mercoledì 29 agosto 2012

Avaaz: la democrazia e i diritti umani sono la prima cosa.


Gli attivisti di Avaaz sarebbero milioni; eccone uno vestito da promotore della democrazia, che sarebbe qualcosa come promotore finanziario però ancora meno retribuito.
Si noti il cartello con il logo aziendale. 

Questi qui sopra invece sono Sepāh-e Pāsdārān-e Enqelāb-e Eslāmi, genericamente considerati una clientela difficile da tanti promotori di democrazia come quello ritratto sopra.
Si noti la minore rilevanza dei loghi aziendali, e la maggiore rilevanza di argomenti un po' più persuasivi.


Si legge su Kelebeklerblog che il suo curatore Miguel Martinez ha scoperto di essere un very important petitioner di questo qualcosa che si fa chiamare Avaaz.
Avaaz dovrebbe essere una delle tante organizzazioni che forniscono al gazzettaio materiali pubblicabili (foto e filmati di giovani donne con pochi vestiti) e che al tempo stesso si adoperano per la democratizzazione del democratizzabile (attraverso la diffusione di foto e filmati di giovani donne con pochi vestiti).
Il signor Martinez Ha colto l'occasione al volo ed ha presentato ad Avaaz questa richiesta:
“Quale cambiamento vuoi?”
Un mondo a tanti colori in cui le persone possano muoversi liberamente
“Chi può fare in modo che ciò succeda?”
Il parlamento della Repubblica Italiana [l'espressione è nell'originale, ce ne scusiamo come sempre con i lettori. N.d.A.]
“Perché è importante questa petizione?”
Perché la libertà di decidere quando, come e dove andare è il diritto di ogni essere umano, a prescindere dalle preferenze cromatiche
“Qual’è il testo della petizione?”
Noi, cittadine e cittadini di un mondo multicolore, chiediamo di abrogare il DL 30 Aprile 1992, n. 285 (Codice della Strada), limitatamente all’art. 41 comma secondo, limitatamente alle parole “rosso, con significato di arresto” e comma quinto limitatamente al punto a) recante le parole “rosso, con significato di arresto e non consente ai pedoni di effettuare l’attraversamento, né di impegnare la carreggiata”; comma sesto limitatamente alla parola “rosso”; comma settimo limitatamente alle parole “rossa a forma di x con significato di divieto di percorrere la corsia o di impegnare il varco sottostante la luce”; comma undicesimo recante le parole “Durante il periodo di accensione della luce rossa, i veicoli non devono superare la striscia di arresto; in mancanza di tale striscia i veicoli non devono impegnare l’area di intersezione, né l’attraversamento pedonale, né oltrepassare il segnale, in modo da poterne osservare le indicazioni.
Occorre precisare che quello riportato in corsivo qui sopra è il testo di un quesito referendario proposto in tutta serietà nel 1995 da una pubblicazione satirica, il cui scopo era quello di prendere in giro l'ebbrezza referendaria che in quegli anni caratterizzava, nello stato che occupa la penisola italiana,  il Partito Radicale.
Lo stesso Partito Radicale che di lì a poco avrebbe sostenuto l'aggressione alla Yugoslavia e quella all'Iraq ostentando bandiere con il simbolo della pace.
In altre parole, Miguel Martinez ha proposto ad Avaaz di intraprendere una battaglia civile per l'abolizione della luce rossa dei semafori.
Trovando subito ascolto. Avaaz, per tramite dei suoi risponditori automatici (una garanzia di ferro), avrebbe assicurato che la cosa sarà tenuta nella massima considerazione.

Post scriptum. Una lettura interessante su Avaaz è questa: Avaaz: salvare gli oceani, impegnarsi per i rinoceronti, bombardare la Siria.

martedì 28 agosto 2012

Su un manifesto di propaganda in una freguesia della Repubblica Portoghese


Nella Repubblica Portoghese la freguesia è la più piccola suddivisione amministrativa prevista dall'ordinamento. Molte freguesias assolvono anche -per non dire soprattutto- compiti assistenziali, sociali e ricreativi. Questo le rende al tempo stesso importanti per la cittadinanza e intollerabili per la politica "occidentale", che anche nella Repubblica Portoghese considera spreco eliminabile qualunque cosa non serva alla repressione del dissenso politico, alla gratificazione del bacino elettorale di riferimento e alla violazione manu militari della sovranità altrui. Nell'estate del 2012 il tentativo di abolire le freguesias intrapreso dal governo centrale ha provocato proteste generalizzate ed alzato la visibilità di queste sedi istituzionali: molte hanno esposto manifesti e stendardi contro la chiusura.
Accanto sono spuntate anche affissioni di altro genere, come quella ritratta.
Qualcuno o qualcosa che si fa chiamare Picamiolos fa propaganda mettendo a confronto quelli che vengono presentati come due atteggiamenti opposti a fronte della situazione economica in cui si trovano molti paesi "occidentali" e non soltanto.
L'affissione ha scopo dichiarato di propaganda politica, ed è una propaganda basata su grossolane semplificazioni; il fatto che la rende interessante è che lascia un'impressione piuttosto favorevole sull'interesse dei cittadini portoghesi per la cosa pubblica e per la vita associata.
In un'analoga sede istituzionale, nello stato che occupa la penisola italiana, sarebbe molto più ovvio imbattersi nei volantini pubblicitari di qualche prostituta.


"I mercati non ci fanno paura: la crisi la paghino loro"
Olafur Grimsson, presidente islandese.
"Nessuno deve morire di fame, in un paese dove ci sono più pecore che persone e più canne da pesca che telefoni cellulari". Il presidente islandese ha poi dichiarato che non una sola scuola, non un solo asilo, non un solo ospedale sarebbero stati chiusi per pagare "gli avventurismi e le fanfaronate da cow boy" delle banche e della borsa.
(TSF, 2 giugno 2012)

"Trattare i mercati con disprezzo danneggia l'economia del paese"
Cavaco Silva, presidente portoghese.
...E' di questa opinione: bisogna trattare con rispetto i mercati esteri, perché va considerato certo che 'se si trattano i mercati internazionali con disprezzo' la cosa finisce per 'nuocere all'economia nazionale'.
Nella stessa occasione Cavaco si è compiaciuto perché critici del genere, 'per fortuna', non vanno oltre le frontiere del paese ed ha asserito che è necessario fare molta attenzione a quello che si afferma in un momento come quello attuale:
'Ci guardi Iddio da un Presidente della Repubblica che non sta attento a quello che dice'.  
(Econòmico, 21 dicembre 2010)

Quando si trattano i mercati con disprezzo, il risultato è...
"Quattro anni dopo la crisi, l'Islanda è il paese col più alto tasso di crescita d'Europa: la disoccupazione è passata dal quattordici al sette per cento e il debito estero si è ridotto al trenta per cento del PIL".

Quando non si trattano i mercati con disprezzo, il risultato è...
...Quello che avete sotto gli occhi!

domenica 26 agosto 2012

Giovani patriote, non parcheggiate in centro a Prato!


Lo scorso anno l'occidentalame più o meno giovanile presentò a Firenze il "decalogo dei patrioti".
Il sito da cui è tratto lo presenta a caratteri maiuscoli.
Qui lo si ritrascrive in una forma più appropriata.
Vi figura non eliminabile il nome dello stato che occupa la penisola italiana; ce ne scusiamo contriti, specie con i nostri lettori che avessero appena finito di pranzare.
Il patriota

E' orgoglioso di essere italiano, e disprezza chi denigra l'italia all'estero.
Ama la sua bandiera.
Vuole che il federalismo serva all'Italia.
Sostiene l'economia reale e non la finanza speculativa.
Crede che l'identità sia la forza di un popolo.
Promuove il made in Italy
Esalta la tradizione popolare e le nostre radici cristiane.
Crede nella politica come servizio alla patria.
Vuole la bellezza come dimensione etica della vita.
Vuole un'Italia protagonista nel Mediterraneo, in Europa e nel mondo.

La rappresentativa "occidentalista" nell'amministrazione di Firenze ha cominciato a perdere pezzi dopo pochi mesi dall'ultima consultazione elettorale e sopravvive in condizioni caratterizzate da un isolamento ferreo e da una autoreferenzialità a tutta prova: il risultato, una continua produzione di iniziative del genere.
Per cercare cosa abbiano prodotto propositi del genere sul piano della vita reale occorre dunque allontanarsi, e far riferimento alla vicina città di Prato.
I miserabili effetti pratici di una pratica politica "occidentalista" che si vorrebbe fatta di militarizzazione del territorio e di lotta senza quartiere a i'ddegrado e alla 'nsihurézza si rispecchiano nei resoconti delle gazzette locali: ad alimentare i sorrisi di scherno contribuisce proprio la totale irrilevanza del caso in esame. Non devono esserci troppe correlazioni tra le professioni di "patriottismo" e la soluzione a problemi fatti percepire come determinanti e ineludibili quando si trattava di contendere cariche amministrative.

“Volevo andare a fare un giro in centro assieme ad un’amica. Decidiamo di parcheggiare in piazza Mercatale, quando ci si avvicina un parcheggiatore abusivo che in cambio della segnalazione del posto libero ci chiede il cosiddetto “obolo”. Noi ci rifiutiamo e ce ne andiamo. Lo pseudo-parcheggiatore di fronte al nostro “no” comincia ad offenderci e ci minaccia di stupro. Noi acceleriamo il passo e riusciamo a seminarlo. Quando torniamo dopo qualche ora in piazza troviamo l’auto tutta rigata”.

Prima che l'eccessiva esposizione mediatica di cose del genere colpisse -in modo speriamo irrimediabile- la macchina propagandistica dell'occidentalame, su un episodio come questo si sarebbe soffermata almeno una mezza dozzina di buoni a nulla con la cravatta incaricati di dare ad esso tutta la rilevanza necessaria a statuire precise responsabilità personali di qualsiasi naziislamoanarcocomunista risultasse inviso alla committenza. Adesso, resta solo una delle innumerevoli testimonianze del fatto che l'inanità insultante e repulsiva della politica "occidentalista" ed il sistematico colliquarsi del tessuto sociale che si verifica dove essa è libera di manifestare la propria azione empia e sovversiva cominciano dalle minuzie della vita quotidiana.

venerdì 24 agosto 2012

Pussy Riot e Pubic Relations in uno scritto di Israel Shamir


Uno scambio di e-mail con una persona appena rientrata da un viaggio nella Federazione Russa ci ha confermato, caso mai ce ne fosse stato bisogno, che la minuscola vicenda giudiziaria che ha tanto aiutato la "libera informazione" a chiudere i numeri di agosto non ha avuto in Russia alcuna portata ed alcuna attenzione, perché in un contesto socioeconomico normale nessuno si interessa di cose come questa.
In questa sede non si attribuisce alcun valore, e tanto meno un valore "rivoluzionario", a cose come la blasfemia interessata, e si ha l'abitudine di considerare le giovani donne con pochi vestiti addosso semplicemente come giovani donne con pochi vestiti addosso. La foto in alto viene anch'essa da una repubblica della Federazione Russa (in verità scelta non troppo a caso) ed è la rappresentazione iconografica di un modo di agire meno blasfemo e più vestito.
La "libera informazione" ha comunque di che essere soddisfatta, piena com'è di professionisti che vantano una lunga e paritetica esperienza sia nel campo dei "diritti umani" che in quello del pube femminile: adesso che a combinare idiozie da nude non ci sono solo le giovani ucraine (epidermide esposta e maturità politica vanno tutt'altro che d'accordo, nonostante la "libera informazione" non perda occasione per dirsi convinta del contrario; a Kiev un paio di queste sfaticate avrebbe segato una croce eretta per ricordare le vittime dello stalinismo) è possibile sottrarre qualche altro residuale spazio ad argomenti diversi dal pallone e dalle mucose femminili, accontentando committenza e sudditi con ancor meno fatica.
Gia pubblicato da Come don Chisciotte e certamente non privo di asserzioni ampiamente criticabili (non abbiamo tra l'altro alcun motivo di condividere il ritratto agiografico di Vladimir Putin) lo scritto realistico ed irridente di Israel Shamir mette un po' di cose al loro posto e merita un'ulteriore traduzione e diffusione, prima di chiudere definitivamente con l'argomento.

In mezzo all'ammirazione universale le Pussy Riot (PR per brevità) sono state promosse superstar. Ma chi sono? Non sono un gruppo rock o punk. Un giornalista britannico se ne è meravigliato: non producono musica, non scrivono canzoni, non dipingono. Nada, rien, nulla. Come si fa a definirle delle artiste? Per i loro sostenitori si è trattato di una prova non da poco, ma le PR l'hanno superata a pieni voti: il Dipartimento di Stato statunitense, famoso per le sue attività di mecenatismo, ha finanziato la produzione del loro primo singolo, curata da The Guardian partendo da qualche immagine e da un po' di colonna sonora.
Noi abbiamo uno stomaco che ci permette di tollerare l'oscenità e la blasfemia: personalmente sono un grande ammiratore di Notre Dame de Fleurs di Jean Genet, che riuniva entrambe le cose. Solo che le PR non hanno mai scritto, composto o ritratto alcunché che abbia un qualche valore. Chris Randolph le ha difese su Counterpunch paragonandole al "controverso Yegor Letov". Un paragone davvero fuorviante: Letov ha scritto poesia, piena di oscenità ma pur sempre poesia, mentre le PR non sanno fare altro che Pubbliche Relazioni.
Dannatamente brave nel farsi pubblicità ma parecchio alle corde dal punto di vista delle competenze artistiche tre giovani donne russe han deciso di... beh, sembra una filastrocca [nel testo inglese ci sono assonanze intraducibili, N.d.T.]. Hanno rubato un pollo congelato in un supermarket e lo hanno usato come un oggetto sessuale; hanno filmato il tutto, lo hanno chiamato "arte" e hanno messo il filmato sul web (dove tutt'ora si trova). Altri loro traguardi artistici sono stati un'orgia in un museo e la cruda esposizione di un organo genitale maschile eretto.
Anche in queste installazioni artistiche di dubbio gusto il loro ruolo si è limitato alla parte tecnica: la gloria se l'è presa l'artista russo-israeliano Plucer-Sarno di Mevasseret Zion, che ha avocato a sé l'ideazione, il disegno ed il copyright ottenendo anche un importante premio in Russia. Quelle che sarebbero diventate appartenenti alle PR non ci hanno guadagnato nulla, e Plucer le ha descritte come "ambiziose provinciali sgomitanti" o peggio.
Negli ultimi tempi hanno cercato di mettere in piedi un baraccone di lotta politica. Altro buco nell'acqua. Hanno rovesciato un torrente di oscenità su Putin nella Piazza Rossa e nelle stazioni della metropolitana: effetti ottenuti, nessuno. Non sono state arrestate, non sono state multate, sono soltanto state allontanate come si allontana una presenza fastidiosa. E non hanno attratto l'attenzione della gente. E' importante ricordare che Putin è un esecrato nemico degli oligarchi russi, che controllano la maggior parte dei mass media russi e che sono dietro alla maggior parte dei quotidiani moscoviti al punto che possono scrivere praticamente tutti i giorni talmente tante invettive sul conto di Putin che queste ultime hanno perso il loro valore dirompente. Non puoi inventarti ogni giorno che passa una nuova diatriba contro Putin, perché tutto è già stato detto e pubblicato. E Putin praticamente non interferisce mai con la libertà di stampa.
I miei amici stranieri che fanno i giornalisti di solito si stupiscono per la ferocia unanime che caratterizza le campagne anti-Putin dei mass media russi. Ricorda gli attacchi che la stampa liberale rivolgeva a G. W. Bush negli Stati Uniti, ma negli Stati Uniti ci sono molti giornali di orientamento liberale che nondimeno hanno sostenuto Bush. Putin invece non gode praticamente di alcun sostegno da parte del mainstream, che è tutto controllato da baroni del settore. La TV costituisce un'eccezione di rilievo, ma ha un orientamento esplicitamente apolitico e trasmette soprattutto robaccia d'intrattenimento, anche quella presentata da attivisti anti Putin come la signorina Xenia Sobtchak. Di conseguenza, le PR hanno fallito alla grande nel loro tentativo di suscitare un vespaio.
Alla fine le giovani virago si sono mobilitate per attaccare la Chiesa. A questo punto avrebbero fatto qualsiasi cosa pur di avere un po' di pubblicità. La campagna antiecclesiastica è iniziata qualche mese fa, ed è iniziata piuttosto all'improvviso, come se fosse partita a comando. La Chiesa in Russia ha avuto venti anni di pace, trascorsi riprendendosi dal periodo comunista, ed è rimasta sorpresa dalla ferocia dell'aggressione.
Questo argomento meriterebbe un'esposizione più lunga e cercheremo di essere brevi. Dopo il crollo dell'Unione Sovietica, nella vita quotidiana dei russi la Chiesa è rimasta l'unica importante forza spirituale dedita alla solidarietà. I governi di Eltsin e di Putin erano materialisti come i comunisti; predicavano e praticavano il darwinismo sociale di stampo neoliberista. La chiesa offriva qualcosa che andava oltre le illusorie ricchezze terrene. I russi, che avevano perso il collante della solidarietà prima fornito dai comunisti, hanno aderito avidamente all'alternativa proposta dalla Chiesa.
Il governo e gli oligarchi hanno trattato bene la Chiesa, perché la Chiesa mostrava una forte tendenza anticomunista e i possidenti avevano ancora paura che i rossi potessero mettersi alla testa di chi non possedeva nulla. La Chiesa ha prosperato, molte belle cattedrali sono state ricostruite, molti monasteri sono risorti dopo decenni di decadenza. La Chiesa, portata a nuova potenza, è diventata in Russia una forza capace di unire.
Una volta diventata forte, la Chiesa ha iniziato ad esprimersi in favore dei poveri e dei diseredati; i comunisti riformati guidati da Gennadi Zuganov, che frequenta la Chiesa, hanno a loro volta scoperto il modo di parlare ai credenti. Un economista e pensatore ben noto, Michael Khazin, ha vaticinato che il futuro appartiene al nuovo paradigma di cristianesimo rosso, secondo una linea simile a quella che si trova nei primi scritti di Roger Garaudy. Questo progetto rosso-cristiano costituisce una minaccia per le élite e rappresenta una speranza per il mondo, ha scritto Khazin. D'altro canto la Chiesa russa è venuta assumendo un atteggiamento molto russo ed antiglobalista.
Questa situazione ha probabilmente fatto accelerare l'attacco, ma tanto era soltanto questione di tempo prima che le forze anticristiane facessero un passo avanti ed attaccassero la Chiesa in Russia come l'hanno attaccata in Occidente. Quando la Russia è entrata nel WTO ed ha adottato i costumi occidentali, ha dovuto adottare anche la secolarizzazione. E dunque la Chiesa in Russia è finita sotto attacco da parte di forze che non vogliono che la Russia sia un paese coeso: gli oligarchi, il grande capitale, i padroni dei mass media, l'intelligencija moscovita filoccidentale e tutti i portatori di interessi occidentali, che preferiscono ovviamente una Russia spaccata al suo interno.
L'offensiva mediatica contro la Chiesa è cominciata partendo da questioni di poco conto: i mass media sono tutti entrati in fibrillazione per il costoso orologio del Patriarca, un regalo dell'allora presidente Medvedev. Il livello del fervore antireligioso poi si è fatto alto nelle file dell'opposizione liberale, quella che aveva dimostrato contro Putin prima delle elezioni e che ora aveva bisogno di un'altra causa da far propria. Viktor Shenderovich è un attivista anti Putin di primo piano, ed ha detto che si mostrerebbe comprensivo se i sacerdoti ortodossi russi venissero massacrati come successo negli anni attorno al 1920. Un altro visibile personaggio appartenente alle schiere dei contestatori liberali, Igor Eidman, ha esclamato "sterminiamo i parassiti", ovvero la Chiesa russa, usando i peggiori vocaboli attinti dalla biologia.
Il sedicente coordinatore delle PR, Marat Gelman, è un collezionista d'arte ebreo russo ed ha avuto a che fare con precedenti installazioni artistiche anticristiane che hanno contemplato la distruzione di icone e l'esposizione di apparati per clistere fatti a forma di edificio sacro. Il problema, per lui e per le PR, è che provocare una reazione della Chiesa si è rivelato difficile. Le PR hanno cercato per due volte di suscitare l'indignazione del pubblico nella seconda cattedrale di Mosca, la più vecchia Cattedrale Elochovsky; in entrambi i casi sono state cacciate, ma non arrestate. La terza volta hanno alzato il tiro e sono andate alla Cattedrale di Cristo Salvatore, quella che fu demolita negli anni '30 dello scorso secolo da Lazar Kaganovich e che fu ricostruita negli anni '90; hanno aggiunto un bel po' di blasfemie del genere più osceno, ed ancora una volta furono fatte allontanare in pace. La polizia ha fatto il meglio che poteva per evitare di arrestare queste virago, ma non ha avuto altra scelta dopo che le PR hanno pubblicato un video che le ritraeva all'interno delle cattedrali accompagnato da una colonna sonora fatta di oscenità.
Durante il processo la difesa e le accusate hanno fatto del loro peggio per mettersi a tu per tu con la giudice, minacciando il fatto che sarebbe incorsa nell'ira degli Stati Uniti (sic) e gridando a mo' di sfida affermazioni intrise di odio anticristiano. La giudice non ha potuto fare altro che trovare le accusate colpevoli di istigazione all'odio (la motivazione precisa è quella di "teppismo motivato da odio religioso"). Il processo non ha riconosciuto alle imputate l'aggravante di aver agito "con l'intento di causare una sommossa a carattere religioso", anche se la cosa sarebbe probabilmente stata appropriata ed avrebbe inasprito la sentenza; imputati accusati di aver disegnato in giro delle svastiche hanno avuto contestata l'aggravante di aver agito con l'intento di causare una sommossa e sono stati condannati a cinque anni di detenzione.
I due anni previsti dalla sentenza sono abbastanza in linea con la prassi che prevale in Europa. Per affermazioni tese a suscitare odio contro gli ebrei molto meno gravi di così, certi paesi europei condannano abitualmente gli imputati che incorrono per la prima volta nella contestazione di questo reato a pene comprese tra i due ed i cinque anni di carcere. I russi si sono avvalsi della legislazione contro l'istigazione all'odio contro imputati accusati di aver offeso la fede cristiana, e probabilmente questa è la relativa novità del caso in questione. I russi hanno mostrato di avere per Cristo la stessa considerazione che i francesi hanno per Auschwitz, e la cosa ha lasciato basiti gli europei, che a quanto sembra pensano che le leggi contro l'istigazione all'odio siano valide solo quando ci sono da proteggere gli ebrei o gli omosessuali. I governi occidentali invocano più libertà per gli anticristiani russi, ma allo stesso tempo la negano ai revisionisti sull'olocausto che si trovano nella loro giurisdizione.
L'opposizione anti Putin si è aggregata per sostenere le PR. Un capo carismatico dell'opposizione, il poeta Eduard Limonov, ha scritto che l'opposizione ha fatto un errore esprimendo il proprio sostegno alle PR, perché si contrappongono alla massa ed il baratro tra la massa e l'opposizione non fa che allargarsi. Ma la sua è stata una vox clamantis in deserto: tutto il resto dell'opposizione ha abbracciato con entusiasmo la causa delle PR cercando di farne un'arma contro Putin. Anche i mass media e i governi occidentali hanno usato la questione per attaccare Putin. Un'editoriale sul Guardian ha esplicitamente invitato Putin alle dimissioni. Putin ha invocato clemenza per le PR, ed il governo è rimasto imbarazzato dalla questione. Ma non c'erano scelte: chi manovrava le PR da dietro le quinte voleva che le virago finissero in carcere, e lo ha ottenuto.
Dal punto di vista commerciale è stato come vincere alla slot machine. Con il sostegno di Madonna e del Dipartimento di Stato, è probabile che lasceranno la cella pronte ad un tour mondiale con servizio fotografico alla Casa Bianca. Hanno registrato il loro nome come marchio ed hanno cominciato a venderne il franchising. Le loro dirette concorrenti, il gruppo Femen (la cui arte consiste nell'esporre i seni nudi in contesti inusuali) hanno cercato di battere le PR segando una grande croce di legno elevata a memoria delle vittime di Stalin. Ormai a far da limite non c'è che il cielo.
Agosto è il mese delle vacanze, non ci sono molte notizie serie; chi legge i giornali è al mare o in campagna, e ci ha pensato il processo alle PR a fornire tutto il divertimento che ci voleva a popolo e comune. Si spera che la questione esca da sotto i riflettori alla fine della stagione delle idiozie, ma non c'è troppo da scommetterci.

Israel Shamir è uno scrittore russo-israeliano apprezzato dalla critica e che gode di buona considerazione. E' scrittore prolifico ed ha tradotto in russo Joyce ed Omero. Vive a Jaffa, è cristiano ed è solito criticare epslicitamente Israele e il sionismo.

giovedì 23 agosto 2012

Alastair Crooke - Verso una nuova rivoluzione culturale nel mondo arabo


Gruppo salafita del "libero" esercito siriano (fonte: Angry Arab).


Traduzione da Asia Times.

Il "Risveglio" sta assumendo caratteri molto diversi rispetto al clima di eccitazione carica di aspettative con cui era stato accolto al suo primo manifestarsi. Generato da una iniziale e vasta spinta popolare, viene considerato sempre di più -ed inizia ad essere temuto- come una incipiente "rivoluzione culturale" di carattere controrivoluzionario: una sorta di reinculturazione della regione connotata da caratteristiche prescrittive che oggi come oggi sta deludendo le grosse aspettative che vi erano state riposte e che fa strame della connotazione che in Occidente ci si ostina a dargli, che sarebbe quella di una sorta di progetto riformista e democratico.
Invece di coltivare la speranza, la metamorfosi cui questo fenomeno è andato incontro ha prodotto un insieme di incertezza e di disperazione, soprattutto per coloro che vengono sempre più spesso indicati come "le minoranze", ovvero tutti i non sunniti. Questi brividi di timore nascono dall'impegno con cui alcuni stati del Golfo si adoperano per restituire ai sunniti la supremazia -o addirittura l'egemonia- nella regione: un obiettivo da raggiungere fornendo sostegno alla militanza sunnita in ascesa [1] e alla diffusione della cultura salafita.
Almeno sette stati sovrani del Medio Oriente sono oggi teatro di aspre e sempre più violente lotte per il potere: entità statali come il Libano, l'Egitto, la Libia, il Bahrein e lo Yemen stanno perdendo consistenza. I paesi occidentali non si curano neanche più di velare il proprio interesse ad un cambio di governo in Siria che segua quello avvenuto in Libia, e ad un corrispondente non cambio di governo nello Yemen.
In tutta la regione permane già oggi una condizione di conflitto a bassa intensità: l'Arabia Saudita ed il Qatar, sostenuti dalla Turchia e dall'Occidente, sembrano propensi a non fermarsi davanti a nulla pur di rovesciare violentemente un capo di stato arabo come il Presidente Bashar Assad, e a fare ogni cosa sia in loro potere pur di colpire l'Iran.
Gli iraniani sono sempre più propensi a considerare il comportamento dell'Arabia Saudita come un'esplicita propensione alla guerra aperta; i comunicati che arrivano dal Golfo assumono spesso toni istericamente aggressivi. Un editoriale recentemente pubblicato sul giornale saudita Al Hayat scriveva: "Il cima nel Consiglio per la Cooperazione nel Golfo indica che le cose stanno andando verso un confronto tra Consiglio e Iran e Russia nel teatro siriano, simile a quello che ha avuto luogo in Afghanistan ai tempi della guerra fredda. Sicuramente è stata presa la decisione di rovesciare il governo siriano, considerandolo vitale per l'influenza e per l'egemonia che la Repubblica Islamica dell'Iran ha nella regione". [2]
Qualunque fosse la natura della sincera partecipazione popolare che ha caratterizzato il "Risveglio" nei suoi primi momenti, essa è stata adesso dominata ed assorbita da tre progetti politici di vasta portata, che hanno tutti a che fare con questa forte spinta verso la riaffermazione di una precisa supremazia: il progetto dei Fratelli Musulmani, quello salafita di Arabia Saudita e Qatar, e quello salafita militante. La natura autentica del progetto dei Fratelli Musulmani non è nota ad alcuno; non si sa se sia quello di una setta o se sia davvero il progetto di più vasta portata attualmente in corso d'opera [3]; proprio questa incertezza genera tanti timori dotati di autentico fondamento.
A volte i Fratelli Musulmani si presentano come pragmatici ed aperti al mondo, anche se piuttosto problematici quando si tratta di arrivare ad accordi; altre voci che si levano dallo stesso movimento, anche se in sordina, evocano invece qualcosa che si rifà alla retorica di un salafismo letterale, intollerante ed egemonico. In ogni caso, appare chiaro che il piglio dei Fratelli Musulmani sta assumendo ovunque i toni della militanza settaria: sono questi gli aspri toni che si levano ben distinti dalla Siria.
Il progetto di sauditi e salafiti è stato messo a punto come diretto contaltare a quello dei Fratelli Musulmani: l'impegno dell'Arabia Saudita nell'appoggiare e sostenere generosamente i salafiti di orientamento filosaudita che operano nella regione ha lo scopo preciso di porre dei limiti e dei contrasti all'influenza dei Fratelli Musulmani [4] (per esempio in Egitto) e di togliere mordente a questo Islam riformista, che viene considerato minaccioso per l'esistenza delle autocrazie statali del Golfo perché mette esplicitamente in discussione l'autorità di queste monarchie assolute.
Il Qatar segue una linea che per certi versi è differente da quella saudita. Anch'esso fomenta, arma e finanzia la militanza sunnita [5] ma non agisce, al contrario dell'Arabia Saudita, con la stessa determinazione per contenere e circoscrivere l'influenza dei Fratelli Musulmani. cerca piuttosto di cooptarli col denaro e di farli schierare su un asse che comprende lo stesso Qatar e l'Arabia Saudita in un blocco sunnita che possa fare da argine all'Iran.
E' evidente che i Fratelli Musulmani hanno bisogno dei finanziamenti che arrivano dal Golfo per sedere al capo del tavolo in cui si spartiscono i poteri regionali; la linea politica più esplicita, più settaria e dai toni maggiormente carichi esibita dai Fratelli Musulmani serve probabilmente a ricordare che chi si addossa i compiti più gravosi è anche quello che decide come devono andare le cose... e sia il Qatar che l'Arabia Saudita sono organismi statali salafiti di orientamento wahabita.
Il terzo progetto, anch'esso generosamente finanziato ed armato da Arabia e Qatar, è quello del radicalismo sunnita senza compromessi e costituisce l'avanguardia di questa nuova "rivoluzione culturale": il suo scopo non è quello di contenere, ma di sostituire puramente e semplicemente la vecchia cultura sunnita con il salafismo. Al contrario dei Fratelli Musulmani questa componente, la cui influenza sta crescendo in maniera esponenziale grazie alla pioggia di denaro che arriva dai paesi del Golfo, non ha di per sé ambizioni politiche che riguardino in qualche modo gli stati nazionali.
Pur aborrendo la politica come la si intende di solito, questa componente ha comunque un carattere radicalmente politico: il suo obiettivo è niente di meno che la distruzione della cultura sunnita tradizionale e la sua sostituzione con le crude certezze del salafismo wahabita, con il loro secco distinguere tra bianco e nero, tra giusto e sbagliato e la loro enfasi sulla fedeltà nei confronti del potere costituito e della legge sacra. Gli elementi più radicali si spingono oltre, e contemplano una prossima fase in cui verranno acquisiti e controllati spazi territoriali in cui instaurare autentici emirati islamici [6] e, in ultima prospettiva, un vero e proprio califfato.
Si sta verificando un mutamento culturale e politico di vasta portata: la "salafizzazione" della tradizione islamica sunnita. L'Islam tradizionale si sta allontanando dall'eterogeneità e dalla sua coabitazione di lunga data con le altre sette e con le altre etnie. Si tratta di un ripiegamento su se stessi, di una introversione verso un più rigido asserragliarsi attorno alle certezze di quello che è giusto e di quello che è sbagliato, e all'imposizione di queste stesse "verità" alla società intera: non è una coincidenza il fatto che gli stessi movimenti che cercano di farsi rappresentare nelle sedi istituzionali ambiscano oggi ai ministeri della cultura e dell'educazione, più che a quelli della giustizia o dell'interno. [7]
Le motivazioni che guidano gli stati del Golfo sono chiare: i dollari del Qatar e dell'Arabia Saudita, assieme alla pretesa saudita di rappresentare il legittimo successore dei Quraiysh (la tribù da cui proveniva il Profeta) servono a dirigere il percorso dei sunniti in modo che le monarchie assolute del Golfo possano acquisire una nuova legittimazione e possano riaffermare la propria leadership tramite la diffusione della cultura salafita, che è caratterizzata dall'ossequio nei confronti del potere costituito in generale e del monarca saudita in particolare.
Nel corso della storia alcuni dei movimenti sunniti radicali beneficiati dalla generosità saudita si sono rivelati tra i gruppi più violenti, più propensi all'interpretazione letterale, più intolleranti e più pericolosi, sia per gli altri musulmani sia per tutti coloro che non detengono alcuna particolare "verità". L'ultima volta che realtà del genere sono state fomentate è stata nel corso dell'occupazione sovietica dell'Afghanistan: le conseguenze di quanto successe allora sono ancora oggi sotto i nostri occhi, nonostante siano trascorsi decenni.
Questi tre progetti, anche se possono a prima vista presentare dei punti in comune, sono in realtà in competizione tra loro. Sono tutti progetti che tendono al conseguimento della supremazia: progetti che hanno come scopo la presa del potere e che finiranno per scontrarsi, sunniti contro sunniti. Lo scontro in Oriente è già divampato con violenza.
Il salafismo dell'Arabia Saudita e quello ad orientamento radicale sono già stati fomentati in Yemen, in Iraq, in Siria, in Libano [8], in Egitto, in tutto il nord Africa, nel Sahara, in Nigeria e nel corno d'Africa. Non c'è da meravigliarsi delle preoccupazioni russe: l'Asia Centrale [9] non è certo immune dal fenomeno. I politici russi ricordano fin troppo bene quale fu l'impatto provocato ad un passo dalle loro frontiere da certe sollecitazioni, ai tempi dell'Afghanistan.
I russi trovano difficile capire come gli europei possano ancora una volta disinteressarsi delle conseguenze dei loro effimeri divertimenti domestici come il giochetto della caccia al dittatore, intanto che questo nuovo fermento radicale che si diffonde attraverso il Medio Oriente e l'Africa e che tenta di espandersi in Asia Centrale spiega le proprie forze alle soglie del continente Europeo, sull'altra sponda del Mediterraneo.
Il mutamento culturale in atto ha anche un'altra dimensione, evidenziata oltre un anno fa dal ministro degli esteri della Repubblica di Turchia. Il "Risveglio", disse il ministro, segnava la fine di un capitolo storico caratterizzato dalle divisioni che le grandi potenze avevano imposto ai musulmani quando frammentarono e divisero le vecchie provincie sunnite su cui l'Impero Ottomano dominava. Ahmet Davutoglu considerava questo "Risveglio" come una nuova "unificazione" dei musulmani, come la ricomposizione di una frammentazione causata dalla storia.
Non sorprende il fatto che il tema della comunità pan-musulmana e quello della riaffermazione della sfera di potere sunnita ricorrano oggi con sempre maggiore frequenza. [10] Davutoglu non ha citato la parola 'umma, che indica la comunità dei credenti, ma adesso molti lo stanno facendo. Si tratta di un discorso politico che preoccupa molto quanti in Medio Oriente non vogliono essere etichettati o minacciati in quanto minoranze, e che con tutti i suoi richiami agli echi dell'egemonia ottomana dei musulmani sunniti colpisce il loro percepirsi come cittadini uguali agli altri. [11]
Un mutamento culturale che va verso la riconsiderazione di una più ampia appartenenza musulmana (nessuno per adesso sta suggerendo la dissoluzione degli stati nazionali, anche se il primo ministro tunisino ha lasciato intendere di intravedere prossimo l'inizio del Quarto Califfato) ha delle implicazioni importanti anche per il conflitto tra Palestina ed Israele.
Negli ultimi anni abbiamo udito gli israeliani chiedere con insistenza il riconoscimento del loro stato come stato nazionale esplicitamente ebraico e non soltanto come Stato d'Israele di per sé. Uno stato ebraico, di principio aperto ad ogni ebreo che cerchi di tornarvi: la creazione di una 'umma ebraica laddove essa era esistita. Adesso sembra che nelle regioni occidentali del Medio Oriente si stia manifestando un'ambizione speculare a questa, che vuole il ristabilimento di una più vasta nazione sunnita; qualcosa che toglierebbe di mezzo le ultime vestigia dell'era coloniale.
Cosa significherà tutto questo per la Palestina? Il riconoscimento del diritto legale dei palestinesi ad uno stato nazionale rischia di uscire indebolito da questo anelito culturale all'instaurazione di una nazionalità e di un'appartenenza islamica di maggiore ampiezza? I diritti dei palestinesi, adesso cristallizzati nel concetto di stato nazionale, si trasformeranno per gradi in una più esplicita aspirazione islamica che superi i confini nazionali? La lotta assumerà i caratteri di una liotta primordiale tra simboli religiosi ebraici ed islamici, tra la moschea di Al Aqsa ed il Tempio?
Sembra che sia Israele sia le regioni che lo circondano stiano adottando un linguaggio che li porta molto lontano dai concetti ampiamente immanenti che ne sottendono le istanze e che per lungo tempo sono serviti a connotare la loro conflittualità. Quali potranno essere le conseguenze se questo conflitto, a causa della sua stessa logica, diventa uno scontro tra poli religiosi diversi?
Questa prospettiva a qualcuno sembrerà troppo pessimistica e persino minacciosa, ma questo succede perché molto spesso ci si accosta al Medio Oriente prima di aver acquisito una vera competenza in materia, senza considerazione per il diritto internazionale, senza considerazione per la Carta delle Nazioni Unite, e senza considerazione per il diritto che ogni nazione ha di essere se stessa a proprio modo.
In questo senso le pretese occidentali dapprincipio sono esagerate e prive di ogni logica, poi finiscono per implodere; il loro risultato è sempre un qualche unanime appello al "qualcuno faccia qualcosa", un'espressione che negli ultimi anni ha preso il significato di "fare qualcosa" ignorando il diritto internazionale, i diritti di sovranità e le Nazioni Unite. Un "fare qualcosa" in cui dettano legge gruppi orwelliani ed autonominati di "Amici di...", non importa quanto disastrose possano alla fine rivelarsi le conseguenze di questo "qualcosa".
La Siria è diventata il terreno di prova di queste intromissioni esterne; le vicende siriane [12] vengono determinate da questo potente schieramento delle potenze del Golfo intente a costruire un "nuovo Medio Oriente" tutto loro e non certo da una semplicistica narrazione fatta di riforme contro repressione, che impedice di collocare la Siria nel proprio peculiare contesto.
Molti siriani considerano oggi la lotta in corso non come un qualche cosa che riguardi le riforme -peraltro desiderate da tutti i siriani- ma come qualcosa di più primordiale, una lotta elementare in cui è in discussione l'esistenza stessa del concetto di Siria come tale, in cui entrano in gioco timori per la propria identità che toccano sensibilissimi ed infiammati nervi all'interno del mondo islamico. Non c'è da sorprendersi se oggi come oggi sono in molti a considerare la sicurezza più importante delle riforme.
Non c'è dubbio sul fatto che il Medio Oriente sia entrato in un periodo di profonde e turbolente lotte che definiranno il suo futuro e quello dell'Islam. Ma non è detto che questo periodo di trasformazione abbia gli esiti che alcuni possono pensare, o anche sperare: i paesi del Golfo possono anche perseguire ad oltranza i propri obiettivi, ma è proprio questo fatto a rendere vulnerabili anch'essi.
Il monarca saudita può anche aspirare ad unificare un mondo sunnita secondo la sua personale concezione di esso, ma difficilmente vi riuscirà comportandosi come si sta comportando. La sua rude vendetta contro Assad non sta affatto contribuendo ad unificare il Medio Oriente, ma soltanto a stravolgerlo; ed il ricorso continuo ai movimenti sunniti militanti sta causando violenti scontri in molti stati sovrani; in Oriente e al di là di esso la situazione sta già sprofondando in un conflitto di sunniti contro sunniti.
L'identità che i siriani hanno di se stessi, così com'è il caso di molte altre realtà nella regione, non ha mai avuto un carattere settario; affonda invece le proprie radici nella consapevolezza di appartenere ad una delle grandi nazioni della regione, dotata di un proprio modelo di società in cui vigevano "maggiore libertà religiosa e maggiore tolleranza... di quanta ve ne fosse in qualsiasi altro paese arabo". [13]
I siriani non si autodefiniscono sulla base dell'appartenenza settaria. L'intolleranza di stile wahabita che si basa su criteri settari è estranea al Levante, persino alla sua componente sunnita. Già stiamo assistendo, ad esempio in Egitto, a casi in cui certi movimenti vengono messi all'angolo anche da quanti tengono a definirsi islamici perché si pensa agiscano essenzialmente sulla spinta di motivazioni settarie. Nessuno ha voglia di cercarsi una camicia di forza di qualche altro genere. La domanda ricorrente è: i Fratelli Musulmani sono forse passati dalla "sopportazione" alla "dominazione"? La sensazione è quella di avere sostanzialmente perso qualcosa: in mezzo a questo processo di inculturazione intriso di autoritarismo, dov'è finito lo zelo riformatore, quello sinceramente rivoluzionario?


2 The Dangers of a Protracted Crisis in Syria, Al Arabiya English, 3 marzo 2012
3 The Two Faces of Egypt's Muslim Brotherhood, Der Spiegel, 22 maggio 2012
5 Arab World: Qatar, Midwife of the new Arab world, Jerusalem Post, 20 gennaio 2012
6 A Sunni Emirate in the North, Al-Akhbar English, 18 maggio 2012
7 The Two Faces of Egypt's Muslim Brotherhood, Der Spiegel, 22 maggio 2012
8 Lebanon's Sunni Street Takes Charge, Al-Akhbar English, 21 maggio 2012
9 SCO struggles to counter Arab Spring, Russia & India Report, 14 maggio 2012
10 Questions over Arab states' legitimacy, Gulf Times, 23 maggio 2012
11 Do Arabs want Turkey to lead the Arab awakening?, Hurriyet Daily News, 1 maggio 2012

mercoledì 22 agosto 2012

Stazione ferroviaria Roma Tiburtina: consigli per i viaggiatori


 Sono frequenti i casi in cui il primo ingresso nello stato che occupa la penisola italiana avviene tramite trasporti pubblici. Ovviamente -soprattutto in chi proviene da realtà socioeconomiche normali- il primo impatto con una quotidianità del genere provoca un'istantanea reazione emotiva in cui la sorpresa lascia il posto ad un profondo disgusto accompagnato da considerazioni sarcastiche.
All'ingresso della stazione ferroviaria Roma Tiburtina c'è una lapide ben visibile; a leggerla si viene a sapere che lo stato che occupa la penisola italiana contemplerebbe nel proprio ordinamento giuridico una figura chiamata "Presidente della Repubblica", che il 28 novembre 2011 avrebbe presenziato all'inaugurazione dell'infrastruttura.
La foto in alto ritrae la stazione Roma Tiburtina in un giorno di fine agosto dell'anno seguente, ad oltre otto mesi dalla inaugurazione. Androni deserti, quasi nessun passeggero, una generale atmosfera di trascuratezza ai limiti dell'abbandono. Molte scalinate sono precariamente sbarrate da quelle transenne talmente caratteristiche e talmente frequenti che lo stato che occupa la penisola italiana farebbe bene a includerle nel proprio stemma, insieme a 'nu chiatt 'e maccaruna c'a'pummarola 'n coppa.
Sono decenni che in tutto l'"Occidente" le infrastrutture come questa sono organizzate in modo da far percepire il trasporto passeggeri come una funzione residuale, secondaria a consumi dozzinali, alla vendita di paccottiglia e all'imperare delle pubblicità in grande formato. A ricordare la centralità e la funzione pubblica che il trasporto passeggeri su rotaia ha avuto, e che ha a tutt'oggi nelle società normali, sono rimasti pochi ostinati visionari degni al massimo delle accuse di terrorismo che la marmaglia delle gazzette rivolge ai nemici della propria committenza e delle conseguenti attenzioni della gendarmeria.
Il problema è che Roma Tiburtina riesce ad essere un completo fallimento anche come rivendita di paccottiglia, di stampa oscena e di generi alimentari scadenti a prezzo gonfiato. 
Il viaggiatore proveniente da realtà normali invano vi cercherebbe quello che caratterizza le stazioni ferroviarie di realtà normali, perché servizi igienici, fonti d'acqua potabile e panchine non producono reddito per nessuno ed è probabile che la loro presenza non sia mai stata contemplata, in alcuna fase della realizzazione dell'opera.
Per ottenere beni di consumo di importanza concreta e servizi utilizzabili occorre attraversare di buon passo questo monumento al mandolinismo ed attraversare a raso la Circonvallazione Nomentana. Si raggiungono in questo modo gli isolati compresi tra via Guido Mazzoni e viale Teodorico, in cui si trovano kababi, chioschi di bevande e negozi di generi alimentari capaci di garantire prezzi accessibili e servizio cortese.
Ad un rapidissimo esame sembrano tutti gestiti da cittadini di altri stati: gli stessi contro cui l'elettorato passivo peninsulare scatena abituali campagne di demonizzazione.

lunedì 20 agosto 2012

Alastair Crooke - Resistenza. Aspetti essenziali della Rivoluzione Islamica - Epilogo


Jacques Louis David, Leonida alle Termopili (1814)

“Aspettando i barbari”

C.P. Kavafis (1863-1933), poeta greco.

Che cosa stiamo aspettando, in assemblea nel foro?
Stanno per arrivare i barbari oggi.
Perché nel Senato non funziona niente?
Perché i Senatori vi siedono senza legiferare?
Perché oggi arrivano i barbari.
A che serve che i senatori facciano delle leggi?
Quando verranno, saranno i barbari a fare la legge.
Perché il nostro Imperatore si è alzato tanto presto,
e perché siede sul trono alle porte della città,
solenne, portando la corona?
Perché oggi arrivano i barbari.
E l'Imperatore si appresta a ricevere il loro capo.
Egli ha perfino una pergamena da dargli
Piena di titoli, con nomi imposti.
Perché i nostri due consoli e i nostri pretori sono usciti oggi
Indossando la loro toga ricamata e rossa?
Perché hanno messo i bracciali pieni di ametiste
Ed anelli che scintillano di magnifici smeraldi?
Perché portano i loro bastoni eleganti,
squisitamente lavorati d’argento e d’oro?
Perché oggi arrivano i barbari.
E cose come queste abbagliano i barbari.
Perché i nostri abili retori non si levano come al solito,
a fare i loro discorsi, a dire quello che hanno da dire?
Perché oggi arrivano i barbari.
E si annoiano della retorica e dei discorsi in pubblico.
E perché, all'improvviso, questa inquietudine e questa confusione?
(Come sono divenuti seri i volti!)
Perché le strade e le piazze si svuotano così in fretta
e perché rientrano tutti a casa persi nei loro pensieri?
Perché è scesa la notte e i barbari non arrivano.
E alcuni dei nostri sono tornati dalle frontiere dicendo
Che non ci sono più barbari.
E ora, che ci succederà senza i barbari?
Loro, bene o male, erano una soluzione.

sabato 18 agosto 2012

Alastair Crooke - Resistenza. Aspetti essenziali della Rivoluzione Islamica - Parte IV, Capitolo 10 - I limiti del presente


John Maxwell Coetzee, Nobel per la letteratura nel 2003, autore di Waiting for the Barbarians.

J.M. Coetzee, il famoso scrittore sudafricano, fa una metafora della società sudafricana descrivendo le traversie di un magistrato di provincia, un pubblico ufficiale dal comportamento responsabile, un po’ corrotto ma non brutale, che trascorre le sue giornate di servizio agli estremi confini dell’Impero, vicino ad alcune tribù barbare che si recano nella sua città solo per commerciare o per curarsi1.
Nell’epilogo il magistrato si trova davanti il colonnello Joll, un burocrate mandato dai servizi segreti dell’Impero, che afferma che i barbari stanno preparando una ribellione. Il colonnello guida una spedizione a caccia di ribelli, e ritorna con un gruppo di nomadi in catene, ammutoliti e terrorizzati. Nonostante il magistrato dica chiaramente che gli sembrano inoffensivi, i prigionieri vengono torturati secondo i metodi di quella “psicologia moderna” che rappresenta un po’ la firma dei servizi segreti del nostro tempo. La possibilità che i barbari non fossero colpevoli di alcun complotto rivoluzionario viene puramente e semplicemente tolta di mezzo, a giudicare dal modo in cui il colonnello descrive il sistema da lui utilizzato per condurre un interrogatorio. “Dapprincipio ottengo solo bugie, vedete, ecco come succede. Prima bugie, poi si fa pressione sull’interrogato, quindi arrivano altre bugie, quindi si fa ancora pressione, e alla fine arriva “la rottura”: si fa ancora pressione, ed ecco che arriva la verità”. Oppure, secondo la sarcastica riformulazione che il magistrato fa delle convinzioni del torturatore: “Il dolore è verità. Tutto il resto è suscettibile di dubbio”2 .
Impossibilitato a controllare o ad influire sugli eventi, il magistrato tenta di dissociarsi dal colonnello, anche se in tutta onestà deve ammettere di rappresentare egli stesso un prodotto della medesima identità coloniale. Non diventa un critico dell’imperialismo o un romantico difensore dei barbari: vuole semplicemente continuare a comportarsi nel modo indolente che gli è sempre stato proprio, trascorrendo le giornate in “vecchi passatempi”, tenendo una ragazza barbara “per il mio letto” e leggendo i classici durante le serate.
I prigionieri barbari vengono stroncati a forza di torture, e poi rilasciati. Uno di essi tuttavia, una impassibile ragazza con gli occhi nerissimi e dai lisci capelli scuri rimane indietro, e viene accolta dal magistrato che cerca di curarle le ferite e alla fine decide, in seguito ai confusi sentimenti di colpevolezza che la brutalità del colonnello ha risvegliato in lui, di riaccompagnarla alla sua tribù.
Rientrato a casa, il magistrato viene accusato di tradimento e di “intelligenza col nemico”. Viene imprigionato nella stessa baracca in cui venivano interrogati i barbari e viene ridotto, da umiliazioni e tormenti, ad una condizione subumana. Apprende così la grande lezione del XX secolo, e riflette così:
Quando i torturatori mi hanno riportato qui la prima volta… Mi chiedevo quanto dolore un uomo in là con gli anni, agiato e bene in carne avrebbe potuto sopportare in nome delle sue poco usuali convinzioni sul come l’Impero avrebbe dovuto comportarsi. Ma ai miei torturatori non interessava graduare il dolore. A loro interessava soltanto dimostrarmi cosa volesse dire vivere in un corpo che può conservare nozione di cosa sia la giustizia solo fino a quando è integro e sta bene, ma che se ne dimentica molto, molto presto quando gli viene presa la testa, gli viene cacciato un tubo già per la gola e gli vengono versate dentro pinte e pinte di acqua salata… Arrivarono in cella per mostrarmi “il significato della parola umanità”, e nel tempo di un’ora riuscirono a darmene un’idea veramente esauriente”3.
Il punto centrale nella storia di J.M. Coetzee, in cui la popolazione mista e nera del Sud Africa viene raffigurata sotto il leggero camuffamento dei “barbari” che vivono ai margini dell’Impero bianco era, come il professor Eagleton ha scritto in un altro contesto, costituito da una storia in cui “la razionalità, nel suo aspetto esteriore, viene raffigurata come demenziale perché cerca di controllare il mondo intero, e per far questo deve sconfiggere una realtà che continua a sfuggirle”. Ma proprio questa realtà che essa tenta di sconfiggere, alla fine, “si ribella scopertamente ai progetti paranoici avanzati dalla razionalità”4.
I vecchi costrutti psicologici non sono stati spazzati completamente via, il Medio Oriente non è stato “scioccato e disorientato” per diventare un satellite filooccidentale, ed il capitalismo globale mostra nuovamente i segni della sua innata tendenza allo squilibrio ed alle crisi.
Secondo Terry Eagleton “sarebbe semplicemente assennato riconoscere questa follia, e sarebbe da pazzi pensare che una follia simile potrebbe semplicemente essere rimessa al suo posto dalla ragione”. Le differenze tra il colonnello Joll di oggi ed i “barbari” islamici non sono mai destinate a fare da base per un dialogo, ma soltanto a servire per una guerra psicologica destinata a durare fino all’esaurimento. Uno Joll crede, allo stesso modo di molte altre sue controparti moderne, che i barbari siano capaci solo di cospirare o di balbettare, a meno che la purezza chiarificatrice di un intenso dolore non li conduca verso la verità.
Alla fine, ovviamente, la realtà fa irruzione nel mondo di Joll e dell’Impero, e vi irrompe con il suo resistere ai diritti speciali che si pretenderebbero per “i bianchi”, e con il suo resistere al razzismo del loro club all’antica destinato alle persone civili, che esclude i barbari ammassandoli dall’altro lato del muro del giardino.
Le convergenti forze della realtà in piena rivalsa rappresentano una sfida anche per la tranquillità di molti occidentali che corrispondono alla figura del magistrato, per i quali i colonnelli Joll rappresentano un’intrusione foriera di guai ma che al tempo stesso dirigono altrove il proprio spiazzamento, preferendo consolarsi la coscienza in altri modi e trascorrere le loro giornate in vecchi passatempi.
Al primo affacciarsi della realtà nell’Impero metaforico di Coetzee, il magistrato non intraprende un percorso “per difendere la causa della giustizia a vantaggio dei barbari”5. Eppure in conclusione, in modo pur confuso, un “atto di resistenza” finisce per verificarsi. E si tratta di qualcosa che non proviene dai barbari, ma simbolicamente dal cuore stesso dell’Impero: il magistrato, che ha accettato un’identità che è essa stessa parte dell’Impero, si mette comunque in cammino per riaccompagnare la ragazza barbara torturata alla sua tribù. Un piccolo atto di cortesia, che per Joll e per i suoi pari è invece un atto di sovversione dalle conseguenze molto più gravi perché simboleggia un atto di censura che viene direttamente dalla élite; una rottura, una piccola ma minacciosa crepa nel muro della determinazione collettiva.


La resistenza dall’interno
Coetzee mostra un magistrato che non è certamente una persona dalla moralità superiore: non è un ideologo e non è nemmeno un rivoluzionario che si oppone all’Impero: si trovava troppo bene a vivere come viveva, per considerare desiderabile qualche cambiamento radicale. Tuttavia il suo quieto interrogarsi sul senso e sulla giustezza di quanto veniva fatto in nome dell’Impero, e la sua consapevolezza istintiva che ci fosse qualcosa di profondamente storto risultavano sufficienti, in questa tutto sommato trascurabile esternazione di dubbi, ad aprire una crepa.
Nell’introduzione di questo libro abbiamo citato il religioso iraniano che affermava che il modo islamico ed il modo occidentale di considerare che cosa costituisse l’essenza dell’essere umano erano ormai qualcosa di troppo distante perché dei politici potessero intavolare un dialogo costruttivo, a meno che non succedessero due cose. Innanzitutto, dovrebbe iniziare a cadere dagli occhi dell’Occidente la benda che impedisce ad esso di considerare le rovine prodotte negli ultimi trecento anni dal pensiero scientifico strumentale. In secondo luogo, i pensatori occidentali dovrebbero cominciare a considerare come sia potuto succedere che questo tipo di pensiero abbia dato origine ad una simile lista di tragedie, che vanno dal genocidio alla scienza razzista, fino alla “dottrina dello shock”, intanto che loro rimanevano sinceramente (e su questo vocabolo il religioso iraniano poneva enfasi) convinti di star agendo per il meglio, nell’interesse dell’umanità.
Oggi sembra una cieca assurdità il rifarsi alla scienza razziale del XIX secolo, i tempi in cui antropologi come John Beddoes potevano mettere a punto un indice di “nigriscenza” per classificare gli abitanti delle Isole Britanniche in base alle loro caratteristiche razziali. Dapprincipio gli antropologi avevano concepito le “classi inferiori” come caratterizzate da un’autentica distinzione razziale rispetto alle classi medie e a quelle dell’alta società; anche gli irlandesi vennero letteralmente classificati come “scuri di pelle”. Le ricerche di John Beddoes evidenziavano che la “nigriscenza” cresceva tra i rappresentanti delle classi inferiori a causa della presenza di immigrati irlandesi, da lui descritti come “africanidi”6.
Oggi possiamo anche storcere il naso davanti a simili assurdità; ma sono davvero tanto diverse, quanto a completo disprezzo per le sofferenze e per le sventure umane che toccano alle vittime di “scienze” del genere, da quelle di scienze sociali contemporanee che hanno visto gli esperimenti di Pinochet in Cile nel 1973 condotti in nome dell’economia neoliberista, o la distruzione dell’Iraq trent’anni dopo, condotta in nome della concezione americana della democrazia? Che cosa ha provocato una tale distorsione della scienza e dell’empirismo? Che cosa è stato nell’ossessione dei protestanti e del modernismo laico verso la dimostrazione della loro utopia, e nel voler ad ogni costo dimostrare la non necessità di una religione collettiva, a indurre nell’Occidente un’amnesia di massa lunga trecento anni verso le conseguenze di tutto questo in termini di sofferenze umane?
Il religioso iraniano insisteva sul fatto che l’Occidente dovrebbe riflettere su tutto questo. Diceva che quello che soprattutto serve è che si faccia caso ai processi cognitivi. Sperava che da una riflessione del genere sarebbe stato possibile trovare un terreno comune su quello che costituisce l’essenza dell’essere umano e sui suoi valori, e che sarebbe stato possibile un esame del passato a partire da questa base.
Abbiamo citato anche, in modo analogo, il pensiero di Michel Foucault: l’Occidente deve capire che la sua visione del mondo ha generato ovunque una crescente ostilità e che i musulmani la avevano semplicemente scavalcata e superata per pensare al proprio futuro. Foucault ha detto anche che ogni civiltà deve affrontare circostanze, nel corso della propria storia, in cui ha bisogno di trovare nuove energie per superare i limiti dell’ideologia consolidata e per rinnovare il proprio modo di pensare.
J.M. Coetzee, nel suo racconto su un Impero basato sulla convinzione che i bianchi siano detentori di diritti esclusivi, ha mostrato in modo pungente come possa iniziare un processo di rinnovamento: un rivoluzionario assolutamente improbabile, un magistrato, inizia a rimuginare dubbi sulla necessità o sull’utilità di trattare le tribù vicine come barbari che minacciano l’esistenza dell’Impero e che possono essere persuasi a mondarsi della loro antipatia nei confronti di esso soltanto tramite la purificatrice esperienza del dolore puro. J.M. Coetzee ha suggerito che questi pochi dubbi, ed un interrogarsi argomentato sulla mentalità del colonnello di per sé costituiscono nientemeno che la base per un cambiamento.
Il magistrato non si è unito ai barbari, non si è immedesimato coi nativi al punto di prendere le armi contro l’impero. Ma ha cominciato, dopo un lungo periodo di piacevole sonnolenza, a pensare di nuovo in modo critico. E si è reso protagonista di un cruciale e simbolico atto di solidarietà umana.


Foucault e l’essenza del cambiamento
Un atto come questo, pensa Foucault, mette sulla strada giusta per scoprire le risorse necessarie a sfuggire all’autorità e per limitare l’influenza di un paradigma di pensiero dominante, consentendo al pensiero di raggiungere campi in cui è necessario il ragionamento critico. Certamente si deve far riferimento a processi molto più remoti nel passato, se vogliamo capire in che modo siamo rimasti prigionieri della nostra stessa storia7.
Foucault pensa che qualcuno possa sfuggire ai ricatti del pensiero consolidato e della propria storia tramite “un cambiamento che egli stesso produce in se stesso”8. L’essenza di questo cambiamento è costituita dall’avere “il coraggio e l’audacia di sapere”: una sorta di illuminazione che va considerata sia un processo in cui gli uomini prendono parte collettivamente, sia come un atto di coraggio che ciascuno deve compiere per proprio conto9.
Foucault fa l’esempio della scoperta dei principi della genetica, compiuta da Gregor Mendel nel 1865:
La gente si è spesso chiesta in che diavolo di modo i botanici e i biologi del XIX secolo riuscirono a non ammettere la verità delle affermazioni di Mendel. Ma questo è successo esattamente perché Mendel parlava di cose, usava metodi e collocava il suo lavoro all’interno di una prospettiva teorica che era totalmente aliena alla biologia dei suoi tempi.
L’opera di Mendel, che suggeriva che i tratti ereditari costituissero un oggetto di studio completamente nuovo per la biologia, venne ignorata ed osteggiata fino all’inizio del XX secolo, quando venne riscoperta. A questo punto divenne possibile una riconciliazione:
Mendel aveva detto la verità, ma non era dans le vrai [incluso nel contesto del vero] rispetto alla biologia dei suoi tempi: semplicemente non era attraverso linee come questa che gli oggetti e i concetti delle scienze biologiche venivano concepiti. Occorreva un vasto mutamento di scala, il dispiego di una gamma totalmente nuova di oggetti di studio, perché Mendel potesse essere incluso nel contesto del vero e le sue affermazioni apparissero per la maggior parte esatte. Mende era un autentico mostro, al punto che la scienza non disponeva del modo di parlarne in maniera adeguata10.
E alla sua morte i suoi scritti vennero bruciati.
Nel Sud Africa autentico, inteso come contrapposto all’Impero metaforico di Coetzee, la resistenza c’era comunque. C’era una resistenza armata, capeggiata dall’African National Congress (ANC) e c’era una resistenza non armata fatta di sindacati, di attivisti e di movimenti religiosi. E di tutto il processo faceva parte anche un attore meno scontato. Si trattava di una presenza che insieme alle altre costituenti, e nonostante il fatto che si trattasse di qualcosa di solitamente escluso dai conti, ebbe un ruolo fondamentale in quello che nel linguaggio di Foucault è “il cambiamento che qualcuno produce in se stesso”.
La élite bianca era rimasta impelagata nell’ideologia dei diritti d’eccezione riservati ai bianchi, nonostante il montare della resistenza armata e non. Ma pochi eminenti uomini d’affari bianchi, dall’interno del cerchio della élite, cominciarono a porsi qualche domanda sulla vita operativa e sulla razionalità che c’erano nell’intenzione dei loro stessi consimili di voler conservare questi diritti d’eccezione.
Si chiesero come sarebbe stato il mondo ai tempi dei loro nipoti, e cominciarono ad avanzare dubbi e critiche, ma da una piattaforma interna e propria del loro stesso gruppo. Videro che non si poteva tenere tanto a lungo a freno una realtà riluttante a farsi dominare e riconobbero la resistenza. Videro così l’ANC come una realtà che non sarebbe scomparsa solo perché veniva etichettata come terrorista.
Cominciarono ad esprimere concetti come questi, ed iniziarono a costruire dei collegamenti con gli attivisti che stavano al di fuori della loro élite, e che da molto tempo affermavano le stesse cose. Questi attivisti, proprio come Mendel, avevano detto la verità, ma dapprincipio essa non aveva trovato posto nell’àmbito dei concetti ammessi. Quello che avevano affermato, come le teorie genetiche di Mendel, all’inizio aveva provocato soltanto rabbia e indignazione. Ma gli Oppenheimer e gli angloamericani, come quel rivoluzionario improbabile che era il magistrato di Coetzee, iniziarono ad esibirsi in piccoli ma simbolicamente importanti “atti di resistenza”. La crepa era aperta.
Questa gente esibiva i propri tranquilli “atti di resistenza” nella convinzione che una società potesse diventare prigioniera del modo in cui presentava la propria storia e del proprio modo di pensare, in questo caso dal continuare ad invocare diritti eccezionali per i bianchi in Sud Africa, in una regione che già da molto tempo aveva guadagnato la propria indipendenza da cose come questa.
Questi uomini d’affari si accorsero che la realtà, rappresentata in questo caso dalla resistenza, non poteva essere annullata in eterno e che soltanto avanzando una critica che suonasse come una sfida all’interno dell’ambiente dominato da questo modo di pensare, soltanto col rifiutarsi di sottostare a quelle condizioni di volontà che ci fanno accettare l’autorità altrui era possibile rompere il ricatto perpetrato da questa pietrificata categoria del pensiero. Fu quindi dall’interno, dalla fortezza stessa dell’establishment bianco, che partì la mobilitazione resistenziale che avrebbe innescato il cambiamento.
Foucault aveva previsto che una critica, all’inizio, si imbatte sempre in qualche difficoltà perché si scontra con i limiti consolidati e generalmente condivisi imposti da anni di pensiero condizionato, di convenzioni stabilite e di una quasi impercettibile influenza conformista imposta dalle istituzioni e dall’ambiente in cui ci si trova ad operare. Ogni atto di libertà e di protesta deve per forza contemplare una deliberata infrazione di questi limiti11.
Gli uomini d’affari sudafricani che violarono le norme comunemente accettate dalla élite conservatrice bianca a cui appartenevano aiutarono la società a superare i propri limiti e le proprie angustie. La aiutarono a spostarsi al di là della prospettiva del sanguinoso futuro di conflitto sociale che in molti prevedevano per il Sud Africa.
Non vogliamo con questo suggerire che la situazione del Sud Africa di allora possa costituire un parallelo diretto alla situazione dell’Islam di oggi. Le cose non stanno in questo modo. Quello che stiamo cercando di esporre è il tipo di processo che Foucault può aver avuto presente quando scriveva di quanto aveva visto in Iran, e sulle sue implicazioni per il pensiero occidentale. E’ il processo di rottura con il passato che è avvenuto in Sud Africa, più che la situazione politica in se stessa, a poter servire da parallelo.
Coloro che in Occidente condividono le preoccupazioni del magistrato su quanto viene fatto in nome dell’Impero, e che si trovano a disagio davanti alla limitata prospettiva con cui il colonnello Joll concepisce il corretto trattamento dei barbari, possono anche darsi da fare in qualche modo. L’improbabile magistrato e la punta di diamante rappresentata dai businessmen sudafricani hanno levato le loro voci in segno di critica contro la prevalente ortodossia rappresentata dalla normalizzazione dell’ingiustizia. Si levarono in nome del rifiuto, anziché accettare come un fatto normale il comportamento dei colonnelli Joll e di considerarlo parte del normale susseguirsi degli eventi in quello che è l’ordinaria amministrazione della politica perfettamente depoliticizzata. Il magistrato ha compiuto un atto di solidarietà umana, gli uomini d’affari sono diventati parte della resistenza portata avanti dagli attivisti e dai loro movimenti sociali. Ma soprattutto hanno avanzato dei dubbi, si sono posti delle domande.


La sensibilizzazione politica
W.G. Sebald, che scrisse in merito a Jean Améry e al suo doversi confrontare con il trauma dei campi di concentramento, fa notare il senso di rabbia che è possibile riconoscere in molte delle sue opere. Améry giustificava questa emozione considerandola essenziale per vedere il passato in modo veramente critico: è lo stimolo della rabbia ad inchiodare ciascuno al suo passato distrutto12.
La sensibilizzazione della coscienza -e la visione critica del passato a cui essa apre la porta- è ciò che offre lo stimolo in risposta al quale ci si muove verso un nuovo modo di pensare sul piano politico, proprio come il religioso iraniano aveva accennato.
Il problema è che le emozioni legate alla rabbia e la sensibilizzazione della coscienza sono cose di difficile accesso nella politica di oggi, autopacificata ed eretta a stile di vita, che non si presenta più come una lotta nel contesto di quella che è un’esistenza sempre più povera di imprevisti e sempre più anemica. Non è facile ripoliticizzare la politica o la cultura, in un’epoca in cui la maggior parte della popolazione in Occidente vive in modo piacevole, sicuro e privo di dolori.
In questo senso è possibile condividere il pessimismo del religioso iraniano circa i risultati di un dialogo politico, pur notando che un cambiamento radicale fatto di nuovo modo di pensare e di nuovo linguaggio potrebbe essere prossimo, se solo quanti vivono in Occidente si mobilitassero ed iniziassero ad elevare critiche. Non col gusto puro e semplice di criticare, ma con il chiedere concreto ed incessante quali siano adesso gli scopi della potenza occidentale, e quali siano esattamente i valori su cui esso si fonda attualmente.
Non si tratta più di trovarsi dalla parte sbagliata del discorso “vero”, come si venne a trovare Gregor Mendel nella seconda parte del XIX secolo; il progetto di plasmare i costumi mediorientali e l’ordine mondiale emergente sulla base dell’immagine occidentale si sta rapidamente sfilacciando, ed in questa situazione il continuo porre freni e limiti tipico del pensiero securitarista occidentale dei nostri giorni rispecchia, come Jean Paul Sartre potrebbe aspramente constatare, quello dei colonnelli Joll di un’epoca ormai passata:
Ha già perso, ma non l’ha capito; non sa che i “nativi” sono dei “nativi” falsi. Deve farli soffrire, dice lui, per reprimere il male che hanno dentro loro stessi… Com’è possibile che non riesca a vedere che è la sua stessa crudeltà, adesso, a ritorcerglisi contro? Com’è possibile che non riesca a vedere la sua stessa ferocia di colonialista nella ferocia di coloro che opprime? La risposta è semplice: questo individuo arrogante, cui hanno dato alla testa tanto il potere e l’autorità quanto la paura di perderli, ha difficoltà a ricordare di essere stato, una volta, un uomo13.


Argomenti affrontati in Resistenza
La resistenza islamica è nata dal trauma dell’ingegneria sociale, della pulizia etnica, del sovvertimento dei sistemi politici, della repressione e dei massacri che sono stati la diretta conseguenza dell’esperimento occidentale che è consistito nell’esportare nelle società musulmane una visione della vita basata su un’economia di mercato liberata da ogni controllo politico e sociale. L’occidentalizzazione e la laicizzazione forzate della Turchia, e la brutalità del suo diventare stato nazione, simboleggiano i peggiori aspetti del modernismo laico. Il primo argomento toccato da Resistenza è stato questo.
Il secondo è stato che il mito occidentale del libero mercato, che si comporterebbe in modo da conciliare le scelte individualistiche ed egoriferite di uomini e donne, operando attraverso una mano invisibile per produrre le migliori condizioni di benessere umano, è semplicemente inconciliabile con l’Islam, e rappresenta una minaccia alla sua stessa esistenza. Si tratta di una visione costruita sui miti rappresentati dalla mano invisibile e dall’ordine che spontaneamente e per natura emergerebbe dal disordine della contesa egoistica e competitiva. Lo stato nazione di tipo occidentale, la dottrina dei diritti umani e le istituzioni della democrazia occidentale derivano tutti da questi stessi miti.
Il terzo tema affrontato in Resistenza è quello delle diverse introspezioni religiose che sottostanno al conflitto,  quello dei temi religiosi cristiani che stanno alla base del pensiero occidentale in materia di economia, di stato nazionale e dei principi attorno ai quali si organizza una società. Si tratta nella sua essenza di un conflitto che tocca sensibilità religiose profonde, che trova poi una sua sintesi nel modernismo laico.
Non è, invece, un confronto schietto tra Islam e cristianesimo. La tradizione anglosassone, incarnata dall’America, è nata da una lunga lotta tra quanto c’è di personalizzato, di fondato sulla libera impresa e dall’accettazione del cambiamento così com’è esemplificata da Abramo all’interno del protestantesimo, e la religiosità a base comunitaria tipica del cattolicesimo. Queste tematiche, originariamente protestanti, si possono vedere oggi riflesse nel linguaggio che l’Occidente utilizza nei confronti dell’Islam.
Un quarto argomento è dato dal fatto che in fondo l’intera disputa può essere ridotta a due punti di vista contrapposti su quello che costituisce l’essenza dell’essere umano.
In Resistenza si sostiene che sia successo qualcosa di importante nell’evoluzione dell’ideologia islamica. Gli islamici, che sono stati angustiati dal pensiero scientifico strumentale dell’Occidente allo stesso modo di molta gente nei secoli diciannovesimo e ventesimo, si sono improvvisamente liberati. L’importanza cruciale della Rivoluzione Iraniana è in questo fatto: essa ha liberato gli islamici dai limiti autoimposti che derivavano loro dall’egemonia del pensiero utilitarista. E questo è stato il quinto argomento.
L’ideologia che si è evoluta è dinamica e sostanziale. L’Islam sta acquisendo caratteristiche tipiche delle società aperte, unite ad una matrice di pensiero dinamica ed in evoluzione, mentre l’Occidente sta acquisendo alcune delle caratteristiche tipiche delle società chiuse. Questo fenomeno rappresenta un’inversione di quanto percepito a livello popolare in Occidente, ed è anche il sesto grande tema affrontato da Resistenza. Le componenti sociali ed economiche dell’Islam rappresentano la restituzione ideologica di una dimensione autenticamente politica sia alla cultura che alla politica vera e propria. Sono strumenti per la mobilitazione sociale di massa, piuttosto che scelte di vita che contrassegnano gli ambiti personali del singolo individuo.
Il sistema islamico ha poco senso, se analizzato semplicemente come competitore del sistema occidentale e giudicato per l’efficacia con cui esso riesce a raggiungere obiettivi stabiliti con criteri occidentali. L’economia islamica può essere compresa in modo adeguato soltanto partendo dall’aspirazione di regolare l’ambito personale all’interno del contesto di una società collettiva ed ispirata a criteri di giustizia.
A differenza del progetto occidentale, quello islamico non ha caratteristiche utopiche: rappresenta un sistema che viene predicato partendo da una considerazione realistica della natura umana. Non ha l’obiettivo di trasformare gli esseri umani tramite l’azione umana, ma crede che il comportamento venga influenzato dall’esperienza di vita compiuta in una comunità ispirata a giustizia e compassione, e da esseri umani che si comportano gli uni con gli altri come Dio ha ordinato.
Il settimo tema affrontato in Resistenza è che il principale filone della resistenza islamica è espressione della mentalità umana in condizioni di avversità, e rappresenta un’evoluzione naturale di eventi che possono essere spiegati e compresi dal punto di vista storico.
La resistenza è un mezzo per facilitare le soluzioni politiche perché costituisce un aiuto alla correzione degli squilibri asimmetrici, e perché costringe l’Occidente a riconoscere l’importanza dei principi di base necessari alla ricerca di una qualunque soluzione. In Resistenza si distingue tra la pratica di emancipazione di movimenti come Hamas e Hezbollah, la filosofia di “distruggere il sistema per costruire di nuovo” tipica di AlQaeda ed i propositi escatologici di certi gruppi salafiti. Si sostiene qui che il fallimento dell’Occidente nel compiere simili distinzioni rafforzi i movimenti più estremi, a tutte spese del filone principale.
Come ottava questione in, Resistenza si asserisce che la resistenza islamica non ha i caratteri di un “capriccio divino” più di quanto non li abbia la violenza sistematica messa in atto dagli stati occidentali e chiamata “legittimo uso della forza”. Entrambi hanno radici in temi religiosi. Si sostiene che la reazione dell’Occidente alla resistenza islamica ha tirato la volata ad un’ulteriore chiusura delle possibilità di dare spiegazioni storiche e razionali a questa resistenza, e ad interdire ad essa tutti i mezzi di comunicazione. Questo fatto rappresenta un riemergere delle vecchie tematiche protestanti e laiche tese a dimostrare che gli esseri umani dell’epoca contemporanea non hanno bisogno degli aspetti della religione che si vivono a livello comunitario.
Il nono argomento è che la demonizzazione dell’Islam non è il risultato di una scarsa comprensione di esso o un legittimo, ma in fin dei conti distorto, esercizio di capacità critiche. La demonizzazione dell’Islam rappresenta il frutto di una deliberata operazione ideologica che tra i suoi obiettivi ha quello di indebolire ovunque nel mondo il liberalismo, per rafforzare il potere americano di arrogarsi il diritto ad “azioni decisive”, e quello di giustificare un’accresciuta intromissione americana in Medio Oriente nel perseguire gli obiettivi previsti dall’agenda neoliberista. Gli islamici sono state in un certo senso le pedine di obiettivi strategici conservatori, centrati sull’assicurare una sconfitta irreversibile per il liberalismo ed il rafforzamento dell’egemonia globale americana.
Il decimo tema affrontato da Resistenza è che il perseguimento di questi obiettivi è stato fallimentare, e che questo fallimento va addebitato ad un modo di pensare che ha prodotto mucchi di macerie per tre secoli, e che negli ultimi anni ha aggiunto un’altra incredibile montagna di detriti a spese del mondo musulmano; un lascito che perseguiterà l’Occidente negli anni che verranno.


Spiragli sul futuro
Gli argomenti affrontati in Resistenza fanno pensare che è probabile che ci si trovi in un altro dei momenti cruciali della storia: sono state tragedie del genere, diffuse dalla frenesia ottocentesca e novecentesca per gli stati nazione prima e dalla moda del libero mercato poi, a far nascere la resistenza islamica e la Rivoluzione Iraniana. Quello che i musulmani hanno passato negli ultimi trent’anni in termini di ideologia occidentale, occupazione militare e tentate trasformazioni a mezzo di “terapie d’urto” sembra una spaventosa ripetizione dei disastri del ventesimo secolo, per giunta in forma concentrata.
Questo recente atto dello spettacolo di lunga data rappresentato dal progetto utopistico euroamericano è probabilmente foriero di vaste conseguenze, anche se  ancora troppo presto per identificare con chiarezza i suoi potenziali sbocchi.
Certamente esistono grosse differenze rispetto agli anni attorno al 1920; in quel periodo, l’Islam sunnita era disorientato e sotto shock. Il crollo del califfato aveva inferto un colpo psicologico ad una narrativa che già doveva pensare a difendersi, ed i cui studiosi stavano cercando di tagliare l’identità islamica a misura del pensiero occidentale. Il marxismo stava rodendo la base della comunità dei credenti, e i governanti di orientamento laico stavano svuotando la cultura e le tradizioni di tutto il loro contenuto islamizzato.
Possiamo ricordare che questo avveniva subito dopo che l’egemonia dell’utilitarismo scientifico occidentale aveva raggiunto il suo apice, e con esso anche una certa fase dell’ideologia del libero mercato. Già la marea rifluiva: i progetti di ingegneria sociale basati sul libero mercato realizzati in Europa nel XIX secolo avevano portato tensioni e sconvolgimenti politici arrivati al limite della rivoluzione in tutti i sistemi sociali delle grandi potenze continentali, in un processo che era stato dominato, e condotto verso altre direzioni, soltanto dallo sconvolgimento anche più grande rappresentato dalla prima guerra mondiale. Attorno al 1930 il capitalismo occidentale era piombato nella Grande Depressione, ed in ulteriori sconvolgimenti sociali.
L’atto dello spettacolo che si sta attualmente dipanando sembra seguire il copione del secolo trascorso almeno in un aspetto importante: l’America ed i suoi alleati hanno perseguito il loro progetto con gli stessi velenosi propositi, in questo caso particolare con l’aggiunta di un ingrediente extra rappresentato da una bella dose di millenarismo di stampo protestante. In questo caso però si sono imbattuti in una resistenza sempre più organizzata che sembra, almeno fino a questo momento, aver avuto successo.
Una differenza chiara tra allora ed oggi, a parte la pressoché totale mancanza di resistenza all’epoca, è che ai tempi industrializzazione e commercializzazione di massa erano fenomeni in ascesa, mentre oggi la loro credibilità è in larga parte svanita.
Sotto altri aspetti i paralleli con la storia dei primi decenni del XX secolo sembrano funzionare: lo scontento sta montando in Europa ed in America, ed in Europa ed in America la crisi finanziaria ed economica da lungo tempo attesa sta avanzando a grandi passi. Come successo ai tempi, questa combinazione di fattori fa presagire seri rovesci politici. Fa pensare anche che ci troviamo sull’orlo di un mutamento significativo, e con esso anche degli sconvolgimenti che i mutamenti significativi spesso comportano.
E’ possibile intravedere un rovesciamento dei ruoli in queste due fasi, da una parte rispetto alla situazione e alle condizioni dei popoli europei e dall’altra parte rispetto alle condizioni dei corrispettivi musulmani che vivono nel mondo islamico. Nel corso degli ultimi cento anni sono stati i musulmani a vedere distrutta la continuità politica e le strutture del loro mondo: le loro società sono state individualizzate e nel complesso anestetizzate dal punto di vista politico. Riemergere da questa situazione ha richiesto del tempo, ma alla fine sono tornati sia la resistenza sia la fiducia in se stessi e l’autostima degli islamici. L’Islam ha attraversato un periodo cupo e ne è emerso con nuovo vigore, come una forza dinamica in grado di opporsi al neoliberismo.
Curiosamente, l’impatto del neoliberismo in America ed in paesi come il Regno Unito ha lasciato molti dei cittadini nelle stesse condizioni in cui si sono trovati i musulmani alle prese con i progetti di grande laicizzazione e di modernizzazione del passato secolo: ha indebolito e danneggiato le strutture sociali, commerciali e professionali; ha individualizzato la società, indebolito la classe operaia e la classe media, infranto la capacità di autoregolarsi delle comunità ed eroso i sistemi di sostegno comunitari. Ha lasciato gli europei e gli americani in condizioni di alienazione, a vivere in condizioni economicamente dolorose che si traducono in un’afflizione recondita e che isola dagli altri, ed alle prese con poca possibilità di azione politica contro una élite dagli interessi consolidati: un quadro molto simile a quello dei musulmani nei tempi di occidentalizzazione forzata che seguirono la fine del califfato.
Tutto questo costituisce una sorta di inversione dei ruoli: i cittadini europei sembra stiano provando, come risultato di aver fatto da cavia per un rinnovato esperimento neoliberista, un po’ quello che hanno provato i musulmani nel corso dell’ultimo secolo, anche se chiaramente gli europei non hanno dovuto passare gli orrori del massacro e della pulizia etnica intesi come parte dell’esperimento in corso. Sarebbe interessante chiedersi, ma la cosa esula dall’argomento del libro, se la risposta dei popoli europei a tutto questo si tradurrà in un rinnovamento della politica ed in azioni di protesta, come è successo per i musulmani.
Nelle società musulmane i tempi della protesta non sono certo finiti. Il progetto occidentale può anche trovarsi in una fase di caos, ma l’Occidente rimane molto potente in termini di forza militare. La sua “grande narrazione” può aver perso mordente o aver perso di legittimazione per la maggior parte del mondo, ma il prevalere della potenza di fuoco sull’autorità morale sta lì a ricordare che i poteri imperiali non hanno mai abbandonato le proprie posizioni di supremazia rapidamente o facilmente.
Sembra probabile che l’Occidente dovrà preoccuparsi, nei prossimi anni, della propria crisi economica e che inevitabilmente questo determinerà un restringersi del sostegno per una politica estera basata sull’interventismo. L’America ha attraversato circostanze di questo genere alla vigilia del fallimento in Vietnam, ma anziché intervenire direttamente per proteggere il vantaggio americano dai contendenti decise di incoraggiare le forze schierate dalla stessa parte e di promuovere movimenti frontali in paesi dell’Africa, ad esempio, per continuare così a combattere la sua guerra fredda contro l’Unione Sovietica. 
Nel Medio Oriente continueranno ad esistere e a minacciare di sfociare in guerra aperta tensioni dinamiche strategiche di fondamentale importanza, soprattutto tra uno stato d’Israele apparentemente incapace di raggiungere la pace con i paesi confinanti ed un Iran in ascesa che sfida il dominio militare israeliano nella regione. I fallimenti della politica occidentale hanno lasciato alcuni politici musulmani allo scoperto e passibili di subire minacce: alcuni stanno già rispondendo tentando di incoraggiare l’azione delle forze reazionarie dei salafiti radicali, per contrastare l’influenza sciita. Questo sta già minacciando di introdurre elementi di instabilità settaria in alcune zone della regione.
Ancora più importanti nei prossimi anni saranno le conseguenze economiche e sociali di tre elementi separati ma ricchi di legami tra loro. Uno è la crisi economica iniziata in Occidente; il secondo è la crescita del prezzo delle derrate alimentari, che ha cause strutturali proprie oltre al premere dell’inflazione della moneta, ed il terzo è la probabilità che gli alti costi dell’energia danneggino tutti i settori dell’economia.
Questa perversa combinazione di prezzi crescenti e di crisi economica piomba su una regione il cui tessuto sociale è stato stirato fino a diventare trasparente. In Occidente le economie del Medio Oriente vengono dipinte come contesti che sono stati in grado di trarre dei vantaggi dalla globalizzazione economica, ma questo è un mito: i super ricchi della regione hanno di sicuro conosciuto ulteriore prosperità, ma la grandissima parte dei quattrocento milioni di abitanti della regione ha trascorso un decennio di redditi reali in sensibilissima diminuzione, con l’assottigliamento delle classi medie.
Significative e crescenti percentuali della popolazione musulmana adesso vivono in condizioni di assoluta povertà, laddove gli appartenenti alla élite dominante sono diventati sensibilmente più ricchi e ancora più distaccati dalle comunità cui pure risalgono le loro origini, preferendo aggregarsi alla carovana dei super ricchi che si sposta per le sedi di cui dispone in tutto il mondo ed in cui i suoi appartenenti possono godere ciascuno della compagnia dell’altro.
La crescita dei prezzi, insieme al diminuire dell’occupazione, si andrà ad aggiungere alla miseria dei molti musulmani che già vivono come lavoratori immigrati in condizioni che ricordano più la schiavitù legalizzata che non le costruite credenze occidentali nei benefici della libertà economica del capitalismo globalizzato. Il prezzo in forte crescita delle derrate alimentari che si è già verificato e che continuerà a verificarsi nei prossimi anni significa l’indigenza per coloro che già vivono in povertà: non soltanto il fare un nuovo buco alla cintura dei pantaloni, come molti potrebbero pensare. Dobbiamo attenderci una crescita del radicalismo politico e, con il crescere del disagio, un rivolgersi all’Islam.
Il successo dei movimenti islamici dipenderà in larga parte dal loro avere successo nell’offrire ai settori sociali disagiati ed impoveriti un chiaro modello alternativo a quello occidentale, sul piano economico e sul piano sociale. E’ probabile che il terreno dello scontro ideologico dei prossimi anni sia proprio questo.
Il miscuglio costituito dalla prolungata permanenza militare statunitense nelle società musulmane, di tumulti sociali e politici che nascono dalla crisi economica e dall’incremento demografico, dalle dinamiche delle tensioni strategiche che si traducono nel favorire le lotte condotte per procura a livello locale è potenzialmente letale; questo significa che è possibile che si stia entrando in un periodo di concreta fluidità, di concreta tensione e di veri cambiamenti.
Se il primo atto del progetto occidentale nell’ultimo secolo ha causato la nascita dell’ideologia islamica, sembra che questo secondo atto produrrà nel corso del suo dispiegarsi cambiamenti politici di vasta portata. E’ possibile che le forze distruttive, a doppio taglio e potenzialmente anarcoidi liberate dagli sconvolgimenti economici possano mettere in moto fenomeni al di là del possibile controllo di qualsiasi movimento politico; questo è un rischio reale, ma probabilmente anche uno scenario troppo pessimistico.
L’evento più significativo che è emerso dalla Rivoluzione Islamica è rappresentato dalla liberazione del pensiero dalla lunga tutela cui lo ha sottoposto la tirannia dell’utilitarismo. “Siamo liberi di utilizzare di nuovo la ragione, in tutta la sua pienezza”, ha notato il capo di Hezbollah. Gli ultimi anni hanno introdotto una corrente di nuove idee nel mondo musulmano, come abbiamo cercato di dimostrare negli ultimi capitoli di questo Resistenza. Raymond Williams concludeva il suo Cultura e società, 1780-1950 con questo commento:
Esistono idee e modi di pensiero che possiedono al loro interno il seme della vita, mentre ce ne sono altri, probabilmente profondamente riposti nella nostra mente, che possiedono invece i semi di una morte generale. La nostra capacità di riconoscerli e di dare loro un nome, rendendo possibile a tutti di riconoscerli a loro volta, può forse fornire letteralmente la misura del nostro futuro14.
Il magistrato di servizio alle estreme frontiere dell’Impero, turbato da quanto si stava facendo in nome dell’Impero stesso e per reazione ai distorti valori umani del colonnello Joll, aveva riconosciuto e dato un nome a quelle idee, a quel modo demenziale di pensare che aveva al suo interno i semi di una serie di tragedie; nel suo modo confuso, ma istintivamente giusto, combatteva la sua guerra fatta di piccoli atti ribelli di umana solidarietà. Riaccompagnò alla sua tribù la ragazza barbara torturata e ferita.
Come sarà il nostro futuro può dipendere da quanti altri in Occidente proveranno di essere pronti a criticare, a compiere lo stesso gesto simbolico di solidarietà compiuto dal magistrato, e a seguire gli uomini d’affari sudafricani che capirono che era necessario riconoscere la loro situazione e, come l’ateniese citato da Platone, si misero al lavoro per riportare la politica verso la sicurezza della terra ferma. 

1 J.M. Coetzee, Waiting for the Barbarians, London: Penguin, 1982.
2 Ibid., p. 5.
3 Ibid., p. 115.
4 Terry Eagleton, Holy Terror, Oxford: Oxford University Press, 2005, p. 11.
5 J.M. Coetzee, Waiting for the Barbarians, p. 108.
6 Citato da Arun Kundnani, The End of Tolerance, London: Pluto Press, 2007, p. 12.
7 Michel Foucault, ‘Qu-est-ce que les Lumières?’, in Paul Rabinow (ed.), The Foucault Reader, London: Penguin Books, 1991,pp. 32–50.
8 Ibid.
9 Ibid.
10 Michel Foucault, The Archaeology of Knowledge and the Discourse on Language, New York: Pantheon, 1972, p. 224.
11 Michel Foucault, ‘Qu’est-ce que les Lumières?’
12 Citato da  Slavoj Žižek, Violence, London: Profi le Books, 2008, p. 160.
13 Jean-Paul Sartre, nella pretazione a Frantz Fanon.  The Wretched of the Earth, New York: Grove Press, 2004, p. 11.
14 Raymond Williams, Culture and Society 1780–1950, London: Penguin, 1985, pagina conclusiva.