martedì 29 novembre 2011

I supermarket Esselunga e la tradizione russa dell'impiccagione dei salmoni


Un catalogo di prodotti dei supermarket Esselunga. A pagina 17, per la precisione.
Una foto reclamizza salmone a tranci da un chilo, a trentasei euro.
La didascalia dice 'Salmone Newá allevato in Norvegia, lavorato dal fresco con sale marino, zucchero, miele ed erbe aromatiche, affumicato con legno di faggio e quercia, filetto intero, scatola da 1 Kg'.
E fin qui tutto nella norma.
Poi si aguzza l'occhio, e si va a vedere l'etichetta attaccata al salmone della foto (la pessima qualità dell'immagine è dovuta al PDF originale). Sull'etichetta, che nel cartaceo è molto più chiara, c'è scritto 'Newá, kartsjonskaja lasókj(?), SALMONE AFFUMICATO PER IMPICCAGGIONE (con due G) secondo l'antica tradizione russa'.
Veniamo dunque a sapere, grazie ai bottegoni (definizione di Luciano Bianciardi) della Esselunga, che in Russia vige la tradizione (antica, ovviamente) di impiccare i salmoni per affumicarli.
Nulla di strano: ci sono tutori dei "diritti umani" che quando non passano il tempo a sgranocchiare gelati e patatine spaparanzati in qualche automobile costosa, si sgolano a giurare che nella Repubblica Islamica dell'Iran si lapidano le adultere.
Peccato che poi venga fuori che nel Regno Unito non è nemmeno necessario provare l'accusa di adulterio. Altra e più avanzata civiltà, di quelle da esportare addirittura.
Se le cose stanno in questo modo, non si capisce per quale motivo nella Federazione Russa non siano padroni di impiccare qualche pesce.

domenica 27 novembre 2011

"Occidentalismo" fiorentino, gazzette ed organizzazioni: un'aritmetica del fallimento

La foto mostra un politico "occidentalista" mentre maneggia un pallottoliere durante un discorso del presidente della camera bassa a Roma, il 14 dicembre 2010 (fonte: un portale rimasto, per una volta, stranamente a corto di ragazze svestite).
Sulle differenze che esistono tra individui come questo e quelli che agiscono in contesti meno sovvertiti abbiamo già avuto modo di esprimerci: visto che i mangiaspaghetti apprezzano tanto il pallottoliere (nella Repubblica Islamica dell'Iran invece si usano i computer portatili), cerchiamo di utilizzarlo anche noi, nelle righe che seguiranno.

Dal 22 novembre 2011 "Il Giornale della Toscana" manca dalle edicole per 3 (tre) giorni.
Le 25 (venticinque) o 28 (ventotto) persone che vi "lavorano" per produrre 8 (otto) pagine 6 (sei) volte la settimana asseriscono di non percepire compensi da 4 (quattro) mesi, quindi hanno scioperato.
Nel corso dei 13 (tredici) anni in cui si è ammassato invenduto in qualche edicola, "Il Giornale della Toscana" ha trattato ogni battaglia politica ed ogni rivendicazione sindacale di cui ha avuto contezza con quel distacco sprezzante e con quella sufficienza ridanciana che sono uno dei marchi di fabbrica dell'"occidentalismo" fiorentino: di qui la perfetta, logica e sommamente giusta solitudine in cui questi degustatori di casatielli si trovano a combattere la propria battaglia, ricorrendo con la solita coerenza ad uno degli strumenti tanto oggetto del loro abituale vituperio. Da parte sua la Società Toscana di Edizioni S.p.A. ha avuto anche la delicatezza di rampognarli in prima pagina sul primo numero tornato nelle edicole.
Totalmente refrattari anche all'apprendimento per tentativi ed errori, a "Il Giornale della Toscana" hanno proseguito senza cambiare registro: autoreferenzialità, pallone, pallonate, pallonieri e palloneggi. Più un'islamofobia d'accatto giusto per arrivare a sera, sulle cui ridicole e spregevoli basi ci siamo già soffermati.
Sul sito di Publikompass, che di lavoro fa in modo che delle 8 (otto) pagine suddette almeno 1,5 (una e mezza) presentino pubblicità con giovani donne sommariamente vestite e beni inutili e costosi, l'editore di cui sopra dichiara una tiratura di 10519 (diecimila cinquecento diciannove) copie, con 3 (tre) lettori in media per ciascuna.
Sempre Publikompass ci informa del fatto che un'altra gazzettina "occidentalista" in piena crisi, La Padania, tirerebbe 60000 (sessantamila) copie. Secondo un portale perfettamente in grado di starle a pari per obiettività e correttezza, a "lavorare" a La Padania, dove per lavorare si intende scrivere roba del tipo "se ne fregano della crisi e danno il voto agli immigrati" sarebbbero non 25 (venticinque) o 28 (ventotto), ma addirittura 30 (trenta) redattori. 15 (quindici) di loro sono già stati interessati "a un lungo periodo di cassa integrazione": 4 (quattro) anni, con scadenza 31 (trentuno) dicembre.

CALO DELLE VENDITE - La tiratura ufficiale è di 60mila copie, ma quelle acquistate sono molte di meno, e si parla di incentivi all'esodo, cassa integrazione a rotazione, contratti di solidarietà, insomma tutti tagli per alleggerire i costi.
Dallo stesso comunicato diffuso da questi "lavoratori" si evince che su 30 (trenta) persone che hanno scelto in piena consapevolezza di dedicarsi alla stampa, non se ne trova neppue una in grado di elaborare una grafica decente per l'issue cartaceo. Tanta professionalità merita un pubblico e sostanzioso riconoscimento.
LE PERDITE - Le perdite della Padania sono pari a un milione di euro all'anno, nonostante i quasi 4 milioni che riceve ogni anno grazie ai contributi previsti dalla legge sull'editoria per i fogli di partito.
Entrambe le gazzette sono accomunate da una linea editoriale ispirata ad un "occidentalismo" impermeabile ad ogni confutazione, in primo luogo a quelle che provengono dall'evidenza. Non sappiamo se in quelle redazioni si disponga di un vocabolario: quand'anche fosse, il significato del vocabolo coerenza è in esse lasciato all'arbitrio estroso di gente che riesce ad accedere ad una ciotola di maccheroni ogni giorno grazie a quei fondi pubblici che dovrebbe disprezzare e a quel sostegno statale che dovrebbe aborrire.
Negli stessi giorni altri segnali di avvenuto sbandamento arrivano dalle stesse azioni del politicame "occidentalista", ogni giorno capace di nuove prove di ridicolo.
Una schedatura sul Libro dei Ceffi omonima di Francesco Torselli, l'"occidentalista" fiorentino inventore di quella Casaggì cui il maggior partito "occidentalista" della penisola ha fatto il vuoto attorno -togliendo legittimità all'unica organizzazione territoriale che gli "occidentalisti" siano riusciti a mettere in piedi in una città dove sono abitualmente una specie minoritaria, dileggiata e coperta di disprezzo- presenta un'altra aritmetica, altrettanto rivelatrice.
...non posso non soffermarmi al 14 gennaio 2005. Quel giorno inaugurammo “Casaggì Firenze”. Eravamo in 7. Scrivemmo sul nostro blog che all’inaugurazione avevano partecipato decine di persone entusiaste dell’idea, poi ci guardammo in faccia e ci dicemmo che forse era davvero venuta l’ora di gettare la spugna.
La spugna non la gettammo per un semplice motivo: tanto non se ne sarebbe accorto nessuno...
Sui veri e propri casi umani schierati a Firenze e dintorni dalla formazione "occidentalista" di cui La Padania è il gazzettino ufficiale abbiamo più volte edotto i nostri lettori. Nel novembre 2011 la formazione politica che doveva "cambiare colore" alla città, portando anche in essa le nefandezze "occidentaliste" note a tutti, conosce una tale ondata di diserzioni da far dire ad uno dei suoi esponenti in rotta che "qui si chiude la storia della Lega Nord Toscana".
Possiamo concludere che neppure nelle più sfavorevoli delle condizioni l'"occidentalismo", fiorentino e non, rinuncia a restituire ogni giorno il proprio coerente quadro di miserie umane e di umani miserabili.
Non si metterà mai abbastanza in evidenza come sia a gente simile, nello stato che occupa la penisola italiana, che viene abitualmente affidata la responsabilità editoriale e politica di selezionare ed eleggere i singoli, le organizzazioni, gli stati sovrani bisognosi di accurate lezioni di civiltà e di "democrazia".
"Se essere civilizzati dipende dal bere whisky a dieci tuman la bottiglia o sedere in dososhkek dorate o su una sedia dorata, o spendere un tuman per la tovalet, o trenta tuman all'ora per una donna sifilitica, sperperare in scommesse mille sterline o essere irrispettosi verso i santi uomini che rompevano i loro digiuni soltanto per un giorno e che davano ai poveri ogni loro avere, beh, allora sono disgustato da questa civiltà".

Hassan Jaberi Ansari, 1923[*]


[*] Cit. in A. Gheissari, Iranian intellectuals in the 20th century, University of Texas Press, Austin 1998.

martedì 22 novembre 2011

22 novembre 2011. "Il Giornale della Toscana" non è in edicola: grande esultanza sui forum di Al Qaeda.


Nella foto, quelli d'Al Qaeda mentre sono contenti perché "Il Giornale della Toscana" non esce.

Una gazzetta amica riferisce che
L'assemblea dei redattori de 'Il Giornale della Toscana', riunita in forma permanente, ha deciso di non far uscire oggi in edicola il quotidiano «per il momento di grave difficoltà che sta vivendo la testata». «I redattori - si afferma in un comunicato - sono in attesa di conoscere le intenzioni dell'azienda, dal momento che non vengono percepiti gli stipendi da quattro mesi.
Esistono ancora soggetti capaci di exploit incredibili: in questo caso pare che venticinque -o ventotto- persone abbiano retto per centoventi giorni riverendo contesti, individui ed iniziative dall'abiezione conclamata ed integrale, tali da suscitare comportamenti di estremo disgusto e scostanza in chiunque abbia un minimo di umanità residuale, senza percepire alcuna somma.
Per un'organizzazione che si picca della propria professionalità di voce fuori dal coro si tratta di un destino poco glorioso ed ampiamente prevedibile, ma lasciamo che a gioire siano quelli di Al Qaeda, che come tutti sanno passano le loro giornate a scrivere su quei forum in internet che la redazione di via Cittadella ha tanta cura di monitorare ogni giorno.
Per questo compito è essenziale la conoscenza approfondita dell'arabo, del pashtun, del farsi e dell'urdu, oltre ad un'infarinatura di lingue del gruppo uralo-altaico: tutti sanno che in quella redazione sono sempre stati capziosi per quanto riguarda la competenza dei collaboratori in tutti i settori dell'orientalistica. Proprio queste competenze devono aver permesso qualche settimana fa, a qualcuno de "Il Giornale della Toscana", di sorprendere attivisti di Al Qaeda mentre si esprimevano con soddisfazione sull'alluvione in Garfagnana.
Limitiamoci a ripubblicare quanto scrivemmo un anno fa, giusto per dare un'idea della professionalità e dello stare fuori dal coro come sono intese dai gazzettieri, e lasciar trarre le conclusioni ai lettori.
Almeno per oggi, la sensazione di averne sempre avuti di più de "Il Giornale della Toscana" diventa una certezza.



A Firenze le gazzette "occidentaliste" non mancano davvero, a cominciare da quel "La Nazione" che da più di un secolo e mezzo agisce imperterrita per il deterioramento del tessuto sociale della città in cui ha sede. Negli ultimi dieci anni l'involuzione del mainstream ha permesso exploit di tutti i tipi nei settori del securitarismo, dei linciaggi mediatici e della propaganda politica presentata come "informazione", e questo ha anche inflazionato il numero delle gazzette: spingere i sudditi a riconoscere il peggio di se stessi nella stampa quotidiana, evidentemente ha garantito e garantisce entrate considerevoli.
"Il Giornale della Toscana" è proprio una di queste gazzettine, la cui locandina giallastra non è peraltro presente neppure in tutte le edicole.
Quella del 31 ottobre 2010 urlava che secondo un certo Bonaiuti "infrastrutture e cultura" sono "priorità" secondo il maggior partito "occidentalista" al governo nello stato che occupa la penisola italiana.
Questo Bonaiuti dovrebbe avere una carica in esso governo. Ma non divaghiamo.
Infrastrutture. Ai tempi della campagna elettorale con il palloniere inviato perentoriamente a Firenze per "cambiarle colore", il piddì con la elle cercò di riempire il vuoto assoluto di proposte che non fossero galera, galera e galera, gendarmi, gendarmi e gendarmi con una serie di proposte una più demenziale dell'altra. Ad un certo punto saltò fuori, durante un convegno al Palazzo dei Congressi in cui il partito maggioritario della penisola raccolse tanta gente quanta un centro sociale qualunque ne raccoglie in una serata qualsiasi, di... interrare i viali di circonvallazione. "Il Giornale della Toscana" riportò tutto fedelmente, arciconvinto di essere preso sul serio: d'altronde, chi non prende sul serio questa roba non può che essere un terrorista. Nella realtà dei fatti non c'è minimo intoppo alla viabilità stradale che non sia oggetto di lamentele in consiglio comunale e alla stampa. Figuriamoci cosa non succederebbe se davvero si decidesse di procedere anche solo a qualche saggio sul suolo per verificare la fattibilità di una simile idiozia.
L'allargamento a tre corsie della autostrada A1 attorno a Firenze è in corso d'opera da otto anni, tutti dominati da governi "occidentalisti" con l'eccezione del periodo 2006-2008. I pannelli luminosi con le cifre che andando al contrario segnalavano il giorno previsto per la fine dei lavori sono stati tolti in silenzio e fatti sparire con discrezione.
Pensano alle infrastrutture, pensano.
Cultura. La pochezza "occidentalista" in questo settore supera il descrivibile, e lo supera di svariate misure. Alla cultura, al pari di ogni altro elemento del reale, gli "occidentalisti" dedicano interesse proporzionale alla possibilità che produca un reddito quantificabile in denaro o una rendita di posizione quantificabile in suffragi. Nel caso di Firenze l'impegno diretto dei partiti "occidentalisti" in questo senso si riduce da tempo immemorabile all'incensamento di qualche figura dai meriti pregressi e dimenticati o capace di fornire avallo con la propria presunta statura intellettuale a qualunque bassezza venga voglia di perpetrare a questa gente.
Il secondo titolo rimette in pari la bilancia tornando al consueto refrain pallonistico. Il palloniere citato ha riempito il gazzettaio per settimane e non certo per le sue gesta "sportive", trovando avallo, giustificativi e comprensione laddove su uno zidar qualsiasi che si fosse reso protagonista di qualcosa di simile sarebbe stata scagliata la solita panoplia gazzettiera di degradensihurézze, sentenze esemplari, certezza della pena e via ciarlando.
Pensano alla cultura, pensano.
Nelle stesse ore in cui in via Cittadella si mandava in macchina questa roba, il fondatore del "partito" del Bonaiuti su ricordato tornava in testa ai titoli di tutti i mass media del pianeta e contribuiva all'ulteriore rafforzamento della corretta immagine che in contesti meno involuti, dal deserto siriano agli altopiani kirghisi, le persone hanno della penisola italiana. E l'immagine che in contesti meno involuti le persone hanno della penisola italiana è quella dell'equivalente geopolitico di una spaghetteria di provincia in cui si smercino anche videocassette pornografiche ed immagini di Padre Pio, intanto che sul retro si affittano camere ad ore a marmaglia in canottiera.
Il fondatore del "partito" di Bonaiuti ricopre attualmente la carica di primo ministro nello stato che occupa la penisola italiana. Uno strano giro di telefonate alla gendarmeria milanese fatto a maggio scorso indica che costui era sollecito della sorte di una minorenne di origine marocchina accusata di furto, in merito alla quale il materiale reperibile sul web consentirebbe di farsi un'idea piuttosto precisa. Ed altrettanto precisa è l'idea che ci si può fare del tipo di rapporti che lega un elemento del genere all'ambiente frequentato da uno dei massimi responsabili di uno stato cui sono sottoposti più di sessanta milioni di sudditi. Il resto lo fanno le vergognose imputazioni contestate a razzumaglia dello stesso giro.
Sono evidenti almeno un paio di cose: la prima è che l'islàmme sarà anche il male personificato, ma evidentemente gli "occidentalisti" non temono di venirne contagiati per via venerea. La seconda è che alla diciassettenne accusata di furto il gazzettaio usa riguardi che gli equivalenti che provenissero da qualche campo rom e finissero in mano alla gendarmeria con un'accusa identica non riceverebbero di certo.
Tranne in caso di pregressa e risaputa frequentazione di certi ambienti.
Altro dettaglio non secondario: nonostante la ragazza sia di origine marocchina, le telefonate la qualificano nipote del presidente egiziano.
I casi sono sostanzialmente due.
1)Il primo ministro dello stato che occupa la penisola italiana non ricorda il nome del presidente marocchino (si noti che il Marocco è un regno) e lo confonde con quello di un paese che sta dall'altra parte del continente, con tutte le conclusioni che da questo è possibile trarre.
2) Il primo ministro dello stato che occupa la penisola italiana non ha la minima idea delle sue stesse frequentazioni, con tutte le conclusioni che da questo è possibile trarre.
Le infrastrutture.
La cultura.

domenica 20 novembre 2011

Moazzam Begg - Jihad e terrorismo: la guerra delle parole



Traduzione da Cultures of Resistance.


Durante il periodo che ho trascorso in carcere, prima a Bagram e poi a Guantànamo, ho subìto più di trecento interrogatori. Ne ricordo uno in particolare, che subii ad opera della CIA durante il terzo anno della mia prigionia negli Stati Uniti, con un certo divertimento.
Riferendosi a me l'agente continuava a ripetere la parola "terrorista". Pensai che non c'era nulla di nuovo. Poi fece uso di un'equazione algebrica per provare il suo punto di vista, alquanto puerile, e cercare ad indurmi a collaborare. "Tu sei come questo X+Y=Z", mi disse scrivendo la sua scoperta. "X sei tu, Y è il fatto che non collabori, Z sta per terrorista. Un terrorista che rimarrà qui per molto, molto tempo". Dopo tre anni di questa roba i militari statunitensi e i loro esperti di alfabeto non mi incutevano più alcun timore: gli risposi che algebra era una parola araba che infondeva senza dubbio terrore nel cuore degli occidentali... e anche in quello degli orientali, per quanto può importare (almeno se da adolescenti avete studiato la trigonometria). Gli dissi anche che algebra non era l'unica parola in arabo a spaventare l'Occidente, e che lui lo sapeva.
Esistono centinaia di parole in inglese che hanno radici etimologiche nella lingua araba. Il significato della maggior parte di esse è considerato appurato e non suscita troppe dispute presso le persone che fanno uso corrente della lingua inglese. I numerali arabi sono stati rivoluzionari ed hanno soppiantato quelli romani che erano più scomodi da utilizzare. Le parole "alcali", "chimica", "arsenale", "cifra", "ammiraglio", "magazzino", "sorbetto", "sciroppo", "tariffa", "zenith", "algoritmo" ed anche "scacco" sono solo alcuni dei vocaboli che si rifanno a quel passato islamico ed arabo che hanno aiutato a civilizzare il mondo. Poche parole sono state considerate con un misto di repulsione e al tempo stesso di ammirazione per la loro coloritura esotica e misteriosa, come "assassini", "Saraceni" o "harem". Esiste poi una parola in arabo, entrata nell'uso dell'inglese di oggi, che provoca più confusione, sospetto, ostilità e paura di qualunque altra: jihad. E giunta l'ora che i musulmani rimettano un po' di cose a posto.
La parola jihad deriva dalla radice del verbo jahada che significa letteralmente "lottare". Un lessico arabo descrive il jihad come "il fare ogni sforzo per ottenere qualche cosa di desiderato o per sottrarsi a qualcosa di sgradito". Partendo da questo significato letterale molti musulmani e non musulmani limitano erroneamente il concetto di jihad. L'importanza dello jihad spirituale -il cosiddetto jihad del nafs, ovvero del sé- va sicuramente riconosciuta, ma si deve tenere presente il pericolo intrinseco che esiste nell'applicare una interpretazione letterale a vocaboli che hanno significati condivisi e sui quali esiste consenso negli ambienti dell'insegnamento islamico e della giurisprudenza. Affrontare l'argomento in questo modo non è utile ad affrontare i problemi, concretissimi, che derivano da traduzioni deliberatamente erronee di vocaboli arabi e da costrutti sbagliati messi in piedi con parole arabe e concetti; rischi dai quli non è immune neppure l'Islam.
Le cinque prghiere quotidiane dell'Islam sono indicate, nella loro forma singolare, con la parola salaah. Su questo non esistono dubbi e chiunque tentasse di restringere la pratica della preghiera al significato etimologico della parola, che vuol dire semplicemente "connessione", direbbe un'eresia. Allo stesso modo, reinterpretare l'obbligo islamico della zakaah -che indica la tassa che i musulmani devono pagare e che va ai poveri, ai mendicanti, agli esattori delle tasse, agli orfani, ai pellegrini ed anche ai mujahedin- parlando di "purificazione" (il significato etimologico è quello) susciterebbe indiscutibile riprovazione. Quelli che si impegnano nello jihad vengono chiamati mujahedin, e coloro che vengono uccisi nel corso di esso sono detti shuhadaa, ovvero "martiri". Sarebbe assurdo per gente che considera il jihad come "la lotta quotidiana della vita" definirsi mujahedin in vita e martiri dopo morti.
Il Concise Oxford Dictionary descrive il jihad come una "guerra religiosa dei musulmani contro i miscredenti; campagna militare pro o contro una dottrina". In Occidente si fa comunemente riferimento al jihad come a "guerra santa". Ma in arabo guerra santa suonerebbe "Harb al-Muqadassah", un'espressione che non compare né nel Corano né nella Sunna, che costituiscono le fonti migliori per comprendere il significato di jihad e di qualunque altro concetto della dottrina islamica. I concetti di jihad e di qitaal ("combattimento") nel Corano ricorrono più di un centinaio di volte in totale; entrambi sono spesso accompagnati dalle parole "fi sabeel lillah" (per la causa divina). L'argomento jihad è sviluppato in modo molto dettagliato in tutto il Corano: alcune sure delle più lunghe sono dedicate ad esso in modo pressoché esclusivo. Tutti i libri che contengono 'ahadith autentici, ovvero i detti e le azioni attribuiti al Profeta, contengono centinaia di paragrafi sotto il titolo complessivo di jihad. Questo vale anche per le centinaia di trattati generali sul fiqh, la giurisprudenza islamica, come per quelli centrati espressamente sul jihad.
Gli studiosi islamici hanno definito quattro livelli nel jihad. Il jihad del nafs, ovvero "del sé", il jihad contro Shaytan, contro il diavolo, contro i desideri, il jihad contro i miscredenti e gli ipocriti ed il jihad contro gli oppressori e contro chi commette deliberatamente il male. Limitare il concetto di jihad ad una sola interpretazione è dunque scorretto. Il miglior modo per accostarsi ad esso consiste nel riconoscere che i suoi vari livelli si completano a vicenda, più che contraddirsi l'uno con l'altro. Si può intraprendere un jihad fisico con il cuore e con le parole allo stesso modo con cui lo si intraprende con la propria ricchezza o con le proprie azioni. Uno hadith attribuito al Messaggero che afferma "Il mujahid è colui che si leva in lotta contro la propria stessa anima" non nega e non ne contraddice un altro, che cita il jihad come "il massimo di ciò che è importante" o come una buona azione la cui ricompensa è senza pari.
Esiste consenso nelle scuole islamiche sull'assunto secondo il quale il jihad diventa un dovere individuale come la preghiera ed il digiuno per gli uomini e le donne musulmani le cui terre siano occupate da nemici stranieri. Questo obbligo si estende man mano alle terre confinanti, fin quando il nemico non è stato respinto. Se l'intera comunità dei credenti non assolve a questo obbligo, si trova in condizione di peccato; se un numero sufficiente di appartenenti alla comunità dei credenti riescono a portarlo a termine, tutti sono assolti. Lo jihad compiuto facendo ricorso alla propria ricchezza è obbligatorio quando c'è da assicurare la liberazione di musulmani prigionieri. L'imam Malik ha affermato: "se un musulmano è prigioniero di guerra... è un obbligo per gli altri assicurare la sua liberazione, anche se essa richiede tutto quello che i musulmani possiedono". Alcuni studiosi suppongono che quand'anche il jihad fosse proibito con decisione nell'islam, esso sarebbe permesso sotto la spinta della necessità nel caso le terre musulmane vengano invase, secondo la stessa logica che rende permesso ai musulmani il consumo della carne di maiale nei casi in cui non vi sia nient'altro da mangiare.
Nel corano esistono anche ammonimenti precisi, che riguardano i musulmani che abbandonano il jihad: se non procedete sulla via del jihad Allah vi infliggerà un grave castigo e vi sostituirà con un altro popolo; voi non sarete in nessun caso in condizioni di infliggerGli alcun danno. Il potere di Allah si estende su ogni cosa, ed uno hadith attribuito al Profeta afferma: "Un popolo non abbandona il jihad, a meno che non venga umiliato".
Dal punto di vista storico il Corano esorta in ogni caso a soccorrere chi si trova in condizioni di oppressione. E qualunque sarà la causa per cui non combatterete in nome di Allah, dei deboli e degli oppressi tra gli uomini, delle donne e dei bambini che gridano 'Signore, proteggici da questa città i cui abitanti ci opprimono, innalza per noi qualcuno che ci proteggerà, innalza per noi qualcuno che aiuterà il nostro popolo', vi sono comunque stati altri che hanno sempre ascoltato questo appello. Col trascorrere del tempo il loro numero è diminuito, ma il Profeta ha detto: "Mai cesserà di esistere in mezzo alla mia gente un gruppo che continuerà a combattere per quella verità che è evidente a quegli stessi che sono loro ostili..."
Durante gli anni Ottanta del passato secolo il vocabolo mujahedin in Occidente ha fatto esclusivo riferimento ai combattenti afghani che resistevano all'occupazione sovietica del loro paese. Il loro nome venne portato in palmo di mano in Europa ed in America ed il loro grido furibondo, sotto la bandiera del jihad, venne sostenuto dalle fatwa (pareri vincolanti per i credenti) degli studiosi islamici così come dai leader e dai politici occidentali. Ci si mise perfino Hollywood, pompando i "gloriosi mujahedin" con una bella dose di Sylvester Stallone in Rambo 3. Un dato di fatto che per ragioni di convenienza è stato spinto nel dimenticatoio ai giorni d'oggi è che unità mujahedin afghane ed arabe furono portate durante gli anni Ottanta nel Regno Unito, e ricevettero addestramento da parte dei commandos del SAS tra le pittoresche montagne del parco nazionale di Snowdonia e nelle highland della Scozia. Testimoni che facevano parte dei loro istruttori raccontano di come trovarono che i mujahedin, montanari essi stessi, erano degli ottimi allievi. In concreto fu grazie ai lanciarazzi antiaerei spallabili forniti dalla Gran Bretagna che il volto della guerra afghana cambiò. Anche se non nella maniera che gli inglesi avrebbero voluto.
L'elicottero - cannoniera sovietico Mil 24, a volte chiamato "il carro del Diavolo", col suo terrificante arsenale di cannoncini e razzi, portò il finimondo sugli scarsamente difesi villaggi di fango dei mujahedin afghani. Avevano poche capacità di difesa antiaerea e questo è il motivo per cui gli inglesi dettero loro i lanciarazzi, che si rivelarono peraltro poco efficaci. A questo punto gli Stati Uniti provvidero rifornimenti clandestini di missili Stinger a testata cercante, un'arma con un tasso di letalità di sette colpi su dieci. Questi missili rappresentarono il catalizzatore che cambiò il volto e le sorti della guerra, del jihad, in Afghanistan.
Va detto che il sostegno internazionale per i combattenti della resistenza afghana, araba e musulmana era ampiamente diffuso, ed essi non venivano certo definiti, con sprezzo sbrigativo, "jihadisti" invece di mujahedin, dediti al "jihadismo" invece che al jihad, e all'"islamismo" invece che all'Islam. Dobbiamo anche dire che i mujahedin allora non mettevano a segno attacchi contro obiettivi civili in Occidente.
Nei primi tempi dell'Islam, ed anche in epoca preislamica, i campioni appartenenti a schiere opposte usavano sfidarsi a duello in singolar tenzone. Si trattava di una prova di mascolinità (rajolah) in cui entravano le competenze ed il coraggio individuali. Il Messaggero (benedizione su di Lui) e i suoi compagni erano famosi per la loro ferocia e per la determinazione che in battaglia dimostravano contro i nemici, almeno quanto lo erano per la misericordia e la magnanimità che dimostravano nei confronti degli sconfitti. In uno dei più famosi duelli mai entrati a far parte della storia islamica, durante la Battaglia della Trincea Alì, il cugino del Profeta, accettò di misurarsi con Amr, "il più grande guerriero d'Arabia". Dopo un lungo ed estenuante duello, Alì riuscì a mettere sotto il rivale. Nel momento in cui il colpo di grazia stava per abbatterglisi addosso, Amr sputò sul viso di Alì. Quello che Alì fece allora, viene ricordato in tutta la storia islamica -che siano sunnite o sciite le fonti- come esempio insuperabile di comportamento disinteressato; qualcosa che oggi è raramente messo in pratica. Alì si levò con calma dal petto di Amr, si pulì il viso e disse: "Sappi, Amr, che io uccido soltanto alle condizioni che Allah mi ha indicato, e non per miei motivi personali. Mi hai sputato in viso; ucciderti adesso potrebbe venire da un mio personale desiderio di vendetta. Dunque ti risparmio la vita". Non esiste alcuna rajoolah o alcun onore nell'uccidere dei civili disarmati.
Il personaggio forse ritenuto più degno di considerazione nel mondo musulmano dopo il Profeta Muhammad (benedizione su di Lui) è Salah ed'Din, Saladino. L'aver liberato Gerusalemme e la Terrasanta dai crociati gli ha guadagnato in eterno nella storia un posto nel cuore dei musulmani. Ancora oggi, in questi giorni traumatici e di tirbolazione, non è insolito udire gli imam delle moschee implorare la venuta di un simile liberatore. Ma è il senso di ammirazione che l'Occidente gli ha riservato a rendere Saladino un caso tutto speciale. Si sono costruite leggende sulla sua magnanimità verso gli avversari, il suo senso di cavalleria è considerato esemplare. La sua umiltà, il suo senso di misericordia, il suo coraggio, il suo senso dell'onore, la sua integrità morale e la sua generosità sono le cose verso cui i musulmani in generale ed i mujahedin in particolare ripongono le loro maggiori aspirazioni. La presa di Gerusalemme da parte di Saladino nel 1187 fu magnanima a paragone del deliberato bagno di sangue che i crociati fecero nel 1099. Perdonò molti di coloro che avevano combattuto contro di lui, liberò molti prigionieri e concesse libertà di passaggio e rispetto ai civili. Eppure, molti non musulmani che hanno coraggiosamente sfidato le convinzioni errate in materia di Islam che circolano in Occidente sono caduti nella trappola della negazione. In un meraviglioso libro sulla vita di Saladino, uno storico scrive, ed è qualcosa che lascia esterrefatti: "Nel ventunesimo secolo, la parola jihad risuona potente nel mondo islamico. Anche se il vocabolo non si trova nel Corano, esso è entrato molto presto nell'uso comune". Errori di questa evidenza non fanno che rafforzare l'idea che in Occidente si desidera davvero poco comprendere l'Islam nella sua vera essenza.
Dopo gli attacchi dell'11 settembre l'amministrazione statunitense cercò di lanciare la propria "guerra al terrore" con il nome di Operazione Giustizia Infinita. Il malaccorto Bush jr., facendo riferimento alla "sua crociata", capì presto quanto offensivo potesse risultare per i suoi potenziali alleati musulmani che gli Stati Uniti si mettessero praticamente pari a pari con il divino. La ridenominazione fu infelice anch'essa, L'Operazione Libertà Duratura ha provato oltre ogni dubbio che la libertà degli americani era piuttosto -almeno per tutti noi che siamo stati abbastanza sfortunati da provare le loro carceri- un qualcosa che dovevamo sopportare. Per noi avrebbe dovuto chiamarsi Operazione Fine della vostra Libertà, e lo stesso per le altre migliaia di persone che sarebbero finite man mano in carcere in tutto il mondo. E' iniziata come espressione del desiderio di giustizia ed è diventata un atto deliberato di vendetta; adesso è una guerra contro una fede religiosa e contro tutto ciò che essa concede -o con cui obera- la sua gente.
I musulmani hanno appreso il significato della "giustizia americana" di Bush a Guantànamo, a Bagram, ad Abou Ghraib e in molti luoghi segreti di detenzione sparsi in tutto il mondo. Le procedure di arresto extragiudiziale (rapimento, detenzione in carceri camuffate, tortura), gli abusi religiosi, razziali e sessuali, il trattamento crudele, inumano e degradante sono tutti concepiti per terrorizzare le vittime ed hanno portato a false confessioni che sono servite come puntello per estendere l'occupazione delle terre dei musulmani. Questo è terrorismo della peggiore specie, specie perché tutto questo è stato fatto in nome della virtù. Nei campi di detenzione di Guantànamo -un posto dove perfino le iguana sono protette dalla legge, che le tutela con lo Endangered Species Act- i prigioneri non hanno diritti legali o diritti umani. Ogni cosa che viene loro concessa è un privilegio, carta igienica compresa. Fuori da ciascun campo c'è una targa che recita "Difendere la libertà è una questione di onore". L'ironia pungente sta nel fatto che in un luogo del genere c'è tanto onore quanta libertà.
Sono stati poco onorevoli anche i violenti attacchi contro la popolazione civile, che hanno provocato 2976 morti negli Stati Uniti, 191 in Spagna e 52 nel Regno Unito. Ma almeno in questi casi conosciamo i numeri, precisi fino all'ultima cifra, perché ogni singolo individuo è importante. Invece migliaia di tonnellate di missili tomahawk, di razzi hellfire, di bombe a grappolo, di bombe intelligenti, di bombe al fosforo, di "tagliamargherite" da millecinquecento libbre e miliardi di proiettili sparati dalle mitragliatrici e dai fucili d'assalto hanno ucciso più persone in Iraq ed in Afghanistan di quanto sia possibile sapere. Esistono stime che vanno dalle centomila ai due milioni. La ragione per cui non esistono stime attendibili per questi paesi è che nessuno contava niente. Né coloro che uccidevano, né coloro che venivano uccisi. Tutti quanti erano meno che vittime collaterali, non erano neanche numeri. Non sono niente. Se l'undici settembre è stato un atto terroristico, ed io credo che lo sia stato, come dovremmo chiamare tutto questo?
La parola "terrorismo" è entrata nell'uso della lingua inglese alla fine del diciannovesimo secolo, dopo che la rivoluzione francese e il suo "Regno del Terrore" avevano portato alla nascita della democrazia francese. Dal momento che la nozione di terrorismo è stata dapprima applicata ad uno stato sovrano, piuttosto che a singoli individui o a gruppi, arrivare a definire il termine in modo univoco è diventato quasi impossibile. E' per questo che in lingua inglese esistono oltre cento significati per questo vocabolo: l'unico fattore comune a tutte è dato dal fatto che comprendono l'uso della violenza o la minaccia di un suo utilizzo. Il Concise Oxford Dictionary definisce terrorista qualcuno che "agevola o utilizza metodi che inducano terrore per governare o per piegare al proprio volere un governo o un gruppo sociale". Non desta meraviglia il constatare che le definizioni più recenti di "terrorismo", come quella che troviamo nello American Heritage Dictionary, escludono il governo dai candidati potenziali: "L'uso illegale, o la sua minaccia, della forza o della violenza compiuto da una persona o da un gruppo organizzato contro altre persone o contro la proprietà, messo in atto con l'intenzione di intimidire o di piegare alla propria volontà gruppi sociali o governi, spesso per ragioni politiche o ideologiche".
Non c'è da sorprendersi neppure del fatto che i musulmani siano montati in collera ed abbiano risposto con azioni armate fuori dalle loro terre dando sfogo alla loro indignazione. Se è stato jihad resistere all'occupazione sovietica in Afghanistan, se è stato jihad contrastare i massacri dei serbi in Bosnia, come può essere qualcosa di diverso il resistere all'occupazione delle terre musulmane ancora oggi in atto? Forse che il jihad è una specie di attrezzo che può essere usato o riposto a seconda del proprio interesse? Il problema è che pochissime persone si dànno la pena di distinguere tra quanti combattono -o cercano di combattere- le forze di uno straniero invasore, e quanti scelgono invece di combattere contro civili inermi che con tutto questo hanno poco a che fare, e che in molti casi si oppongono alla guerra.
Il 28 giugno 1940 i nazisti occuparono le Isole del Canale, battendo il nemico in quella che a sud è praticamente la porta di ingresso del Regno Unito. Mentre il grosso dell'esercito regolare era impegnato in operazioni in tutta europa, in Nord Africa ed in estremo oriente, più di un milione e mezzo di uomini si arruolarono nella Guardia Nazionale, nota col soprannome affettuoso di Dad's Army. Il piano di emergenza da attuare in caso i tedeschi fossero riusciti ad occupare la Gran Bretagna prevedeva anche l'addestramento di questi uomini nelle tecniche della guerriglia. L'addestramento iniziò ad Osterley Park, a Londra, dove veterani comunisti della guerra civile spagnola insegnarono ai volontari britannici come costruire ordigni esplosivi rudimentali, bottiglie molotov e bombe a mano, e progettarono di sabotare e di compiere atti terroristici contro eventuali occupanti nazisti. L'addestramento ebbe successo e vennero aperti vari altri campi dello stesso genere. Per fortuna i nazisti furono battuti sul loro stesso terreno, ma se fossero sbarcati in Gran Bretagna sarebbero andati incontro ad un bel po' di fastidi. Così com'è succeso oggi agli occupanti dell'Iraq e dell'Afghanistan, all'epoca i nazisti sarebbero stati i benvenuti per pochissimi tra i sudditi di Sua Maestà, similmente a quanto loro successo in molti altri paesi, ed avrebbero tacciato di "terroristi" gli insorti britannici, così come fecero per la resistenza francese.
La parola araba irhab è oggi in uso per indicare il terrorismo. Tuttavia, l'utilizzo di questa parola ha radici ed applicazioni che sono del tutto differenti nei confronti della sua controparte europea. Il Corano afferma: "Preparate, contro di loro, tutte le forze che potrete [raccogliere] e i cavalli addestrati, per terrorizzare il nemico di Allah e il vostro...". Anche se il terrorizzare cui fa riferimento il verso viene a volte utilizzato scorrettamente da alcuni musulmani per giustificare il terrorismo, l'esegesi coranica classica e contemporanea concorda sul fatto che il testo qui si riferisce ad un esercito che si sta preparando alla battaglia. E' chiaro che una sciera potente e determinata, pronta e decisa è già abbastanza per costituire causa di preoccupazione per qualunque contendente. Ma un esercito, musulmano o meno, non si riunisce, per lo più, per minacciare e terrorizzare la popolazione civile.
Un altro verso del Corano a volte distorto nello stesso modo è "E se trasgrediscono nei vostri confronti, fate lo stesso con loro, nello stesso modo in cui essi hanno commesso trasgressione..." per giustificare la violenza indiscriminata nei confronti dei civili, considerata una tattica di guerra giustificabile per ripagare il male con il male secondo la stessa logica del "danno collaterale". Ma il verso ha una conclusione, "E temete Allah e sappiate che Allah è dalla parte di coloro che lo temono" che rende chiaro che per quanto brutale possa essere il nemico i musulmani devono comunque comportarsi in un modo che rispecchi il loro timore per il Creatore. Il Corano afferma anche: "Combattete sul sentiero d'Allah coloro che vi combattono, e non trasgredite i limiti; Allah in verità non ama i trasgressori". Il massacro indiscriminato ed il saccheggio non sono pratiche approvate dall'Islam.
Durante la guerra -o jihad- in Bosnia durante gli anni Novanta migliaia di donne musulmane sono state sistematicamente violentate dai soldati serbi, guidati da Slobodan Milošević, Radovan Karadžić e Ratko Mladić, sotto accusa per crmini di guerra. Oltre a questo, centinaia di migliaia di bosniaci sono stati brutalmente uccisi e sono rimasti vittime della pulizia etnica. Di conseguenza, migliaia di musulmani provenienti da tutto il mondo si sono offeti volontari sotto la banidera del jihad, in soccorso dei loro correligionari assediati. In ogni caso, i crimini perpetrati dai nemici dei musulmani non conferiscono ai musulmani il diritto di restituire il male fatto. I musulmani non possono neppure prendere il considerazione l'idea di impiantare dei campi in cui dedicarsi allo stupro delle donne serbe, o a quello di donne di qualunque altra provenienza.
Fu dopo essersi imbattuto nel corpo di una donna non musulmana rimasta uccisa in una battaglia che il Profeta disse "Non è una di coloro che avremmo combattuto". Poi disse ad uno dei suoi compagni: "Cerca Khalid [ibn al'Walid, il più importante generale musulmano] e digli di non uccidere le donne, i bambini e i prigionieri". Il Messaggero si espresse più tardi in modo anche più specifico, ripetendo ai suoi soldati di non considerare mai dei bersagli le donne, i bambini, gli anziani, i religiosi o i paesani disarmati. Proibì anche con decisione l'uso del fuoco per uccidere e la mutilazione dei cadaveri, proibì di tagliare gli alberi senza che ve ne fosse necessità e di torturare i prigionieri catturati.
Il jihad tenta di terrorizzare coloro che sono coinvolti nella pratica dell'oppressione, dell'abuso e della violazione della santità umana; gli uomini che si comportano secondo correttezza non hanno motivo di temerlo, anche se i loro governi hanno commesso crimini a loro nome. combattere con tanta discriminazione i nemici può rappresentare il più difficile dei jihad del nafs, ma è qualcosa che nondimeno viene richiesto ad ogni musulmano.
Voi che credete! Resistete a piè fermo per Allah come giusti testimoni e non lasciate che l'ostilità e l'odio degli altri vi spingano a non comportarvi secondo giustizia. Siate giusti, che è la cosa più vicina alla pietà, e temiate Allah. Anche mentre resistiamo ai nostri oppressori, non dobbiamo mai permettere loro di diventare quelli che hanno qualcosa da insegnarci.

sabato 19 novembre 2011

Il PDL di Firenze e le tende canadesi



I nostri lettori sanno benissimo come, con un'accelerazione arrivata al parossismo nel corso degli ultimi dieci anni, la politica "occidentalista" abbia tratto i massimi profitti possibili dall'utilizzo dei mass media tradizionali. Allo stesso modo è noto come i contenuti mediatici indirizzati ai media di cui sopra abbiano bisogno almeno di qualche adattamento prima di finire in internet, perché internet costituisce un contesto in cui chiunque può esprimere considerazioni come quelle espresse qui, il cui scopo è quello di mettere in luce l'incompetenza e la sostanziale irrilevanza dell'"occidentalismo" fiorentino, incapace anche solo di accostarsi alle vette di demenzialità omicida cui giungono i suoi inarrivabili modelli amriki.
Più semplicemente, in internet il rischio che certe intraprese diventino controproducenti è quasi privo di controllo. Agire efficacemente implica anche e soprattutto il sapersi limitare. Ovviamente, gli "occidentalisti" di Firenze non hanno alcuna idea di cosa voglia dire agire efficacemente, e tantomeno di cosa voglia dire sapersi limitare.
Nel novembre 2011 una copia degli "indignati" castigliani, ridottissima nel numero e sostanzialmente mediatica negli effetti e nei riferimenti, ha montato svariate tende da campeggio in una piazza del centro storico fiorentino i cui frequentatori sono oggetto delle invettive "occidentaliste" da decine di anni.
Colpa che accomuna gli uni e gli altri, i nuovi "indignati" e i frequentatori storici, quella di usare gli arredi urbani come arredi urbani e le strutture architettoniche come strutture architettoniche, con particolare riferimento ai loggiati e alle fontane.
Le fontane furono costruite per fornire acqua, i loggiati per ripararsi. La sovversione del mondo, di cui gli "occidentalisti" sono gli ultimi, entusiasti e peraltro trascurabili alfieri, è arrivata da decenni al punto che si trovano gazzette dispostissime a denigrare chi usa le fontane o i loggiati per gli scopi per cui furono costruiti. Sicché, dopo aver latrato per qualche giorno sulle gazzette in mezzo alla logica indifferenza generale, gli "occidentalisti" del PDL fiorentino non hanno trovato di meglio che montare una tenda da campeggio davanti all'antichissimo Palazzo Vecchio, che è la sede degli organi amministrativi locali.
Organi amministrativi in colpa grave, per non aver (ancora) mandato la gendarmeria a fare strame degli "indignati" a colpi di manganello; se poi ci scappa il morto meglio ancora: nel sangue altrui l'"occidentalismo" vive la sua dimensione più sincera ed autentica: l'essenziale e che le mani finisca sempre e comunque per sporcarsele qualcun altro.
Su internet, il gazzettame riporta ubbidiente la cosa.
A montare la 'controtenda', stamani, sono stati i consiglieri del gruppo comunale del Pdl, insieme al coordinatore cittadino del partito, il deputato Gabriele Toccafondi.
Agire efficacemente, si diceva, e sapersi limitare.
Internet affastella casi di iniziative come questa a centinaia ogni giorno, il che porta a zero o quasi la visibilità mediatica cercata con buona pace per l'efficacia dell'azione.
Ed ecco il sapersi limitare. Le esagerazioni sono spesso controproducenti, come in questo caso. Perché il sito dell'amministrazione locale mostra che al momento in cui scriviamo il "gruppo comunale del PDL" conta 6 (sei) appartenenti.
Marco Stella.
Stefano Alessandri.
Jacopo Cellai.
Emanuele Roselli.
Mario Tenerani.
Francesco Torselli.
Sei persone per montare una canadese.
Meno male che c'era un settimo, Gabriele Toccafondi, a dar loro una mano.
Viene in mente una trita barzelletta su quanti gendarmi occorrono per avvitare una lampadina...

martedì 15 novembre 2011

Seyyed Mohammed Marandi - La demonizzazione dell'Iran


"La prospettiva dominante, che persiste a livello dei mass media di portata globale, ha sempre rafforzato l'idea che esista qualche popolo orientale irrazionale e violento, in questo caso quello iraniano" (dal testo dell'articolo).
Studenti della Mofid University a Qom. La Mofid University è stata fondata nel 1989 col preciso scopo di condurre studi comparativi tra le materie islamiche e quelle umanistiche moderne. Tra gli obiettivi dell'università ci sono lo studio delle scienze umane sulla base dei principi e dei canoni islamici, e lo sviluppo della cooperazione scientifica e della ricerca nel mondo islamico.
Alla parete, i ritratti di Rafsanjani e di Khamenei.

Traduzione da Cultures of Resistance
Foto di Yannis Kontos

Quando i canali televisivi statunitensi o del resto del mondo hanno mostrato immagini delle dimostrazioni in Iran, l'impressione che i mass media ccidentali hanno cercato di suscitare è che si trattasse di scene e di valori incompatibile con qualunque cosa esistesse in Occidente.
In realtà la resistenza contro gli Stati Uniti si rifaceva al colpo di stato del 1953 che fu istigato dalla CIA, ed ai timori di un nuovo tentativo americano di riappropriarsi del paese. Le radici della rivoluzione del 1979 ed i suoi temi ricorrenti sono in gran parte molto simili a quelle di molti casi di resistenza antimperialista, di molvimenti anticolonialisti e di liberazione del XX secolo, e più estesamente anche a quelli del movimento statunitense per i diritti civili e della lotta per i diritti degli afroamericani.
Tra le rivendicazioni della rivoluzione islamica, all'epoca, c'erano anche una critica molto forte del concetto di democrazia liberale, dello strapotere delle multinazionali e del capitalismo in se stesso. Temi tradizionali come la povertà e l'ingiustizia, il despotismo e l'imperialismo, la mercificazione della donna, erano oggetto di critica nel discorso rivoluzionario dell'Imam Khomeini. L'obiettivo era quello di inquadrare la giustizia sociale, la compassione e la libertà all'interno della struttura costituita dalla dialettica islamica. Nonostante la guerra, le sanzioni ed il terrorismo sostenuti dalle grandi potenze e da vicini ostili, che erano per la massima parte reazionari ed erano finanziati dagli americani e dai governi occidentali, fino ad arrivare ai gruppi antigovernativi in Iran, dotati o meno di un braccio armato, l'Iran è riuscito in larga misura a superare ogni prova e ad andare avanti. E' riuscito a mantenere il proprio pluralismo, molta parte del quale si rifà a quella capacità di sopportare i rovesci che deriva dal senso di sacrificio legato al tema dell'Ashura. Alcuni dei successi pratici che l'Iran ha conseguito nel mostrare l'importanza dell'Islam e la sua praticabilità anche nel mondo contemporaneo vengono dal fatto che i cancelli dello ijtihad [l'impegno nell'interpretazione individuale della legge sacra, N.d.T.] sono rimasti aperti. Come scrisse l'Imam Khomeini in una lettera, circostanze, epoche e luoghi diversi possono portare ad applicazioni differenti della legge islamica.
Quello che è significativo, comunque, è il fatto che alcuni aspetti del discorso islamico sono per molti versi simili alla critica di sinistra nei confronti del capitalismo e del neoliberismo. La differenza è che la prospettiva islamica prende le distanze dagli estremismi individualistici, pur sottolineando l'importanza dei diritti individuali. E, ovviamente, dei doveri di ciascuno nei confronti del Creatore. La prospettiva islamica sottolinea l'importanza di valori umani come l'antirazzismo, e l'Iran sostiene e continua a sostenere movimenti che poco o nulla hanno a che fare con l'Islam, ma che comunque lottano per l'equità e la giustizia: il movimento antiapartheid in Sud Africa, lo Sinn Féin in Irlanda, la teologia della Liberazione, i Sandinsti, Morales, Chavez ed altri. Quella iraniana è una prospettiva che tende all'inclusione, non settaria e non nazionalista nel senso negativo del termine. Probabilmente l'Iran è l'unico paese islamico che ha sostenuto la Bosnia in modo attivo e che ha sempre sostenuto il popolo palestinese. Proprio in solidarietà col popolo palestinese molti iraniani portavano la kefiah durante la guerra intrapresa da Saddam Hussein, e molti sono stati martirizzati con la kefiah addosso.
Esistono argomenti e visioni che sono comuni a gran parte dell'umanità. Ma in pratica la prospettiva dominante che persiste a livello dei mass media di portata globale ha sempre rafforzato l'idea che esista qualche popolo orientale irrazionale e violento, in questo caso quello iraniano. Durante la guerra con l'Iraq l'Iran ha subìto una demonizzazione continua, i mass media debordavano di aneddoti destinati a rafforzare l'idea dell'iraniano come essere irrazionale. Nella stampa occidentale c'erano articoli che parlavano di combattenti iraniani -per lo più bambini, si affermava- cui venivano date "chiavi per il paradiso"; vi si leggeva che gli iraniani conducevano contro le truppe irachene attacchi ad ondate. Come individuo che ha combattuto per cinque anni come volontario, posso credibilmente affermare che queste affermazioni sono false.
Ironicamente, questo succedeva all'epoca in cui gli Sati Uniti e l'Arabia Saudita finanziavano Saddam Hussein e le forze che avrebbero sviluppato l'ideologia talebana in Pakistan ed in Afghanistan. Gli Stati Uniti e i loro vassalli hanno sostenuto il settarismo e il razzismo per isolare l'Iran dalle comunità islamiche vicine e lontane, e dal momento che l'Iran non è un'utopia, io credo che il suo fallimento a rapportarsi con l'Occidente e con parti del mondo islamico sia in larga parte dovuto al potere dei mass media occidentali e al modo che essi hanno di presentare l'Iran, oltre al fatto che sono finanziati da governi come quello dell'Arabia Saudita e quello statunitense.
La demonizzazione dell'Iran si associa ad una generale mancanza di conoscenza delle cose del Medio Oriente in generale e di quelle iraniane in particolare, che è diffusa presso molti occidentali, compresi quelli che sono responsabili di decisioni chiave. Nella professione che svolgo, che è quella di accademico, i mei contatti col mondo accademico occidentale mi hanno mostrato che la portata di questa ignoranza è immensa. Tempo fa ho inviato un articolo ad una rivista accademica progressista e rispettata, il Journal of American Studies in cui esprimevo delle critiche alla prospettiva con cui essa raffigurava l'Iran. Nell'articolo confutavo la storia, ampiamente diffusa in "Occidente", delle chiavi per il paradiso e dei bambini mandati in guerra, e portavo a sostegno della mia tesi il fatto che io stesso avessi combattuto in quella guerra. I destinatari mi risposero che "dovevo provare che le chiavi per il paradiso non erano mai esistite": "Devi provare che i bambini non hanno combattuto". In altre parole, mi è stato chiesto di fornire prove in negativo, e non essendo ovviamente io in condizioni di farlo, il mio articolo fu respinto.
Sono molto scettico sulla portata e sull'ampiezza dell'influenza che esiste in Occidente in favore del fatto che questa prospettiva cambi; il tentativo del presidente Khatami di invertire la tendenza attraverso il "dialogo tra le civiltà" da lui proposto è fallito. Eppure, esistono due avvenimenti recenti ed importanti che a mio modo di vedere possono permetterci di unire le strette alleanze di cui siamo protagonisti alla possibilità di sfidare lo status quo e la prospettiva dominante. Il primo è dato da Hezbollah e dalla sua vittoria contro lo stato sionista, che è uno stato di apartheid: qualcosa che ha unito gli arabi, i musulmani ed altre comunità ed ha fornito l'occasione per allargare il dialogo e per ampliare il fronte dei popoli che possono cooperare attorno a temi comuni.
Il secondo è rappresentato dal crescente scontento che esiste in Occidente ed anche altrove. La crisi socioeconomica ed il riscaldamento globale finiranno per rendere la vita sicuramente più difficile e credo che questo possa condurrre ad una situazione che metterà in grado coloro che non si trovano bene nello stato di cose presente a cercare altri interlocutori, altri modi di vedere le cose ed altre forme di attivismo. Fondamentalisti laici come Edward Said non riescono ad accettare una resistenza non laica eppure razionale. Ma se ci baseremo sui valori che ho su ricordato, è probabile che finiremo per trovare grandi potenzialità comuni a tutte le linee di pensiero, senza che per questo nessuna delle parti debba rinunciare ai propri valori fondanti. In certe situazioni invece, per venire incontro a laici non in sintonia con il loro pensiero, alcuni iraniani si sono rivolti al relativismo e sono diventati liberali, un po' come alcuni schierati a sinistra hanno fatto alla fine degli anni Sessanta, quando, dopo la rivolta di Parigi nel 1968, passarono al postmodernismo. Questi pensatori -in Iran questo sicuramente accadde- persero credibilità politica negli ambienti dai quali provenivano.
La realtà è che una prospettiva islamica esiste e continuerà ad esistere, e che molti dei suoi temi sono comuni a tutti gli esseri umani amanti della libertà. Per resistere occorre unirsi, e per unirsi occorre riconoscere che questi temi sono comuni a tutti.

Sayyed Mohamed Marandi è professore associato di letteratura inglese all'Università di Tehran. E' anche opinionista per varie trasmissioni di informazione e di attualità.

lunedì 14 novembre 2011

Sheikh Chafiq Jeradeh - La rivoluzione islamica in Iran: interrogativi attuali



Traduzione da Cultures of Resistance

A detta di molti, la rivoluzione islamica in Iran si definisce attorno al concetto di vilayat-i-fiqh, autorità spirituale del giureconsulto, che fu introdotto dall'Imam Khomeini. Possa Dio santificare la sua anima.

Sheikh Chafiq Jeradeh


Quello di vilayat-i-fiqh è un concetto islamico basato sui valori espressi dall'idea, che proviene dalla gnosi sufi, secondo la quale è possibile agli esseri umani ascendere per gradi nella conoscenza di se stessi fino a raggiungere la condizione di "Esseri umani perfetti". A chi riesce a raggiungere questo livello si fa di solito riferimento con l'espressione "il Polo", o "il Polo dei Poli". Nella gnosi si ritiene che questo stato dell'essere implichi degli obblighi contrattuali precisi, tra i quali anche obblighi di tipo politico, verso ogni essere umano che percorre lo stesso cammino. Questo implica che rivestire un ruolo guida richiede anche una comprensione approfondita della legge e l'applicazione dei principi islamici nella vita quotidiana delle persone e delle società islamiche. Oltre a queste conoscenze giuridiche un leader deve possedere le competenze necessarie a dirigere e ad organizzare gli elementi della società: deve essere in grado di agire sul piano politico tenendo presente l'esempio fornito da Muhammad (benedizione su di Lui) e dai suoi legittimi successori che hanno oranizzato le prime comunità di credenti.
Quello che è notevole nel vilayat-i-fiqh e nell'atto rivoluzionario dal quale è sorta la Repubblica Islamica dell'Iran, è l'interazione tra lo sviluppo del concetto di autorità spirituale del giureconsulto e la realtà dell'azione rivoluzionaria nel cui contesto esso è stato sviluppato. Il progressivo impatto con la realtà politica e le nuove sfide imposte man mano dalla rivoluzione hanno rafforzato il processo di costruzione ed hanno permesso al costrutto di crescere assumendo una portata più ampia ed acquistando nuove dimensioni.
Più il concetto di autorità spirituale del giureconsulto si espandeva ed acquisiva consistenza, più contribuiva a diffondere una nuova atmosfera tra gli iraniani in generale. In più, l'idea di una guida politica conforme ad esso apriva orizzonti nuovi per i rapporti con l'ordine internazionale e nel campo militare e scientifico, a causa della sua intenzione dichiarata di voler arrivare a realizzare un ciclo per il combustibile nucleare. Questa ambizione è stata collocata all'interno di un quadro morale e religioso che proibisce l'uso del nucleare come arma, considerato opposto all'utilizzo pacifico dell'energia che deriva dal combustibile nucleare.
Sono dell'opinione che il concetto di vilayat-i-fiqh possa senza dubbio evolversi ulteriormente e che certo non sia qualcosa di immutabile; non ha assunto una forma definitiva perché si colloca all'intersezione tra la struttura religiosa deputata a regolare la vita di ogni giorno ed il desiderio di vivere in armonia con i valori divini.
Sia la sostanza che i dettagli del vilayat-i-fiqh possono cambiare, e dovrebbero rispondere alle necessità man mano presentate dai luoghi e dai tempi. La necessità di adattarsi nel modo giusto spiega perché il concetto di autorità spirituale del giureconsulto è cambiato e si è sviluppato durante gli ultimi anni della vita dell'Imam Khomeini (Dio benedica la Sua anima). Attraverso le fasi della preparazione della rivoluzione, della rivoluzione e della fondazione dello stato, della guerra imposta e della costituente, il concetto si è evoluto sotto la pressione degli eventi. Questa trasformazione non è stata sempre evidente nel corso della vita dell'Imam Khomeini (Dio benedica la sua anima), in gran parte a causa del fatto che fu un periodo di straordinari cambiamenti e che l'imponente figura del fondatore mise in ombra la questione.
Dopo la dipartita dell'Imam (Dio benedica la sua anima) e dopo che l'Imam Khamenei ne ebbe assunto la carica, il metodo dell'Imam, il wali fiqh, andò incontro ad un dibattito che coinvolse tre temi di rilievo.
In primo luogo, fino ad ora le tensioni tra i principi religiosi che vi sottostanno e le strutture dello stato contemporaneo e dell'ordine internazionale non sono state ancora risolte in modo soddisfacente. La relazione tra i valori islamici, che pretendono un coinvolgimento diretto negli affari politici e sociali, e l'ordine mondiale dominante che viene influenzato dai costumi, dalle idee, dai metodi e dalle istituzioni contemporanee pone ogni istante l'Iran davanti ad un confronto tra i valori dell'Islam ed i valori del resto del mondo, che sono frutto della cosiddetta "modernità".
Tutti i movimenti islamici hanno a che fare con dilemmi di questo tipo, ma in Iran questo conflitto potenziale assume una forma più seria, perché l'Iran è uno stato dottrinale che ha superato i limiti intrinseci nell'essere un movimento piuttosto che uno stato vero e proprio. L'Iran inoltre, caso forse unico al mondo, possiede il pregio di avere la possibilità di trovare un punto di equilibrio tra queste due correnti opposte.
Queste tensioni sono tuttavia evidenti nell'Iran di oggi: hanno dato origine ad una corrente di pensiero interna alla società che cerca di porre la religione dottrinale all'interno di una cornice laica, e che desidera fondare anche le strutture della politica su una base laica dello stesso genere. Questo ha suscitato una doppia reazione da parte dei partiti religiosi: alcuni si sono arroccati attorno alla formula del vilayat-i-fiqh ed a respingere qualunque nuova idea in proposito che emerga dall'agone politico o dal mondo intellettuale iraniano. Questo ha anche condotto ad una più ampia discussione sul rapporto che esiste tra l'Islam ed il vilayat-i-fiqh, al cui centro c'è la questione dell'islamizzazione dei sistemi di governo che caratterizzano le istituzioni contemporanee. Un'altra corrente si muove invece nella direzione opposta, cercando il modo di sottoporre a revisione il concetto di autorità spirituale del giureconsulto in modo che rifletta meglio la realtà contemporanea e le sue necessità.
Questo è il dilemma che stanno affrontando l'attuale wali-i-fiqh (il giureconsulto guardiano, ovvero l'Imam Khamenei) e le istituzioni che ad esso fanno capo.
Durante la permanenza in carica dell'Imam Khamenei presso alcuni circoli sono inoltre cominciate discussioni su questi argomenti.
Primo. Il concetto di "autorità spirituale" presuppone una trasmissione di competenze cognitive per proprio conto, che da sola permette al Wali (la Guida Suprema) di rivestire un ruolo guida e di dare un indirizzo al mondo attuale, oppure occorre anche una consolidata esperienza di governo, oltre a quella speciale visione delle cose che soltanto l'aver compiuto profondi progressi spirituali può garantire?
Secondo. L'autorità spirituale del giureconsulto possiede una data forma ed una forma soltanto, quella che ha assunto negli ultimi anni della vita dell'Imam Khomeini, oppure esistono altre possibili forme, che l'Imam Khamenei può a sua volta rivelare?
Terzo. Infine, il concetto posa su una base di accettazione popolare e di impegno all'interno dei ranghi delle élite iraniane, oppure si basa sulle circostanze emotive della rivoluzione? Si tratta di un importante punto che ha bisogno di essere chiarito, perché una risposta chiara a questa domanda definirebbe per noi quali sono le possibilità di un disaccordo tra le élite iraniane e la volontà popolare.
Esiste poi in Iran un dibattito annoso e perennemente rinnovato: la politica iraniana deve svilupparsi all'insegna delle logiche dell'interesse o all'insegna delle logiche dell'ideologia? Gli interessi iraniani sono una mera questione interna, o si intrecciano a quelli di altri popoli che sostengono gli stessi valori islamici della rivoluzione?
Il discutere su simili questioni, a prima vista, sembra non avere implicazioni che vadano al di là del porsi qualche interrogativo. Se però consideriamo la natura dottrinale dello stato e l'orientamento della formazione culturale del popolo, comprendiamo che ciascuno di questi interrogativi ed il dibattito che essi suscitano hanno un impatto ed hanno delle conseguenze la cui potenziale portata si presta poco alle previsioni. Solo il tempo e l'esperienza permetteranno di trarre conclusioni, consentendo di vedere in quale misura questi interrogativi potranno essere risolti.

Sheikh Chafiq Jeadeh dirige l'Istituto della Conoscenza Spienziale per gli studi religiosi e filosofici di Beirut.

sabato 12 novembre 2011

Amal Saad Ghorayeb - Il sostegno di Hezbollah al governo di Assad



Novembre 2011, Conflicts Forum

Nonostante Hezbollah dipenda sostanzialmente dal governo di Assad per quanto riguarda il transito delle armi di cui necessita, questa semplice considerazione non rende adeguatamente conto dei motivi che stanno dietro il suo controverso atteggiamento, e non spiega abbastanza la solidità della sua alleanza con la Siria. Ridurre la stretta alleanza tra Hezbollah e il governo di Assad ai meri aspetti logistici fa perdere di vista molti altri fattori e molte altre considerazioni che sostengono anch'esse la relazione che esiste tra di loro.
Il fatto che Hezbollah difenda strenuamente il governo di Assad proprio nel momento meno opportuno va considerato nell'ottica della lotta in corso in Medio Oriente tra un "progetto nazionalista e di resistenza" guidato dall'Iran, dalla Siria, da Hezbollah e da Hamas, noto anche come "jabhit al mumana'a" ("asse della resistenza", come viene definito in Occidente) ed il "progetto degli Stati Uniti" perseguito dagli alleati arabi degli Stati Uniti che si riconoscono nel cosiddetto "asse moderato". Inquadrato in questo più ampio contesto regionale, il valore strategico della Siria non si riduce al suo ruolo di fornitrice di armamenti, ma deriva essenzialmente dal suo costituire il perno del fronte di resistenza o, per riprendere la definizione fornita da Nasrallah, dal costituire "l'unico governo orientato alla resistenza di tutta la regione".
Secondo Hezbollah "La leadership siriana può essere ritenuta il principale artefice del sostegno e del mantenimento della causa palestinese". Il governo di Assad è così importante per la Palestina che Nasrallah dichiara esplicitamente che "il sostegno della posizione siriana" (e quindi il mantenimento del suo governo) rappresenta "la condizione indispensabile per continuare a difendere la causa palestinese". Quindi ogni minaccia contro la sicurezza e la sopravvivenza del governo non costituisce un "pericolo" solo per la Siria ma anche per la Palestina e, considerando il ruolo che la Siria ha avuto nel porre fine alla guerra civile, anche per lo stesso Libano.
Le proteste in Siria vengono bollate come forme di collusione con le potenze straniere che stanno cercando di sostituire Assad con "un altro governo simile a quello dei governi arabi moderati che sono pronti a sottoscrivere ogni sorta di accordo di capitolazione con lo stato sionista". Piuttosto che insistere perché vengano promosse riforme democratiche in Siria, le più recenti politiche di Washington hanno mirato essenzialmente a sottometterla: "se il Presidente Bashar al Assad si arrendesse agli americani, il problema sarebbe risolto".
A parte i fattori strategici, il sostegno inflessibile che Hezbollah offre al governo di Assad ha anche motivazioni le cui radici vanno cercate in considerazioni teoriche. Il fondamento ideologico rivoluzionario di Hezbollah posa su due criteri in concorso tra loro: il primo è rappresentato da "le relazioni e la posizione che il governo assume nei confronti del progetto americano-sionista per il Medio Oriente"; il secondo è dato dall'agibilità concreta per le riforme. La posizione "resistenziale" del governo di Assad ed il suo ruolo nella regione, insieme alla sua apertura verso le riforme ed il dialogo, significano che l'insurrezione siriana non è riuscita a venire incontro a nessuna di queste necessità e che dunque Hezbollah non può sostenere "la caduta di un governo dalle caratteristiche resistenziali che ha cominciato ad introdurre delle riforme".
Il concetto che Hezbollah ha della libertà come libertà positiva su cui ciascuno può contare per il controllo del proprio destino e per il raggiungimento dell'autodeterminazione da una parte è diverso, e dall'altra supera le preoccupazioni liberali che partono dal concetto di una libertà negativa, la libertà di non subire costrizioni ed impedimenti dall'esterno. Essere liberi non significa essere lasciati in pace, ma lottare senza mai fermarsi in nome della giustizia. Ecco il motivo per cui Hezbollah è intrinsecamente antagonista alle sollevazioni liberali come quella siriana, che si concentrano sull'obiettivo di liberarsi dal controllo dello stato a detrimento della lotta contro gli Stati Uniti e contro il colonialismo sionista.

Introduzione

Uno dei paradossi dell'ondata di insurrezioni nei paesi arabi è rappresentato dal fatto che essa ha tanto unito quanto diviso il mondo arabo. Mentre il nesso che esisteva tra i governi autoritari e la subordinazione agli Stati Uniti in paesi come la Tunisia, l'Egitto e lo Yemen ha assicurato un massiccio sostegno popolare per le rivolte che si sono verificate in quei paesi, il fatto che il governo di Assad faccia parte dell'"asse della resistenza" ha privato la sollevazione in corso di qualcosa che somigliasse ad un analogo sostegno di massa in tutta la regione.
Non sorprende che Hezbollah si sia collocato all'avanguardia dello schieramento che sostiene Assad. Il sostegno del movimento per quello che viene generalmente percepito come un regime repressivo e non democratico viene sentito da molti come non congruente con i suoi valori politici e come significativa rottura rispetto alle denunce peraltro consolidate che Hezbollah fa ordinariamente a carico di altri governanti arabi in aria di autocrazia.
Questa discrepanza è in parte dovuta al fatto che Hezbollah ritiene che il governo di Assad goda ancora del sostegno della maggioranza della popolazione e che il suo intento di aprire a delle riforme andasse inteso con serietà, al contrario di quello di altri governi arabi che si sono mostrati chiusi ad ogni prospettiva in questo senso. Più significativo per Hezbollah è però l'atteggiamento non remissivo verso lo stato sionista mostrato dal governo siriano, e la sua tutela dei diritti degli arabi; cose che impongono al popolo siriano di "custodire il loro governo, che è un governo di resistenza e di opposizione" [1].
Il chiaro sostegno che Hezbollah offre al leader siriano gli ha alienato le simpatie di molti arabi che pure avevano in larga misura sostenuto il movimento resistente, ma che ora lo accusano di star cinicamente aiutando un regime brutale per proteggere i propri interessi di bottega. I critici di Hezbollah lo considerano un'organizzazione motivata soltanto dalla realpolitik e dipendente da Assad per procurarsi ed ottenere armi. Per caso oppure no, simili interpretazioni collocano Hezbollah in quel ruolo di "attore razionale" che è proprio del modello adottato dai politici statunitensi e da "esperti" dello stesso genere. In base al dominante approccio caratterizzato dal realismo, un comportamento politico è quasi per intero spiegato da una razionalità strumentale basata su mezzi e fini.
In questo scritto si sostiene che se anche Hezbollah dipende effettivamente da Assad per le armi di cui necessita, questa sola considerazione non spiega a sufficienza i motivi che sottendono la sua controversa scelta di schierarsi, né spiega in modo esaustivo la solidità della sua alleanza con la Siria. Ridurre a meri fattori logisitici quello che tiene insieme l'alleanza tra Assad e Hezbollah fa trascurare molti altri fattori e molte altre considerazioni che rafforzano i loro legami, e le sofisticate considerazioni razionali che li sostengono.
Preoccuparsi delle mere questioni inerenti la realpolitik non richiederebbe al leader di Hezbollah, Sayyed Hassan Nasrallah, di pronunciarsi in maniera tanto recisa a favore del governo siriano come egli ha fatto nei discorsi del 25 maggio e del 26 agosto del 2011, né richiederebbe al partito di prestare il fianco alle accuse di complicità con la violenza del governo siriano e alle accuse di ipocrisia nei propri rapporti con le insurrezioni arabe. A rendere il fatto ancora più improbabile c'è la consapevolezza di Hezbollah per la controversia che esiste circa le posizioni del partito. A provare questa consapevolezza c'è il preciso riferimento di Nasrallah alla sua difesa del governo siriano come ad una "verità che va detta senza timore di attirare il biasimo di nessuno, chiunque sia"[2].
Come movimento che ha trascorso anni ed anni a sviluppare una "cultura della resistenza" nel mondo arabo e che ha usato la propria popolarità per opporsi a piani che inasprissero le tensioni tra sunniti e sciiti, Hezbollah non è certo organizzazione da svendere un sostegno popolare ottenuto a caro prezzo in cambio di un po' di armi che potrebbe procurarsi con altri mezzi, anche se più laboriosi. Perché Hezbollah si giochi consapevolmente così tanta parte del simbolismo iconico di cui gode nel mondo arabo ed oltre, devono essere in gioco attori strategici di ben più ampia portata.
Si tratta delle stesse forze alla base del provocatorio discorso di Riad al Solh, pronunciato da Nasrallah nel marzo 2005. A quei tempi, esattamente come oggi, Nasrallah si mise in posizione opposta rispetto all'opinione pubblica ed espresse aperto apprezzamento per la leadership di Assad, a poche settimane dall'assassinio di Hariri, in un periodo in cui il sentimento antisiriano era ai massimi livelli. Mentre la comunità internazionale con alla testa gli Stati Uniti, ed anche molti libanesi, stavano puntando il dito contro la Siria, Hezbollah la sostenne lealmente facendo l'apologia dei comportamenti tenuti dai siriani ed esprimendo alla Siria la propria gratitudine per quanto essa aveva fatto in Libano. In gioco, all'epoca, non c'erano tanto le vie di approvvigionamento per la resistenza, quanto il ruolo strategico della Siria in Libano e fuori dal Libano.


Il valore della Siria come alleato strategico

La strenua difesa del governo di Assad da parte di Hezbollah, proprio nel momento in cui questo appare la cosa meno opportuna da fare, va considerata all'interno del conflitto regionale che esiste tra un "progetto nazionalista e resistenziale" guidato da Iran, Siria, Hezbollah e Hamas altrimenti noto come "jabhit al mumana'a" ("asse della resistenza" per gli occidentali) ed il "progetto statunitense" portato avanti dagli alleati arabi degli Stati Uniti, che costituiscono il cosiddetto "asse moderato". Visto in questo contesto regionale più ampio, il valore strategico della Siria non è questione che si possa ridurre al suo ruolo di fornitrice di armi, ma deriva dalla sua condizione di perno del fronte della resistenza o, per dirla con le parole di Nasrallah, dalla sua condizione di "unico governo orientato alla resistenza di tutta la regione"[3]. Rappresentando il governo in questo modo, Hezbollah mescola mezzi e fini: la resistenza diventa, da metodo di lotta sostenuto dalla Siria, un elemento fondante dell'identità politica siriana e del ruolo che la Siria ha nel contesto mediorientale.

La battaglia tra posizioni politiche
Le linee di frattura in Medio Oriente separano posizioni politiche rivali: resistenza e confronto da una parte, resa dall'altra. I caratteri dello scontro corrispondono allo schema analitico usato da Hezbollah; come spiegato da Nasrallah, la natura della battaglia supera le affiliazioni "ideologiche, culturali e religiose" e si incentra sulle "posizioni politiche" rispetto agli "interessi" degli Stati Uniti e dello stato sionista[4]. Nasrallah ha presentato quello che è il nucleo del conflitto in un discorso tenuto nel dicembre del 2008:
"In linea di principio agli americani non interessa se chi governa è islamico, comunista, marxista, leninista, maoista o nazionalista. Questo per loro non ha importanza. Puoi adottare qualunque ideologia o pensarla come vuoi. Che cosa importa del tuo programma politico o di come ti collochi rispetto allo stato sionista? E cosa pensi degli Stati Uniti?"[5]
Interpretando il conflitto in questo modo, Hezbollah fa superare allo status della collocazione politica il livello dell'ideologia, che viene subordinata per importanza alla collocazione dei rapporti di forza dal punto di vista geopolitico. In quest'ordine delle cose è implicito il concetto di posizione politica come ruolo attivo e sostanziale, in opposizione ad atteggiamenti passivi o alla semplice espressione di punti di vista. Considerando la Siria come il perno del fronte intenzionato a resistere, a sua volta ascritto a ferme posizioni politiche che colpiscono gli interessi statunitensi e sionisti assai più di quanto li servano, Hezbollah mette apertamente in discussione le asserzioni fatte dai critici del governo siriano secondo cui le credenziali di Assad dal punto di vista della resistenza sono in realtà poco più di quelle di cui può godere qualcuno che pensi più che altro al proprio puro interesse.
Coloro che criticano il governo siriano da queste posizioni pensano che le istanze antisioniste ed antiimperialiste della leadership di Asssad rappresentino più che altro un espediente retorico adottato per custodire la propria legittimazione popolare. Al contrario, Hezbollah tende a colpire esplicitamente la pervasiva tendenza che esiste tra i progressisti a giudicare nel merito una posizione politica sulla base delle presunte motivazioni per cui viene adottata; Hezbollah sceglie invece di conferire a queste istanze un'importanza politica più profonda, e dunque un valore strategico. Quali che siano i motivi del governo, sia la natura dell'alleanza dei siriani con i rispettivi partner in Libano, in Palestina ed in Iran, oltre al prezzo che costa il mantenerla, secondo Hezbollah confermano il fatto che il collocarsi sul fronte della resistenza rappresenti più una scelta strategica che un mero espediente politico.
Al di là di ogni dubbio Hezbollah è consapevole del fatto che il governo siriano deriva la propria legittimazione dal prestigio di cui gode dal punto di vista della resistenza, cosa confermata dall'ammissione dello stesso Assad, secondo cui "cospirare contro la resistenza" decreterebbe "il suicidio politico"[6]. Hezbollah in ogni caso non condivide l'idea che il governo siriano regga la sua legittimazione con i mezzi della sola retorica. Oltre a salvaguardare la sua integrità fisica, il resistenzialismo del governo Assad costituisce anche la principale fonte della sua sicurezza ontologica, ovvero della sicurezza della sua identità come stato che resiste e come campione dei diritti degli arabi. Mantenere un'identità come questa, e le alleanze su scala regionale che ne nascono, richiede chiaramente molto di più che non l'adozione di qualche atteggiamento retorico.

Assad è indispensabile alla resistenza in Libano ed in Palestina. Il sostegno siriano ai movimenti di resistenza in Libano ed in Palestina "non è stato soltanto morale e politico"; secondo Nasrallah è stato anche strategico. La Siria di Assad non è stata soltanto un protagonista attivo nel difendere i suoi alleati, ma ha preso parte alla lotta resistenziale "non soltanto appoggiando la resistenza, ma sostenendola attivamente sia in Libano che in Palestina". Il movimento di resistenza Hezbollah continua a mostrarsi convinto di aver raggiunto la vittoria del 2000, almeno in parte, grazie al "sostegno siriano". La natura di questo sostegno non viene specificata, ma il fatto che Nasrallah abbia detto di non voler "entrare nel dettaglio" di questo sostegno, "per non imbarazzare la leadership siriana", fa pensare che sia stata militare. In un altro discorso privo di precedenti, Nasrallah lasciava pensare che l'Iran facesse passare armamenti attraverso la Siria: "ANche oggi, la maggior parte del sostegno iraniano arriva tramite la Siria. Senza la determinazione e la fermezza dei siriani, il sostegno iraniano non sarebbe arrivato fino al Libano o alla Palestina"[7].
L'impegno siriano a favore dei piani della resistenza è testimoniato anche dalle istanze di principio da essa presentate nel corso dei negoziati di pace. COnfermando il vecchio adagio di Kissinger "Niente guerra senza l'Egitto, niente pace senza la Sirisa", Hezbollah ha apprezzato la scelta di Assad di rifiutare di "capitolare" alle condizioni dettate dallo stato sionista ed ha espresso il proprio apprezzamento per aver sventato i tentativi di dividere la Siria dal percorso di pace in Palestina. Se la Siria avesse presentato iniziative in proprio "mentre il percorso palestinese veniva frammentato nei negoziati" la causa della Palestina sarebbe stata destinata a sicura sconfitta[8].
Complessivamente, secondo Hezbollah "la leadership siriana può considerarsi impegnata nella custodia e nel mantenimento della causa palestinese". Il governo di Assad era tanto indispensabile per la Palestina che Nasrallah ha dichiarato a chiare lettere: "Il permanere della Siria su queste posizioni" (e per conseguenza il mantenimento dell'assetto governativo attuale) "rappresenta la condizione fondamentale per la lotta in favore della causa dei palestinesi". Per questo, ogni minaccia alla sicurezza del governo ed alla sua sopravvivenza costituisce "un pericolo" non solo per la Siria, ma anche per la Palestina e, considerando il ruolo che la Siria ha avuto nel corso della guerra civile, anche per il Libano[9].
La stima di cui la Siria gode per il ruolo che riveste in Medio Oriente confligge con una storia di altro segno, in cui la Siria finanziava la guerra contro i palestinesi in Libano intanto che finanziava i gruppi libanesi che si oppongono allo stato sionista. Hezbollah non si sofferma troppo su questi aspetti un po' più torbidi della storia siriana, ma la consapevolezza almeno parziale di questo brutto passato in Libano può essere desunta dall'ammissione di Hezbollah secondo cui "Nessuno nega che la Siria abbia commesso degli errori in Libano. Il Presidente Assad lo ha ammesso all'Assemblea del Popolo [nel 2005]"[10]. A giudicare dalla storia delle relazioni tra Hezbollah e Siria, pare che questi "errori" abbiano caratterizzato il periodo antecedente la metà degli anni Novanta, dopo il quale le relazioni tra Hezbollah e governo di Hafez al Assad si sono rafforzate. Nel corso di questo rafforzamento le relazioni con la Siria hanno cambiato forma, passando da relazioni indirette tenute grazie alla mediazione iraniana ad un'alleanza regionale a tutti gli effetti con l'arrivo al governo di Bashar al Assad.

Il valore strategico dell'intransigenza di Assad. Il far passare in secondo piano gli aspetti più problematici del recente passato della storia siriana viene reso facile a Hezbollah dal rifiuto di Assad di giungere ad accordi con lo stato sionista; qualcosa che contrasta con l'atteggiamento remissivo tenuto dai paesi arabi confratelli. Anche molti arabi progressisti pensano che esser stato l'unico paese a mantenere questo atteggiamento diplomatico non sia sufficiente a conferire al governo siriano lo status di "ostile"; quello siriano resta "il fronte più tranquillo per lo stato sionista"[11]. Hezbollah respinge questo modo di pensare, bollandolo come assolutismo intellettuale. Innanzitutto, esso non considera il comportamento siriano secondo gli stessi parametri utilizzati per gli attori non statali impegnati nella resistenza. Nasrallah ha ammesso questo nel 2009, durante il discorso tenuto per il Giorno di Al-Quds, in cui ha fatto distinzione tra la Siria "come stato costituito" ed i movimenti di resistenza che non hanno gli le stesse "responsabilità economiche, sociali e politiche e gli stessi obblighi che derivano dai rapporti internazionali"[12].
In secondo luogo, Hezbollah non utilizza una logica di tutto-o-nulla simile a quella utilizzata da chi critica Assad da parte progressista. Nello stesso discorso su citato, Nasrallah ha risposto a questo stesso gruppo di "persone che parlano sempre di fronti aperti" tessendo le lodi dell'intransigenza siriana: "E' vero che la Siria non ha combattuto, pur costitutuendo in sé un fronte aperto, ma neppure si è arresa". Per tutti gli ultimi trenta o quarant'anni la Siria non ha "ceduto un granello di terreno o una goccia d'acqua" e si è anche opposta ad un accordo in procinto di essere siglato al Summit di Ginevra "che riguardava un paio di metri cubi d'acqua"[13]. Inoltre, anche se la leadership di Assad non si è fatta coinvolgere dalla resistenza armata per la liberazione del Golan, "è già sufficiente che la Siria abbia sostenuto la resistenza in Libano, quella in Palestina e quella in Iraq"[14].
Quello che la Siria non ha fornito nel contesto del confronto militare diretto, lo ha fornito con la fermezza della sua politica. Detto altrimenti, l'atteggiamento da tenere politicamente a fronte della resistenza non è riassumibile con una netta dicotomia del tipo "c'è la guerra, e se non possiamo combattere possiamo solo scomparire". Nei casi in cui le necessità imposte da un confronto militare non hanno potuto essere soddisfatte, tenere un atteggiamento intransigente ha servito come loro sostituto politico secondo una linea ideologicamente coerente e strategicamente vantaggiosa. C'era una terza opzione dunque, che era piuttosto semplicemente quella di "non soccombere" e di "rimanere coerenti, fare opposizione, resistere e adoperarsi per acquisire potere e capacità, in attesa che il vento cambi"[15], come ha fatto la Siria.
Unendo la coerenza politica alla resistenza, Hezbollah toglie all'intransigenza siriana le sue connotazioni passive ed aggressive, e le conferisce un significato attivo e propositivo. Inoltre, dal momento che il concetto stesso di coerenza presuppone in questo caso il dover affrontate tensioni ed avversità, si considera che la Siria abbia meritato la sua qualifica di paese impegnato nella resistenza grazie al suo rifiuto di cedere alle pressioni e alle minacce esercitate perché capitolasse davanti alle pretese statunitensi e sioniste. Pressioni di questo genere sono cresciute di intensità e di frequenza dopo il lancio del cosiddetto "processo di pace" nel 1991, condotto usando alternativamente il bastone e la carota o, per dirla con il linguaggio di Nasrallah, "l'intimidazione e la tentazione"[16]. La pressione è salita ancora durante gli anni di Bashar, quando la Siria si è ritrovata sull'infame lista di George Bush chiamata "Asse del Male" ed è stata colpita dalle sanzioni volute dagli Stati Uniti, dalle risoluzioni dell'ONU e dall'accusa di fomentare il terrorismo. Nonostante Washington abbia cambiato atteggiamento passando dall'intenzione di provocare un "regime change" a quella di pretendere un cambio di comportamento a partire dal 2007, quando gli americani iniziarono ad "ingaggiare" la Siria, la loro politica era essenzialmente tesa a far raggiungere ad essa un accordo di pace con lo stato sionista sganciandola dai suoi alleati regionali, piuttosto che a stringere con la Siria relazioni impostate su nuove basi.

Il parere di Hezbollah sulla sollevazione siriana. Washington non ha ottenuto alcuno dei suoi obiettivi, tornando così alla precedente politica tesa ad un rovesciamento del governo. Hezbollah ha considerato le proteste del 2009 in Iran come un "tentativo di destabilizzare l'assetto governativo islamico del paese" tramite una "rivoluzione di velluto" orchestrata dagli Stati Uniti[17]; allo stesso modo esso bolla le proteste in Siria come forma di "collusione" con le potenze straniere che stanno cercando di sostiture la guida di Assad con "un altro governo simile a quelli dei paesi arabi moderati che sono pronti a firmare qualunque accordo di capitolazione con lo stato sionista"[18]. Anziché tendere ad istituire riforme o la stessa democrazia in terra siriana, le ultime politiche messe in atto da Washington hanno cerato di fare della Siria un vassallo. "Se il presidente Bashar al Assad andasse ad arrendersi agli americani, tutti i problemi sarebbero risolti"[19].
Il ritratto che Nasrallah fa del ruolo coperto dagli Stati Uniti nelle sollevazioni siriane riecheggia quanto Hezbollah pensava delle proteste in Iran: qualcosa che rappresenta la continuazione della guerra di luglio [l'aggressione sionista al Libano del 2006, N.d.T.] e della guerra a Gaza. Siccome la resistenza in Libao e in Palestina ha buttato per aria lo schema del "Nuovo Medio Oriente" in tutt'e due questi casi di aggressione militare, Washingston sta "tentando di passare da altre parti", per esempio dalla Siria[20].
Se teniamo presenti queste considerazioni, qualunque tentativo di rovesciare Assad può essere considerato come un servizio agli interessi degli americani e dei sionisti[21]. Hezbollah non ha direttamente accusato l'opposizione siriana di servire gli Stati Uniti o lo stato sionista, o di collaborare con essi; Nasrallah tuttavia l'ha bacchettata di recente, per l'aver ossequiato la sensibilità politica di Washington omettendo la causa palestinese dalla sua agenda politica[22]. Gli slogan contro Hezbollah scanditi da alcuni elementi dell'opposizione, così come le accuse da essi elevate in merito ad un presunto coinvolgimento di Hezbollah nella repressione governativa hanno fatto poco per sopire i timori di Nasrallah.
Timori che si sono consolidati ulteriorimente a fronte delle posizioni espresse in pubblico dallo stato sionista in merito alle sollevazioni. In una di esse il presidente dello stato sionista Shimon Peres ha apertamente invitato a rovesciare Assad, dichiarando che "Assad deve andarsene". A dispetto delle riserve espresse da qualcuno sull'imprevedibilità di qualunque cosa possa costituirne il successore, Peres ha ammesso che un regime change potrebbe essere di aiuto per aprire la strada ad un eventuale trattato di pace tra stato sionista e Siria[23]. In poche parole, esso rappresenterebbe "un grave smacco per l'Iran e per Hezbollah", secondo l'analisi del ministro della difesa dello stato sionista Ehud Barak[24].


Teoria e prassi di Hezbollah come determinanti del suo sostegno al governo di Assad

Oltre ai fattori strategici alla base dell'immutato sostegno di Hezbollah nei confronti di Assad, alla base di tale comportamento esistono anche considerazioni di tipo teorico. A mediare gli imperativi strategici di Hezbollah è una concezione in cui gli obiettivi politici hanno il primo posto ed in cui i valori fondanti del movimento vengono concettualizzati. Ecco il motivo per cui indagare il pensiero e la pratica politica di Hezbollah è fondamentale per capire come esso riesce ad affrontare razionalmente il suo controverso rapporto con la Siria.

La gerarchia dell'oppressione secondo Hezbollah. Per Hezbollah la resistenza contro lo stato sionista rappresenta la ragione stessa di esistere. La resistenza contro lo stato sinista è un elemento costitutivo dell'identità del movimento, ed informa di sé gli interessi e gli obiettivi strategici di Hezbollah. Il principio guida del suo modo di ragionare è dunque rappresentato dalla "resistenza innanzitutto". Lo status di primaria rilevanza assegnato alla resistenza deriva esso stesso da un sottostante schema gerarchico dell'oppressione in cui lo stato sionista emerge come la più grande delle ingiustizie, seguito da vicino da li Stati Uniti e infine, al terzo posto, dai governi autocratici, con particolare riferimento a quelli che ossequiano gli Stati Uniti[25]. Violenza e repressione sono caratteristiche comuni a tutte e tre le categorie: da ciò deriva che la violenza in se stessa non costituisce da sola qualche cosa che determini una condizione di ingiustizia. Quello che fa tanto rilevante la violenza che proviene dallo stato sionista è che lo stato sinoista rappresenta in sé un male assoluto che non nasce dalle "circostanze dell'occupazione" ma "dalla stessa esistenza dello stato sionista di per sé"[26]. Ecco perché non esiste paragone possible, agli occhi di Hezbollah, tra la violenza perpetrata dallo stato sionista e quella praticata dal governo di Assad.
Un punto che spesso viene sottovalutato è il fatto che Hezbollah stesso ha fatto esperienza della repressione operata dai siriani. Un esempio è dato dal "Massacro di Fathallah" avvenuto nel 1987, quando i siriani uccisero a sangue freddo ventitré combattenti di Hezbollah a Beirut. Nel 1993 l'esercito libanese, su ordine siriano, uccise vari sostenitori di Hezbollah che protestavano contro gli accordi di Oslo del settembre dello stesso anno in quello che fu chiamato "il massacro di settembre". In entrambi i casi il movimento si è limitato a leccarsi le ferite in modo da non porre ostacoli alla propria attività resistenziale. Le necessità della resistenza sono sempre passate avanti a quella di confrontarsi con le forze siriane in Libano.
Se lo stesso Hezbollah si è mostrato incline a sorvolare sulla violenza del governo siriano nei suoi confronti in nome di una causa più alta, è con ragione che esso si aspetta la stessa cosa da parte dei manifestanti siriani. Nella logica strategica di Hezbollah adoperarsi per il crollo di un regime oppressivo distoglie l'attenzione dai prioritari obiettivi arppresentati dal resistere allo stato sionista, e dal fronteggiare l'imperialismo militare e politico degli Stati Uniti.
Nel 1997, nel pieno della guerra civile in Algeria e in mezzo ad una serie di violenti episodi di cui erano responsabili gli islamici egiziani, Nasrallah lanciò un'iniziativa che aveva lo scopo di riconciliare i gruppi di opposizione islamica con il governo autocratico egiziano. I combattenti islamici in Egitto furono esortati a non prendere le armi contro lo stato e a scegliere invece la via del dialogo col governo di Mubarak. Parte del ragionamento che Hezbollah metteva alla base di questa politica era rappresentata dalla sua contrarietà ad un caos che esso considera "più oppressivo" degli stessi governi che si macchiano di atti di oppressione. La sua scelta era anche dettata da una logica secondo cui anziché rifarsela con la "tirannia" interna, i combattenti islamici avrebbero servito meglio il loro popolo se avessero diretto le loro armi contro il loro "nemico principale", lo stato sionista[27].
Dopo l'invasione statunitense dell'Afghanistan e dell'Iraq nel 2002-2003, alla lista delle priorità è stata aggiunta quella di resistere all'occupazione statunitense, cosa che è passata avanti all'opposizione nei confronti dei governi oppressivi. Sulla base di questo modo di vedere le cose, all'epoca dell'invasione statunitense dell'Iraq, Nasrallah ha invitato l'opposizione sciita irachena e il governo di Saddam ad una riconciliazione, secondo le linee degli accordi di Taif in Libano. Vanno qui ricordati i molti dissidenti sciiti che sono morti nelle mani di saddam, comprso Sayyed Mohammed Baqr al'Sadr, l'intellettuale fondatore di quel partito Da'wa dal quale provenivano molti di coloro che hanno rivestito cariche nello Hezbollah degli inizi. Va ricordato anche il fatto che il governo di Saddam Hussein era nemico giurato dell'Iran, l'alleato più stretto di Hezbollah. Sia la prospettiva che l'Iraq sprofondasse nella guerra civile sia la sua occupazione da parte degli Stati Uniti sono state comunque considerate dei mali peggiori di quanto non lo fosse il dover tollerare il suo governo oppressivo.
Il fatto che Hezbollah stia dalla parte di Assad non dovrebbe dunque sorprendere: una sua caduta sarebbe associata all'egemonia statunitense ed alla frammentazione della Siria. Si può anche ritenere, con buona sicurezza, che Hezbollah non si sarebbe levato in modo tanto chiaro e indubitabile a difesa di Assad se Assad non si fosse trovato incastrato in una serie di episodi violenti come quelli rappresentati da una guerra civile settaria a bassa intensità sostenuta da potenze straniere ed avesse invece agito con brutale repressione contro manifestanti disarmati. Secondo Hezbollah la mancanza di infotrmazioni attendibili su ciascuno dei due fronti e la plateale distorsione operata dai mass media non soltanto ha offuscato la misura dell'estensione delle agitazioni popolari ma perfino "la natura e l'obiettivo degli scontri"[28].
La recente ammssione dell'amministrazione Obama del fatto che l'opposizione "è diventata violenta... per autoconservazione"[29] ha fatto poco per screditare l'interpretazione degli eventi fornita da Hezbollah. A chiamare di nuovo in causa la narrativa dominante sui mass media sulla brutalità del regime contro i civili disarmati sono la minaccia del Consiglio Nazionale Siriano (SNC) di ricorrere alla violenza[30] e le richieste di armamenti avanzate "alla comunità internazionale" da parte di gruppi armati vicini all'opposizione[31].

I criteri seguiti da Hezbollah per appoggiare una rivoluzione. Tutto questo non significa affermare che Hezbollah sia intrinsecamente controrivoluzionario. Il suo sostegno alle sollevazioni nei paesi arabi attesta il suo comportarsi come un campione delle cause rivoluzionarie. Man mano che governi arabi si avvicinavano nei decenni scorsi agli Stati Uniti e allo stato sionista, la loro contiguità al "più grande abominio dei nostri tempi", per dirla con le parole del precedente leader di Hezbollah Sayyed Abbas Al'Mousawi, è divenuta più diretta e dunque ancora più intollerabile. Di conseguenza il beneficio percepito dell'astenersi dall'azione rivoluzionaria, mantenendo tranquillo il fronte interno e concentrandosi contro lo stato sionista e contro gli Stati Uniti, è stato superato dai costi dell'inerzia contro gli USA e contro lo stato sionista.
Così, se in passato il movimento ha cercato di dissuadere i combattenti islamici in Egitto dal prendere le armi contro lo stato, il suo atteggiamento è cambiato nel corso della guerra a Gazam, quando Nasrallah non ha cessato di esortare al rovesciamento del governo egiziano. Con una mossa plateale come mai prima e dalla natura in un certo senso sovversiva, Nasrallah ha esortato i militari egiziani a rifiutarsi di mantenere l'assedio a Gaza voluto dal governo ed ha invitato "milioni" di egiziani a sfidare la repressione governativa e a riversarsi per le strade per gridare la propria indignazione.
Questa scelta è stata il risultato della "partnership con lo stato sionista" voluta dall'Egitto, che ha superato il livello del puro e semplice silenzio o della complicità ascrivibile al governo Mubarak per il fatto di essere al corrente dei piani d'attacco sionisti, ed è arrivata al punto di strangolare la popolazione di Gaza e le forze della resistenza con la chiusura del valico di Rafah.
Quando gli Egiziani si sono infine ribellati due anni dopo, il movimento ha indicato le cause della ribellione "nell'ingiustizia, nella corruzione, nella repressione, nella fame... e nelle politiche del governo sul conflitto tra arabi e stato sionista". La sollevazione del gennaio 2011 non soltanto è stata attribuita a motivi strategici, ma avrebbe colpito gli interessi dello stato sionista, causando in esso "un panico ed un senso di allarme autentici". Soprattutto l'impatto della rivolta ha superato le frontiere dell'Egitto, ed aveva la potenzialità di "cambiare il volto della nostra regione... specialmente in Palestina"[32]: espressioni simili Hezbollah le riserva alla resistenza.
Durante questa fase di palese complicità araba nei confronti dei piani statunitensi e sionisti, la prospettiva rivoluzionaria di Hezbollah si regge su due criteri concorrenti. In primo luogo "le relazioni di un dato governo con gli Stati uniti e con lo stato sionista, e la sua posizione nei confronti dei progetti statunitensi e sionisti in Medio Oriente"; in secondo luogo il potenziale esistente per eventuali riforme[33]. Come sottolineato da Nasrallah, "i nostri criteri sono gli stessi criteri che determinano il nostro atteggiamento nei confronti di tutte le rivoluzioni arabe"[34]. Ora, siccome le rivoluzioni in Tunisia, nello Yemen, in Libia, in Bahrain e soprattutto in Egitto soddisfano entrambi i criteri, ovvero sono avvenute in presenza di governi soggetti ai piani americani e dove non esisteva volontà di introdurre riforme, Hezbollah reputa coerente sostenere le rivolte. Al contrario, la "resistenzialità" del governo di Assad ed il suo ruolo nella regione, insieme alla sua apertura nei confronti delle riforme e del dialogo, significano che l'insurrezione siriana non collima con nessuno dei criteri e che dunque Hezbollah non può "sostenere il rovesciamento di un governo di orientamento resistenziale e che ha cominciato ad introdurre riforme"[35]. Di conseguenza, il rifiuto di Hezbollah di sostenere i manifestanti non è "basato su due pesi e due misure"[36], come si è soliti affermare: al contrario, Hezbollah utilizza "un solo metro"[37].

Conclusione. Diritti e libertà nella concezione di Hezbollah. Hezbollah è un partito politico che ha sempre subordinato il suo ruolo politico al suo ruolo militare; non si è mai avvalso dei diritti politici come pure avrebbe titolo per fare, ad esempio per avere una maggiore rappresentatività politica all'interno del Libano. Sia nel 1992 che nel 1996 il partito ha lasciato che la Siria esercitasse pressioni per un'alleanza elettorale con Amal, anche se il concorrere da solo gli avrebbe procurato più seggi. Come quando sono stati uccisi suoi combattenti o suoi sostenitori, Hezbollah ancora una volta acconsentì al saqf al suri (il "soffitto siriano") per proteggere la propria resistenza. Allo stesso modo, anche quando è giunto ad avere potere politico, Hezbollah lo ha utilizzato soltanto per proteggere la resistenza dalle pressioni esterne, come nel 2005, dopo il ritiro delle truppe siriane dal Libano, e come nel 2011 quando sfiduciò il governo di Saad Hariri sulla questione del Tribunale speciale per il Libano. Anche in questi casi Hezbollah si è sempre accontentato di avere una rappresentanza di governo ridotta ai minimi termini, ed Hezbollah non ha mai fatto uso delle prerogative politiche di cui godrebbe a livello delle amministrazioni locali grazie al fatto di essere un movimento sciita, tra i quali una quota di potere politico commisurata alla numerosità della comunità che rappresenta.
Hezbollah al contrario è disposto a rinunciare alle proprie prerogative politiche pur di salvaguardare le proprie attività di resistenza, ed è incline a togliere agibilità politica a chi ritiene di avere il diritto di porvi qualche ostacolo. Come illustrato dai fatti del maggio 2008, Hezbollah non ha esitato ad impugnare le armi contro i propri avversari interni che stavano cercando di paralizzare le attività della resistenza. Il movimento si è comportato con la stessa intransigenza anche in contesti meno provocatori, come i colloqui del Dialogo Nazionale. Hezbollah è anche disposto a dialogare con i suoi nemici in merito ai propri armamenti, ma fino ad oggi le sue condizioni non sono state fino ad oggi negoziabili e il movimento respinge l'idea di disarmare nello stesso modo in cui respinge le varie proposte di porre la resistenza sotto il comando dell'esercito libanese. Tutto questo Nasrallah lo ammette quando parla della resistenza che caratterizza Hezbollah come di una "questione controversa a livello nazionale", e a livello nazionale la questione della resistenza "non è mai stata oggetto di consenso". Hezbollah considera senz'altro la legittimazione popolare come qualcosa di desiderabile, ma non come qualcosa di assolutamente necessario. In questa concezione la resistenza non rappresenta un diritto perché lanciata dal popolo, ma è in se stessa un diritto perché insieme di azioni volto a raggiungere la libertà. Essa è inoltre un dovere: "La resistenza non rimane ad aspettare il consenso della nazione o del popolo; essa ha il dovere di prendere le armi e di assolvere quello della liberazione"[38].
Come nel caso delle azioni rivoluzionarie, alla fine la questione "non riguarda solo il sangue di un uomo, il destino di una donna, le ossa spezzate di un bambino o un pezzo di pane tolto dalla bocca di un povero o di un affamato. La questione riguarda il nostro popolo, la nostra nazione, il nostro destino, i nostri luoghi santi ed il nostro futuro"[39]. Detto altrimenti, il fine ultimo dell'azione politica non è la sola protezione dei vari diritti politici e civili degli individui, come afferma il pensiero liberale, e neppure l'allargare la partecipazione per ottenere maggiori diritti sociali ed economici, come nell'ottica socialista; il fine ultimo dell'azione politica riguarda il diritto collettivo della comunità dei credenti, il suo attraversare la storia nelle sue manifestazioni passate, presenti e future.
Infatti anche se la partecipazione di Hezbollah al sistema politico è generalmente conforme alle regole della democrazia liberale, le sue attività resistenziali non sono inquadrabili nelle norme liberali euroamericane cui è stato conferito valore universale, come il governo della maggioranza o il valore politico del pluralismo. Hezbollah ha dunque una concezione della libertà in cui la libertà positiva di controllare il proprio destino e di arrivare all'autodeterminazione supera la preoccupazione liberale per la libertà negativa, intesa come libertà dalle costrizioni e dalle pastoie provenienti dall'esterno. Dal momento che il concetto di libertà è strettamente associato al concetto di liberazione, il discorso politico del movimento è assai più permeato di questo che non del oncetto di libertà in senso liberale, al quale Hezbollah fa riferimento, usando il plurale, come a "pubbliche libertà". Il concetto di libertà nel senso di liberazione viene anche considerato sinonimo di democrazia, come dimostrato dalla risposta che Nasrallah ha dato al primo ministro dello stato sionista Benjamin Netanyahu: "Questo gran ciarlatano ha detto che il milione di arabi che vivono in quello che lui chiama Israele sono gli unici a godere delle libertà e della democrazia. No, signor Netanyahu... Noi libanesi siamo uomini liberi in questo mondo. In Libano ci siamo guadagnati la libertà con il sangue..."[40]. Lo stesso concetto di libertà è quello cui Nasrallah fa riferimento quando definisce l'insurrezione egiziana come "la rivoluzione della povera gente, degli uomini liberi, dei cercatori di libertà, di coloro che respingono gli insulti e l'umiliazione... che sono il risultato della resa al volere degli Stati Uniti e dello stato sionista"[41].
L'associazione tra la libertà da una parte, e l'oppressione e la liberazione dall'altra, è ancora più evidente se si ricorda di come il primo manifesto di Hezbollah, la "lettera aperta" del 1985, fosse rivolto "ai liberi uomini oppressi". In un altro esempio, l'oppressione viene definita "libera"[42].
Da questa intercambiabilità dei concetti di libertà ed oppressione deriva il fatto che il concetto di libertà secondo il movimento si manifesta in piccola misura come ideale liberale di condizione di assenza di dittatura, ed in maggior modo come processo e come status indefiniti ed in continuo perfezionamento. Essere liberi non significa essere lasciati in pace, ma lottare continuamente in nome della giustizia. Per questo Hezbollah è intrinsecamente avversario delle sollevazioni liberali comer quella siriana, che concentrano i loro sforzi sulla liberazione di se stesse dal controllo statale anziché sulla lotta contro il colonialismo statunitense e sionista.

Le opinioni espresse in questo articolo sono espressione personale dell’autore e non corrispondono necessariamente a quelle di Conflicts Forum.


Amal Saad Ghorayeb è un’accademica libanese indipendente ed un’analista politica; è autrice del volume Hizbullah: Politics and Religion (Pluto Press, Londra, 2002). Al momento sta cercando materiali per un libro, in pubblicazione presso IB Tauris, sul sistema di alleanze iraniano in medio oriente. E’ stata visiting scholar al Carnegie Endowment’s Middle East Centre di Beirut e lecturer alla Lebanese American University.

[1] Nasrallah, Discorso per il Giorno della Resistenza e della Liberazione, Manar TV, Maggio 25, 2011
[2] Nasrallah, Al-Quds’ Day speech, Manar TV, 26 Agosto 2011
[3] Nasrallah, Discorso per il Giorno della Resistenza e della Liberazione, op cit.
[4] Nasrallah, Manar TV, 7 febbraio 2011
[5] Nasrallah, Manar TV, 29 dicembre 2008
[6] Bashar al-Assad, citato in SANA, 30 marzo 2011
[7] Nasrallah, Discorso per il giorno di Quds
[8] Ibid.
[9] Ibid.
[10] Ibid.
[11] Cfr. per esempio l'articolo di Lamis Andoni “The Delusions of Bashar Al Asad: the Myth of Resistance”, Al
Jazeera in lingua inglese, 3 aprile 2011
[12] Nasrallah, Discorso per il giorno di Quds, Manar TV, 22 settembre 2009
[13] Ibid.
[14] Nasrallah, Intervista a Manar TV, 24 Ottobre 2011
[15] Ibid.
[16] Nasrallah, Discorso per il Giorno della Resistenza e della Liberazione, op cit.
[17] Intervista a Qasim, AFP, 25 giugno 2009
[18] Nasrallah, Discorso per il Giorno della Resistenza e della Liberazione, op cit.
[19] Nasrallah, Intervista a Manar TV, 24 ottobre 2011
[20] Nasrallah, Discorso per il Giorno della Resistenza e della Liberazione, op cit.
[21] Ibid.
[22] Nasrallah, Intervista a Manar TV, 24 Ottobre 2011
[23] “Bashar Assad Must Resign: Israeli President Shimon Peres,” The Huffington Post, 26 luglio 2011
[24] “Barak: Assad’s Fall Would Deal Severe Blow to Iran,” Naharnet, 20 giugno 2011
[25] Cfr. Amal Saad-Ghorayeb, Hizbullah: Politics and Religion, pp.16-22
[26] Ibid, p.134
[27] Cfr. Saad-Ghorayeb, pp.23-24
[28] Nasrallah, Intervista a Manar TV, 24 ottobre 2011
[29] “Syria Accuses U.S. Of Inciting Violence Against Army,” The Daily Star, 29 settembre, 2011
[30] Cfr. per esempio il presidente del Consiglio Nazionale Siriano, Burhan Ghalioun, Citato in “Syria hails 'historic' Russia, China vetoes”, AFP, 4 ottobre 2011
[31] “Syrian Defector Urges Aid For Armed Opposition Group,” AFP, 10 ottobre 2011
[32] Nasrallah, Manar TV, 7 febbraio 2011
[33] Nasrallah, Interview, Manar TV, 24 ottobre 2011
[34] Ibid.
[35] Ibid.
[36] Nasrallah, 19 March 2011
[37] Nasrallah, Manar TV, 16 febbraio 2011
[38] Nasrallah, Manar TV, 26 maggio 2008
[39] Nasrallah, Manar TV, 7 febbraio 2011
[40] Nasrallah Manar TV, Discorso per il Giorno della Resistenza e della Liberazione, op cit.
[41] Nasrallah, Manar TV, 7 febbraio, 2011
[42] Citato in Saad-Ghorayeb, p.19