di mettere una minoranza contro l’altra. Il potere coloniale poteva cooptare una élite da esso dipendente, che si schierasse con i britannici nella difesa del potere. Gli autori di questa strategia sapevano che se il sostegno britannico fosse in un qualsiasi momento venuto meno, la minoranza cooptata cui appartenevano non sarebbe sopravvissuta a lungo con i propri soli mezzi. Tutti sarebbero presto caduti vittime di altri raggruppamenti etnici più numerosi. Questo timore alimentava la coesione tra le amministrazioni coloniali ed i colonialisti britannici.


Ripensare lo stato nazione

Avendo fatto l’esperienza dello stato nazione e della spinta occidentale verso il nazionalismo militante, non sorprende che i musulmani abbiano cominciato a considerare i fattori che hanno dato origine alle aspirazioni nazionaliste di impronta laica. Nel riflettere su questo, sono stati portati a ricordare che il nazionalismo ha a suo tempo rappresentato il risultato del venire meno della cultura permeata di sacralità che lo aveva preceduto.
Storicamente, l’immagine della Umma è stata in larga parte costruita con i mezzi della lingua sacra e degli scritti. Ciascuno dei suoi appartenenti, che provenivano da regioni molto diverse della vasta estensione territoriale in cui la Umma è esistita, non sapeva nulla del linguaggio dell’altro, ma era in grado di comprendere l’altrui pensiero perché basava la propria comprensione sui valori condivisi del Corano.  Si trattava di una tradizione in cui gli stati venivano definiti dai centri, le frontiere erano permeabili e vaghe, le sovranità si sfumavano impercettibilmente l’una nell’altra. Di qui, abbastanza paradossalmente, la facilità con cui gli imperi pre-moderni riuscivano a controllare per lunghi periodi di tempo popolazioni sparse su aree sterminate, eterogenee e spesso neppure contigue dal punto di vista territoriale12.
Se si prendessero in considerazione il nazionalismo e le caratteristiche negative dello stato nazione occidentale osservandoli non dalla prospettiva di una ideologia politica di stampo nazionalista sviluppata in piena consapevolezza, ma dalla prospettiva dei multiformi processi religiosi e politici che hanno preceduto il sorgere del nazionalismo settecentesco, questi processi di natura esattamente opposta come la comunità unita da vincoli a carattere sacro -contro la quale l’impulso nazionalista fu una sorta di risposta-  potrebbero presentare agli islamici una soluzione contro l’irrompere dello stato nazione nelle società musulmane.
In altre parole, gli islamici potrebbero trovare nelle tradizionali comunità tenute insieme dalla religione che hanno preceduto il sorgere dello stato nazione la potenzialità di formulare risposte con le quali contrastare lo stato nazione come oggi si presenta loro.
Un pensatore islamico, che si autodefinisce vicino a Hezbollah e che ha trascorso molto tempo cercando un sistema che metta gli islamici in condizione di controbattere alle manifestazioni di potere statale da parte dell’Occidente, ha avanzato l’ipotesi che la risposta islamica sia stata quella di esaminare le possibilità di creare una struttura organizzativa differente dalla gerarchia occidentale, attraverso quella che è stata definita una “struttura a rizoma”: una rete che mobilita i suoi appartenenti su un piano orizzontale ed unificante, simile in questo alla struttura piatta delle radici  tipica di una pianta che si espande orizzontalmente. 
In precedenza un altro membro di Hezbollah aveva descritto le “comunità di competenze” come una forma di resistenza al potere occidentale in grado di costituire un centro attorno al quale i musulmani possono unirsi, invece di farsi imprigionare nel paradigma dello stato nazione, e che potrebbe sfidare il potere statale dell’Occidente avvalendosi di una diversa piattaforma strutturale ed organizzativa13.
Queste “comunità di competenza” non stanno cercando di regredire verso una forma di organizzazione meno efficiente: piuttosto tentano di liberarsi dalla gerarchia, se di gerarchia occidentale si tratta, o di formare leadership arabe per rifuggire dalla vulnerabilità, dalla dipendenza e dalla asimmetria nei giochi di potere tramite l’adozione di reti piatte e prive di un centro vero e proprio.
Abbiamo concepito la cosiddetta struttura organizzativa piatta dapprincipio per ragioni difensive. Il primo obiettivo di Hezbollah era quello di costruire un movimento di resistenza contro l’occupazione israeliana del Libano [nel 1982] e alle azioni statunitensi in Libano nello stesso periodo. La struttura piatta era fatta per la resistenza, ma cominciò gradualmente a servire anche alle necessità sociali del movimento, che finirono per evolversi come componente integrata nell’àmbito di una resistenza di più vasta portata.
Certamente, la dimensione politica della struttura piatta derivava dal concetto di Rivoluzione formulato da Khomeini, secondo il quale l’obiettivo doveva essere quello di restituire potenzialità ai “diseredati”; una invocazione coinvolgente, che veniva dalla traduzione persiana di Ali Shariati de I dannati della terra di Fanon. Una rete orizzontale permette alle masse di organizzarsi per agire politicamente ed offre anche una qualche protezione dall’imperversare dei servizi segreti.
La Rivoluzione Iraniana ha creato identità nuove, e dotato i costrutti islamici di significati nuovi. In quel periodo la legittimazione dello stato nazione fu pressoché distrutta dal fatto di essere associata allo Shah ed agli interessi occidentali. Abbiamo cominciato a costruire un’identità attorno alle strutture sociali di base come la famiglia, i gruppi familiari e la comunità; a partire da questa base abbiamo sviluppato l’ideologia e la leadership del movimento. Certo, la struttura non è perfettamente orizzontale perché l’Islam sciita prevede una leadership tradizionale (attraverso le sue scuole religiose e la sua guida collegiale di esperti).
Le comunità orizzontali tenute insieme da meccanismi sociali e la presenza di una ideologia basata su valori condivisi e sulla volontà di resistere, si sono rivelate efficaci per la mobilitazione e l’attivismo politico, che a loro volta hanno conseguito vantaggi ben al di là della iniziale motivazione puramente difensiva.
La rete islamica di comunità tenute insieme da legami paritari si oppone allo strutturalismo gerarchico occidentale, alle sue rigide linee di controllo, con una rete di cellule che possono cambiare forma ed evolversi. La forza dello stato occidentale com’è tradizionalmente inteso ha il massimo della sua efficacia quando si accanisce su quegli stati nazionali deboli di cui l’Occidente ha deliberatamente cosparso le sue ex colonie. Gli stati occidentali però hanno poche chanches contro le reti orizzontali,  che dal momento che sono “attori non statali”, hanno la tendenza a risentire di meno degli strumenti di controllo di tipo occidentale come il Consiglio di Sicurezza dell’ONU o le agenzie e le organizzazioni internazionali.
Il fatto che l’Occidente non riesca a trovare il punto stabile su cui poggiarsi per imporre la propria volontà alle reti comunitarie a bassa tecnologia tramite convenzioni legali, e l’esistenza di un sistema internazionale basato sul principio della comunità di stati nazione, concepito per conferire in partenza una posizione vantaggiosa agli stati nazione più potenti, mina per forza di cose la credibilità di questo stesso potere. Il percepito fallimento del sistema nell’imporre la propria volontà o di spazzare via simili reti rappresenta un catalizzatore capace di spingere altri a tentare la stessa sfida, perché capiscono che il potere occidentale non è invincibile, e questa tendenza sta rafforzandosi.
Esiste qualche somiglianza tra il concetto contemporaneo ed in continuo sviluppo di strutture organizzative di livello orizzontale, ed il sistema ottomano dei millet come esso era prima del diciannovesimo secolo: a gruppi etnici e confessionali differenti, all’interno dell’impero, veniva garantito un considerevole grado di indipendenza insieme al diritto all’autogestione. Esisteva anche un qualche grado di autonomia, dal momento che questi gruppi semiindipendenti mantenevano le loro prerogative in materia di tasse e di erario. Questo tipo di ampia autonomia riusciva particolarmente efficace nell’aiutare la convivenza di comunità etniche e confessionali sparse su un gran numero di giurisdizioni formali, e che spesso non occupavano territori contigui.
Il sistema si sviluppò ai tempi degli Ottomani pere risolvere il problema della coesistenza con gli elementi confessionali non musulmani ed un numero pletorico di gruppi etnici in un impero esplicitamente definentesi come sunnita. Sunnita al punto che il califfo rappresentava il vertice di questa rete di gruppi semiautonomi, che aveva una organizzazione quasi piatta, a due livelli, in cui i sunniti occupavano il livello superiore.
E possibile intravedere una riformulazione della tradizionale comunità di tipo sacrale che ha Dio al suo vertice, che  agisce come modello informale in qualche modo connesso alla legittimazione della Umma, e contraddistinto da movimenti islamici semiautonomi, collegati in rete e che operano non sotto un califfo (almeno non per il futuro immediato) ma sotto l’egida di una leadership musulmana omologa ai centri delle epoche passate. In una certa misura questo assetto già esiste, seppure a livelli molto informali.
Un ordine meno centralizzato e fondato sulle reti, ha suggerito un interlocutore di Hezbollah, si tradurrà in una società globale con minori stratificazioni in materia di potere e meno disparità di ricchezze all’interno delle comunità. Col potere statale decentralizzato e diffuso a livello locale, si creano le condizioni perché diminuiscano le possibilità di scatenare un conflitto di tipo convenzionale: ridurre l’influenza delle tendenze competitive e sfruttatrici tipiche del sistema gerarchico, secondo la sua previsione, significherebbe anche ridurre l’instabilità.


Quando si inverte il carattere aperto della società

Quando Bergson coniò l’espressione “società aperta” negli anni Trenta del ventesimo secolo e la congiunse irreversibilmente, nelle menti della maggior parte degli occidentali, al loro consacrato approccio basato sull’ordine che sorge dagli scambi mercantili. Bergson andava di pari passo con la convinzione occidentale secondo la quale il cammino della storia verso il suo culmine rappresentava la volontà divina o, per i non credenti, la piena realizzazione della natura umana con l’aiuto della scienza e della tecnologia. Coloro che si intenderebbero di ostacolarlo, come gli islamici, starebbero combattendo contro la volontà d’Iddio oppure appartengono a forze reazionarie che cercano di ostacolare gli istinti e le aspirazioni umane, postulate come naturali, che spingerebbero l’uomo verso la società aperta.
Nel definire la società aperta Bergson definì simultaneamente anche il suo opposto. Questo opposto è rappresentato dalla società chiusa, caratterizzata soprattutto da una religione di natura statica che diventa una sorta di habitus mentale che rende cieca l’intelligenza umana nei confronti della spinta innata alla solidarietà ed alla coesione: qualcosa che mantiene immobili i popoli e le società.
Non fu Bergson, ma Popper a trasformare questi due concetti in contendenti in una lotta manichea. Nel suo La società aperta e i suoi nemici descrisse un lungo duello tra la società aperta e buona e le forze della reazione, ovvero la religione ed i valori tradizionali, impegnati in una perpetua lotta per sminuire la libertà. Come abbiamo già notato, si pretendeva, in modo cromwelliano, la libertà personale necessaria ad incoraggiare l’allora nascente capitalismo e a far prosperare le politiche liberali.
Mentre la società aperta fu senza dubbio definita da Popper per il pubblico americano come società americana, il concetto contrario, la categoria opposta fu dapprima simboleggiata dal marxismo, ed oggi è simboleggiata per la maggior parte degli americani dall’Islam, che viene considerato come una società chiusa archetipica e raffigurato come tale.
Dalla contrapposizione di queste due categorie opposte deriva che non soltanto l’Islam diventa, per definizione, una forza della reazione che tenta di conculcare le libertà occidentali, ma anche un movimento destinato a fallire.”I nostri nemici” disse Oliver Cromwell, “sono i malvagi del mondo, in patria e oltreconfine. Sì, agite bene, e convincetevi di quale sia l’interesse d’Iddio e non dedicatevi altro che ad esso… tutto ciò che è nelle interesse della Cristianità è nell’interesse vostro”14.
Dietro tutto questo sta la concezione cristiana della storia come movimento non necessariamente lineare -con i suoi insuccessi e i suoi passi indietro- ma comunque dotato di uno scopo intrinseco che verrà senza dubbio raggiunto. La versione laica di questa concezione della storia manca della certezza di un punto culminante, ma considera i progressi nei campi della scienza e della tecnologia come parte di un movimento di inevitabile progresso che conduce verso un traguardo universale.
In altre parole, Dio è un liberale: ha creato la natura umana in un modo tale che il meccanismo mercantile della vita politica ed economica si adatti alla perfezione alla natura umana. Popper e la maggior parte degli occidentalisti pensano che sia un adattamento migliore di quello di ogni altro sistema politico o economico in competizione con esso che gli islamici potrebbero inventarsi. Il collasso dell’Unione Sovietica ha rappresentato l’ultimo tentativo di un potente movimento di massa di organizzare se stesso su basi diverse da quelle del capitalismo e del libero mercato. La sconfitta sovietica ha provato una volta per tutte che tentare di opporvisi è inutile, ha concluso Francis Fukuyama, portando Popper alla sua conclusione logica.
Chiaramente non c’è alcuna logica, in questa prospettiva, nello sprecare molto tempo cercando di comprendere l’Islam, dal momento che la sua eclissi è concepita come qualcosa di darwinianamente inevitabile. E’ semplicemente necessario calpestare quelle formiche della metafora di Bergson che sono guidate da una religione statica, nella quale ogni individuo adempie il ruolo assegnatogli nel formicaio, in una allegoria che in un’ottica contemporanea allude al totalitarismo.
Gli occidentalisti più inclini all’ottimismo fanno propria una prospettiva storica più lunga: il cattolicesimo ha avuto una storia di lunga ed aspra opposizione ai valori della società aperta, prima di fare pace con essa. Allo stesso modo, sperano di vedere un crescente pluralismo prendere forma all’interno dell’Islam, che permetterà ad esso di prendere il suo posto all’interno di una comunità di nazioni dinamica ed aperta di tipo occidentale.
Da questa speranza deriva l’uso politico europeo di creare leader musulmani “moderati” attorno ai quali l’Islam possa essere dirotto all’inoffensività ed al pluralismo, allo stesso modo in cui la Chiesa Cattolica, dopo gli aspri conflitti religiosi e politici con il mondo anglosassone, dovette arrendersi all’ineluttabilità del successo del libero mercato comprendendo quanto fosse inutile opporvisi. La Chiesa Cattolica ha abbandonato la propria opposizione al pluralismo nel 1965, quando ha formalmente accettato la libertà di religione come principio morale. Si è fatta tollerante.
Popper, nella sua interpretazione dicotomica di società aperte e chiuse, ha omesso un aspetto fondamentale dell’originaria analisi di Bergson. Nel caso ad Ali Shariati, a Khomeini o a qualunque altro dei grandi leader islamici fosse stato chiesto cosa pensavano della definizione di religione statica usata da Bergson, che indicava con essa una forza passiva che mantiene immobile una società nei suoi precetti e nelle sue tradizioni, tutti si sarebbero detti perfettamente d’accordo. L’intero percorso della lotta politica e della rivoluzione islamica, come abbiamo sostenuto in queste pagine, si è posto in questo ambito una questione molto precisa: come trasformare l’Islam in una religione dinamica, aperta e rivolta al futuro.
Il fatto che la Rivoluzione Iraniana abbia contrassegnato lo spartiacque oltre il quale l’islam sciita è stato recuperato come forza dinamica e rivoluzionaria, nonché l’importazione di questo cambiamento anche negli ambienti sunniti siano passati pressoché inosservati in Occidente rappresenta una buona testimonianza di quanto bene possa funzionare una buona metafora.
La risposta a questa cecità, o a questo neppure tentare una comprensione dei fenomeni in materia di Islam è dovuta senza dubbio almeno in parte alle potenti meccaniche di una metafora antinomica in cui il concetto di chiuso si contrappone a quello di aperto. La forza di questo costrutto semplice, che affonda le sue radici in miti antichi che continuano a riecheggiare poderosi, ha prodotto una concezione occidentale dell’Islam che è troppo meccanicamente semplicistica e rigida per poter superare la propria hybris, che è la convinzione che ogni sfida alla perdurante ed universale supremazia occidentale sia destinata al fallimento, nonché completamente priva della percezione del fatto che sia necessario tentare di comprendere l’Islam.


Un concetto dinamico della religione come catalizzatore per il cambiamento dell’ordine sociale

Bergson fece caso anche ad un’altra cosa che invece manca nella continuazione della sua tipologia realizzata da Popper: l’altro aspetto del comportamento umano, quello regressivo che implica il rifugiarsi negli istinti, rappresenta un’apertura verso l’apprendimento ed il cambiamento che spinge l’umanità lontano dal mondo chiuso della tradizione e degli schemi. E proprio l’allontanamento dalla tradizione ha caratterizzato l’etica di fondo e gli scopi della Rivoluzione Iraniana. La “spinta per il cambiamento” di Bergson, intesa come concetto qualificante della società aperta, pone la rivoluzione come un simbolo peculiare delle dinamiche della nostra epoca.
Sostenne anche che le società aperte dovrebbero incarnare ideali ed aspirazioni, e notò che la società occidentale industriale e moderna era ancora ricca di molte delle caratteristiche tipiche delle società chiuse. In altre parole, Bergson scriveva molto più sfumato di quanto lo sia la metafora semplice per la quale viene soprattutto ricordato. Bergson contemplava anche un altro tipo di fattore capace di spingere verso la società aperta e si tratta di qualcosa che Popper lasciò cadere quando fece propria la tipologia bergsoniana.  Bergson aveva identificato nella concezione dinamica della religione un fattore chiave in grado di spingere le persone ad adottare un cambiamento.
L’elemento che manca in Popper, la concezione di religione dinamica presentata da Bergson, mette in questione tutta la concezione dell’Occidente inteso come società aperta e dell’Islam inteso archetipicamente come società chiusa. Se apertura significa, come afferma Bergson, attaccamento “agli ideali ed alle aspirazioni”, allora è l’Islam, con la sua aspirazione alla giustizia sociale, che va considerato aperto e dinamico, mentre l’Occidente, tenacemente abbarbicato ai miti tradizionali dell’ordine naturale e del progresso, e limitato dal suo pensiero strumentale,.è una società che andrebbe definita chiusa. In altre parole, la concezione manichea di Popper può essere rovesciata: basta contemplare nuovamente il concetto di religione dinamica, che è l’elemento che manca e che era invece presente nell’originaria formulazione di Bergson.
E’ interessante notare che la gnosi, ossia la conoscenza intuitiva e l’introspezione, e soprattutto il misticismo cattolico, per Bergson costituivano le espressioni più caratteristiche di una religiosità dinamica: un punto di vista che, come abbiamo avuto modo di vedere nel capitolo sulla politica dell’Islam  sciita, è stato condiviso anche dalla leadership iraniana. Nel suo ultimo discorso al popolo iraniano, Khomeini implorò gli iraniani a proseguire lo studio nel campo della conoscenza chiamato irfan (la gnosi) perché non può esserci una Rivoluzione Islamica autentica se non c’è anche una evoluzione spirituale.
Questa leadership spirituale degli Imam, ricca di intuizione e di immaginazione, ha reso l’Islam una forza dinamica che ha infuso energia ed ha mobilitato il mondo durante il settimo e l’ottavo secolo; la stessa leadership che Khomeini considerava necessaria anche oggi, per far uscire la società dal baratro di materialismo che costituisce il suo presente.
Khomeini, Shariati e Qutb erano tutti studiosi del pensiero intuitivo, o del misticismo teorico; in Iran la gnosi ha una lunga storia in piena rifioritura, così come sta rifiorendo il pensiero sufi nel mondo sunnita. Così come Bergson aveva pensato che potesse succedere, il riemergere di tutto questo si sta rivelando un’importante elemento capace di infondere dinamismo.
Per gli occidentali abituati a considerare la leadership rivoluzionaria islamica soltanto tramite il loro tradizionale atteggiamento di puritanesimo dogmatico, può essere sorprendente scoprire quanto fosse in voga tra i rivoluzionari iraniani la poesia mistica islamica. Nell’esprimere l’aspirazione dell’anima verso Dio, l’amore per il divino, questi poeti non possono facilmente infondere gli stessi sentimenti agli altri uomini, come ebbe a notare Ibn Arabi: possono soltanto esprimerli in modo simbolico. Arabi ha avuto grande influenza sia su Qutb che su Khomeini. Al-Arabi e Jalal Eddin Rumi, le cui opere adesso sono molto lette anche in Occidente, hanno spesso espresso questa aspirazione attraverso il simbolismo, ricco di erotismo e di toni da baccanale, dell’amore nei confronti di una donna. “Bevi del vino! Che possa liberarti da te stesso!” è il messaggio di Arabi che evidenzia la necessità della perdita del sé nel rapimento della contemplazione divina. Il tutto da intendersi in modo simbolico, più che come comportamento cui adeguarsi meccanicamente. E’ probabile che Bergson si riferisse ad elementi come questi, quando tentava di cogliere l’essenza del dinamismo in campo religioso.
Se invertiamo la tipologia popperiana rispetto ai suoi significati abituali, come abbiamo appena fatto, possiamo notare anche un’altra interessante inversione in base alla quale la religione diventa il campo principale da cui è possibile avanzare dubbi e critiche sulla società occidentale contemporanea. L’Islam si è rivelato essere qualcosa, anche all’interno delle società occidentali, che fornisce a musulmani e a non musulmani una piattaforma su cui basare la propria resistenza.
Un’altra inversione è rappresentata dal fatto che mentre l’Occidente è, dal punto di vista fisico, dotato di una potenza offensiva soverchiante, la sua narrativa non corrisponde più a quella della maggioranza della popolazione mondiale. I miti su cui poggia e la legittimità della sua visione del mondo vengono sfidate e messe in discussione da una metanarrativa alternativa e dalla maggior parte del resto del mondo. Come ebbe a notare de Gaulle parlando del venire meno della legittimità delle costituzioni, una rosa dura solo finché dura.
Abbiamo avanzato l’ipotesi che l’idea della mano invisibile in economia sia un mito: il libero mercato, laddove è esistito, è stato il prodotto di una massiccia azione statale. Abbiamo anche sostenuto che il tentativo di imporre il libero mercato in tutto il mondo, lungi dal portare stabilità e pace, ha portato terrore, massacri e sradicamento. Siamo anche giunti alla conclusione che la connessione tra lo statuire il libero mercato ed il portare la democrazia è falsa: i due concetti sono in competizione tra loro.
Abbiamo sostenuto che un’altra illusione è data dal considerare lo stato nazione come sinonimo di “democrazia” tramite la quale si indicherebbe un’autentica politica basata sulla partecipazione: lo stato nazione è stato concepito per condurre una potente ed armata élite, forte abbastanza da imporre i cambiamenti sociali pretesi dal libero mercato e dai meccanismi del libero commercio.
Abbiamo poi sostenuto che il tipo di pensiero predominante, la razionalità strumentale, nonostante i suoi successi nel campo delle scienze, non è diventata -come notato da G.K. Chesterton- una pura liberazione dell’intelletto. I critici della religione iniziano denunciandola come forza reazionaria che minaccia di sminuire la libertà umana, ma poi si sentono obbligati a sacrificare l’intera esistenza dell’umanità alla non esistenza di Dio. Cosa dobbiamo dire del fanatico che riduce il mondo ad una discarica per odio dell’”altro”, che abbandona la libertà stessa, sacrificando così esattamente quello che aveva cercato di difendere? “I laicisti non hanno mandato a discarica ciò che attiene il divino: hanno mandato a discarica ciò che attiene la sfera laica, se questo può esser loro di qualche conforto”15.
In questo capitolo abbiamo approfondito l’argomento secondo il quale il conflitto tra l’Islam e l’Occidente è nella sua essenza un conflitto di tipo religioso, che nasce dai processi e dalle ideee che nacquero durante le guerre religiose in Europa. Non si tratta dunque di una lotta tra Cristianità ed Islam come tale, perché le idee ed i processi di pensiero che possono essere evidenziati alla base del presente conflitto sono essi stessi inizialmente nati dalla lotta protestante e puritana contro un’altra comunità di carattere sacro, il cattolicesimo romano, e solo poi sono state estese all’Islam. A ben guardare non si tratta neppure di un costrutto interamente protestante, perché molti di questi temi, come la visione teleologica della storia, le aspettative apocalittiche e la credenza in una trasformazione ed in una redenzione che possono essere realizzate dall’azione umana, si rintracciano nelle radici stesse del cristianesimo. Ad essere in questione, come aveva suggerito il religioso iraniano, è l’essenza stessa della natura umana.
La questione posta all’inizio, alla quale torneremo alla fine del volume, riguarda quello che è possibile fare per prevenire il deterioramento. La risposta fornitaci dal religioso di Qom era che trovare un percorso che conduca alla coesistenza richiede in primo luogo che l’Occidente cominci a fare un po’ di introspezione. Come Michel Foucault, egli ritiene che il rinnovamento sia il primo passo in ogni processo. I pensatori occidentali hanno bisogno di continuare ad esaminare in modo critico che cosa sia l’Occidente di oggi, e come sia stato possibile arrivare a questo punto. Dal  riesame critico, e riprendendo in considerazione le fonti originarie, dovrebbe essere possibile trovare le energie per un rinnovamento e, da questo nuovo modo di pensare, anche un differente percorso che porti alla coesistenza con l’Islam. Nella sua essenza si tratta di un invito a riflettere sul pensiero, ovvero a riflettere maggiormente sul pensiero piuttosto che sul mettere a puntio politiche da tradurre in azione che porterebbero a pochi cambiamenti rispetto allo strumentalismo del tipo “fini e mezzi”, e su quali siano gli àmbiti del pensiero occidentale.
Da queste argomentazioni deriva il fatto che sono errate anche le opzioni che l’Occidente fa derivare dalla falsa dialettica di un Occidente “aperto” opposto ad un Islam “chiuso”. Il principio islamico dell’esperienza collettiva dell’attenersi ad una condotta di vita etica, come abbiamo visto, è inconciliabile con un sistema che pensa che i singoli individui che perseguiscono l’appagamento di desideri ed appetiti individuali finiscano per interagire con vantaggio di tutti. L’Islam quindi può inscriversi nello schema occidentale non scoprendo la “tolleranza”, ma solo abbandonando il suo assunto centrale. Ed è poco probabile che questo si verifichi.
Allo stesso modo, tentare di incoraggiare tra i musulmani scelte di vita individualistiche e personali al posto della cultura condivisa necessaria a sostenere una comunità organizzata secondo principi di giustizia rappresenta semplicemente un voler cancellare gli ultimi cento anni di storia musulmana. Si può avere qualche successo, se si esercita una pressione abbastanza forte su comunità particolarmente vulnerabili, ma cancellare la storia dell’Islam imponendo modelli occidentali improntati alla cosiddetta “moderazione” che sono in effetti dei facsimile dell’esperienza cristiana difficilmente invertirà il corso della storia islamica recente.
Abbiamo anche detto che la Rivoluzione Islamica ha lo scopo di creare una religione di carattere dinamico e rivolta verso il futuro, che sviluppi idee distinte sull’individuo, sulle relazioni sociali, sulle relazioni tra le comunità e sul governo della comunità stessa. Una religione che ha concretezza, che ha idee, che ha forza. Non è possibile, per i custodi di una metanarrativa in via di dissoluzione, pensare di far regredire ogni senso di vulnerabilità causato dal sorgere di una narrativa in contrapposizione facendo sfoggio di forza militare. Ogni tentativo di risolvere le cose in questo modo può rivelarsi più una prova di debolezza data da qualcuno che si è messo sulla difensiva, piuttosto che il segnale di forza che si voleva dare.
Nei prossimi due capitoli esamineremo due movimenti islamici di primo piano, innanzitutto per spiegare in che modo Hezbollah sia riuscito a salvare una cultura dal trasformarsi in una serie di idiosincrasie private e personali, conferendo invece ad essa nuova forza sul piano politico e secondo nuove prospettive. Questo, sia per la cultura intesa come forza condivisa, sia per la cultura intesa come strumento in grado di mobilitare le masse per la resistenza. Nel capitolo successivo, scrivendo dell’esempio di Hamas, sosteniamo l’ipotesi che Hamas abbia usato la resistenza armata come utensile psicologico per raggiungere obiettivi che sono altra cosa rispetto alla mera sconfitta del nemico.


1 Walter Russell Mead, God and Gold: Britain, America and the Making of the Modern World, New York: Random House, 2007, p. 192.
2 Ibid., p. 193.
3 Ibid., p. 303
4 John Gray, Black Mass: Apocalyptic Religion and the Death of Utopia, London: Allen Lane, 2007, p. 5.
5 Ibid., p. 112.
6 Ibid., pp. 61–62.
7 Walter Russell Mead, God and Gold, p. 260.
8 Frantz Fanon, Black Skin, White Masks, London: Pluto Press, 1986, p. 18.
9 Ibid., p. 32.
10 Slavoj Žižek, Violence, London: Profile Books, 2008, pp. 24, 69, ed in Welcome to the Desert of the Real, London: Verso, 2002, p. 88.
11 Slavoj Žižek, Violence, p. 69, cit. John Gray, Straw Dogs, London: Granta, 2003, p. 19.
12 Benedict Anderson, Imagined Communities, London: Verso, 1991, p. 19.
13 Anonimo intervistato dall’autore, Beirut, 2007.
14 Walter Russell Mead, God and Gold, p. 23.
15 G.K. Chesterton, Orthodoxy, New York: Bantam Doubleday Dell, nuova edizione 1996 (prima edizione, 1908), pp. 146–47.

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