martedì 30 agosto 2011

Alastair Crooke - Una spiegazione del paradosso siriano



Articolo tratto da Asian Times on Line

E' possibile spiegare quanto sta accadendo in Siria considerandolo alla stregua di un esempio di rivoluzione popolare araba allo stato puro, come un'insurrezione caratterizzata da una protesta non violenta e liberale contro la tirannia che ha finito per imbattersi in una pura e semplice operazione repressiva? A mio parere si tratta di un'ottica completamente errata e deliberatamente messa in piedi per servire ambizioni di tutt'altro genere. Chiudere gli occhi sugli avvenimenti siriani comporta un grosso rischio, quello di ignorare le potenziali implicazioni di un conflitto settario che non rimarrebbero confinate alla sola Siria.
Uno dei problemi che si devono affrontare tentando di dare una spiegazione al paradosso siriano è che esiste una sincera richiesta di cambiamenti che proviene dall'interno del paese. A chiedere delle riforme è una grande maggioranza della popolazione siriana che avverte un senso di claustrofobia dovuto alla inerte mano pesante dello stato, e che percepisce l'altezzoso senso di sufficienza con cui la macchina burocratica assiste al suo affaccendarsi quotidiano ed alle sue tribolazioni. I siriani soffrono per una corruzione pervasiva e per le intromissioni arbitrarie delle autorità preposte alla sicurezza, che toccano la maggior parte degli àmbiti del vivere quotidiano. Questa richiesta di riforme è da sola una spiegazione sufficiente alle violenze siriane, come molti affermano?
Che esista una richiesta di riforme da parte delle masse è un dato di fatto. Paradossalmente però, e contrariamente a quello che afferma certa narrativa del "risveglio", la maggior parte dei siriani è anche dell'opinione che il presidente Bashar Al Assad condivida la loro convinzione del fatto che le riforme siano necessarie. La popolazione di Damasco, di Aleppo, la classe media, quella mercantile e le minoranze non sunnite (che sono un quarto della popolazione) tra le altre, compresa la dirigenza dei Fratelli Musulmani, rientrano in questa categoria. Tutti pensano anche che non esista nessun altro in grado di condurre in porto le riforme.
Dunque, cosa sta succedendo? Perché il conflitto si è polarizzato e si è fatto tanto aspro, se esiste un consenso tanto condiviso?
Credo che le radici di questo inasprirsi vadano cercate più in Iraq che in Siria, secondo due linee di spiegazione distinte. In primo luogo, esse vanno fatte risalire fino al filone del pensiero jihadista sunnita come è stato concepito da Abu Musab Al Zarqawi, che si è evoluto in Iraq, è violentemente emerso alla supeficie in Libano ed ha infine trovato un terreno favorevole in Siria, trapiantatovi dai molti veterani salafisti siriani alla "fine" del conflitto iracheno. In secondo luogo, ed in modo del tutto separato, l'inasprirsi della situazione siriana ha anche a che vedere con il profondo senso di insoddisfazione diffuso in certi paesi arabi a seguito della perdita di potere politico sofferta dai sunniti dopo l'arrivo alla ribalta di Nouri Al Maliki in Iraq, cosa di cui Assad viene ritenuto responsabilie.
In circostanze che potremmo considerare come precursori dell'attuale situazione siriana, l'esercito libanese dovette combattere, nel 2007, contro un gruppo di militanti sunniti di diverse nazionalità che avevano tutti combattuto in Iraq. Il gruppo, Fatah Al Islam, si era inflitrato dalla Siria nel campo profughi di Naher Al Bared, nel Libano del nord, ed i suoi esponenti si erano imparentati con le famiglie palestinesi che vi abitavano. Il gruppo dei combatenti stranieri era di per sé piuttosto piccolo di numero, ma tutti erano ben armati e con una buona esperienza in fatto di combattimento nei contesti urbani. Il gruppo era riuscito ad attirare anche un certo numero di sostenitori libanesi. Quel sanguinoso scontro con l'esercito del Libano durò più di tre mesi: Naher Al Bared ne uscì a pezzi, mentre l'esercito libanese ebbe centosessantotto caduti.
La vicenda costituì il culmine di uno schema che prendeva le mosse dall'Afghanistan e che si era diffuso attraverso il Medio Oriente, verso l'Iraq e dall'Iraq al tempo stesso. La maggior parte dei sunniti radicali che combattevano l'occupazione statunitense aveva gravitato attorno a gruppi associati tramite legami esili a Zarqawi. Il fatto che Zarqawi fosse affiliato ad Al Qaeda non ha particolare rilevanza oggi in Siria: al contrario, è cruciale la "dottrina siriana" di Zarqawi che fu sviluppata in Iraq.
Come altri salafiti, Zarqawi non accettava le frontiere artificiali e le divisioni tra nazione e nazione ereditate dal colonialismo. Faceva correntemente riferimento all'unione del Libano, della Siria, della Palestina, della Giordania e di regioni della Turchia e dell'Iraq chiamandola con il vecchio nome di Bilad A Sham. Zarqawi e i suoi seguaci erano virulentemente antisciiti: lo erano assai di più della Al Qaeda dei primi anni, e pensavano che Bilad A Sham costituisse il nulceo centrale di un retaggio sunnita che gli sciiti avevano usurpato. Secondo questa visione delle cose il cuore delle terre sunnite, la Siria, da quarant'anni subiva il potere usurpatore degli sciiti Assad (quella alawita è una corriente interna all'islam sciita). L'ascesa di Hezbollah, in parte facilitata da Assad, aveva inoltre eroso ulteriormente il carattere sunnita del Libano. Coerentemente, Zarqawi e i suoi identificavano in quello che ritenevano un mancato sostegno all'ex primo ministro iracheno Ayad Allawi da parte di Assad un atto che aveva consegnato l'Iraq agli sciiti, a Nouri Al Maliki in particolare.
Partendo da questo profondo risentimento per l'erosione del potere sunnita, gli alleati di Zarqawi hanno sviluppato una dottrina politica secondo la quale la Siria ed il Libano non rappresentavano più dei territori da cui lanciar il Jihad, ma territori per il Jihad medesimo (contro gli sciiti così come contro altri).
I salafiti siriani alla fine si sono messi sulla strada di casa, covando il loro risentimento. Molti di loro, siriani e non siriani, si sono stabiliti in villaggi di campagna prossimi alla frontiera con il Libano e con la Turchia e, così come avevano fatto i loro confratelli a Naher Al Barad, si sono imparentati con le famiglie locali.
La violenza armata contro le forze regolari siriane nasce da questi gli elementi, come già successo in Libano nel 2007. A differenza dell'Egitto e della Tunisia, la Siria ha avuto centinaia di morti e molte centinaia di feriti nelle forze armate e nella polizia. (Daraa è qualcosa di diverso: a prendere le armi sono qui beduini che si muovono tra l'Arabia Saudita, la Giordania e la Siria).
Non è facile fare delle cifre, ma forse quarantamila o cinquantamila siriani hanno combattuto in Iraq. Grazie ai matrimoni contratti nelle varie comunità la base di sostenitori su cui possono contare è più estesa degli effettivi che hanno partecipato ai combattimenti veri e propri in Iraq. Il loro obiettivo in Siria è simile: porre le condizioni per il Jihad portando all'estremo i rancori di origine settaria; la stessa cosa che Zarqawi ha fatto in Iraq, attaccando la comunità sciita ed i suoi luoghi sacri. Allo stesso modo, essi stanno cercando di guadagnare terreno nella Siria nordorientale, e di fondarvi un emirato islamico di orientamento salafita destinato a funzionare in modo autonomo rispetto all'autorità statale.
Questo settore dell'opposizione non è interessato alle "riforme" o alla democrazia: essi affermano con chiarezza ed in modo pubblico che se rovesciare gli alawiti "sciiti" gli dovesse costare due milioni di morti, sarebbe comunque un sacrificio che varrebbe la pena di fare. Il fatto che si modifichi la legge vigente perché permetta l'esistenza di nuovi partiti politici o che si allarghino le maglie della libertà di stampa sono cose che li lasciano completamente indifferenti. Il movimento di Zarqawi rifiuta scopertamente ogni politica occidentale.
Questi gruppi salafiti costituiscono il primo lato della "scatola" siriana: non si riconoscono nelle direttive di un'unica organizzazione, ma sono per lo più a guida locale ed agiscono in autonomia. Esiste un sistema di comunicazione che li unisce con legami tenui, ricevono finanziamenti cospicui ed hanno legami con l'esterno del paese.
Il secondo lato della scatola siriana è rappresentato da alcuni gruppi in esilio: anch'essi sono ben finanziati dal governo statunitense e da altre agenzie estere, ed hanno legami con l'esterno del paese sia a livello locale che in Occidente. Le comunicazioni del 2009 partite dall'ambasciata statunitense a Damasco rivelano che un certo numero di questi gruppi e le emittenti televisive ad essi collegate hanno ricevuto decine di milioni di dollari dal Dipartimento di Stato e da altre fondazioni basate negli USA, nonché addestramento ed assistenza tecnica. Questi gruppi in esilio pensano di poter utilizzare con successo gli insorti salafiti per i propri scopi.
Gli esiliati speravano che un'insurrezione salafita contro lo stato, anche se confinata all'inizio nelle regioni periferiche del paese, avrebbe provocato una reazione governativa che avrebbe polarizzato un considerevole numero di persone su posizioni ostili nei confronti dello stato e che alla fine un'intervento occidentale in Siria sarebbe stato inevitabile; il modello di riferimento è Bengasi.
Questo non si è verificato, nonostante i leader occidentali, come il ministro degli esteri francese Alain Juppé, abbiano fatto molto per mantenere aperta questa possibilità.
Sempre gli esiliati, spesso di orientamento laico e di sinistra, tentano anche di aggiustare la concezione della situazione siriana adottata dai mass media. Questi espatriati hanno allenato i salafiti nell'utilizzo delle tecniche caratteristiche delle "rivoluzioni colorate", per fare il ritratto di una storia di immotivata e gratuita repressione di massa portata avanti da un regime che rifiuta le riforme, intanto che l'esercito si disgrega sotto le pressioni esercitate su di esso perché si comporti come un carnefice nei confronti dei cittadini del proprio stesso paese. Al Jazeera e Al Arabia hanno messo del proprio nella diffusione di questa narrativa, trasmettendo racconti di testimoni oculari rimasti anonimi e riprese video, senza stare a far domande (si veda, per esempio, il caso di Ibrahim Al Amine).
I salafiti capiscono che gli esiliati li stanno usando per provocare incidenti, e quindi a rafforzare la narrativa mediatica della repressione portata avanti dall'opposizione esterna; la cosa potrebbe tornare utile anche agli interessi dei salafiti.
Le due componenti qui descritte contano su effettivi relativamente contenuti, ma la spinta emotiva che viene dall'amplificazione dello scontento sunnita e dalle riparazioni che esso pretende ha una portata più ampia e più significativa. Può facilmente trasformarsi in azioni concrete, tanto in Siria quanto nell'intera regione nel suo complesso. L'Arabia Saudita e gli stati del Golfo traggono esplicite rendite di posizione dai timori legati ad un "espansionismo" sciita e se ne servono per giustificare la repressione promossa in Bahrein dal Consiglio di Cooperazione tra Stati Arabi del Golfo e l'intervento militare nello Yemen, intanto che i clamori su questo settarismo assertivo vengono amplificate anche all'interno della Siria.
Gli ambienti clericali sunniti tentano di mettere il cappello sul "risveglio" arabo, come se fosse una risposta alla Rivoluzione Sciita in Iran. A marzo, Al Jazeera ha trasmesso un sermone dello sceicco Youssef Al Qaradawi, che ha alzato lo stendardo della restaurazione di una predominanza sunnita in Siria. A Qardawi, che ha una propria base in Qatar, si è unio il religioso saudita Saleh Al Luhaidan, che ha esortato perentoriamente ad "uccidere un terzo dei siriani, perché gli altri due terzi possano vivere".
E' chiaro che molti dei contestatori, nelle città che sono tradizionalmente centri di irredentismo sunnita comre le siriane Homs e Hama, vengono dalle file dei sunniti in preda allo scontento, favorevoli alla cacciata degli alawiti e ad un ritorno della predominanza sunnita. Non sono salafiti, ma siriani appartenenti alla maggioranza per i quali gli elementi fatti propri dall'ascendenza sunnita, l'irredentismo e l'invocazione delle riforme, si sono fusi in un'unica rivendicazione. Una prospettiva molto preoccupante per quel quarto di popolazione siriana che appartiene alle minoranze non sunnite.
La marginalizzazione dei sunniti in Iraq, in Siria, e più di recente anche in Libano ha provocato scontento tra i sauditi ed in alcuni paesi del Golfo, proprio come tra i salafiti. La convinzione che Assad abbia tradito gli interessi dei sunniti in Iraq, anche se fondata su basi molto deboli, fornisce credibilità ai toni veementi caratteristici della tendenziosa campagna di informazione che Al Jazeera, finanziata dal Qatar, ha rivolto contro Assad.
La rivista francese Le Nouvel Observateur ha riferito di un attivsta mediatico di Stoccolma che si è recato ampiamente per tempo ed in segreto a Doha, laddove il personale di Al Jazeera permetteva libero accesso al canale televisivo panarabo e addestrava il personale che vi lavorava a rendere più impressionanti le proprie riprese video: "Filmate donne e bambini. Insistete sul fatto che stanno usando slogan pacifici".
Al contrario, i resoconti della stampa araba sono stati chiari circa le richieste avanzate con insistenza ad Assad dagli stati del Golfo (gli "Arabi dell'America") e dagli inviati europei in cambio del loro sostegno. Ibrahim Al Amine, redattore capo del quotidiano indipendente Al Akhbar, ha elencato i passi necessari sulla via delle riforme, che contemplano l'eliminazione del partito giuda, l'introduzione di una nuova legislazione sui partiti politici e sulla stampa, la rimozione di determinati individui da certe cariche, il ritiro dell'esercito dalle strade e l'inizio di negoziati diretti ed intensi con Israele. Gli inviati hanno anche suggerito che intraprendere simili riforme potrebbe fornire ad Assad la scusa buona per rompere l'alleanza con Hezbollah e con Hamas, e per indebolire gli aspetti dei rapporti di Damasco con Tehran che riguardano la politica di resistenza.
Dall'ambiente diplomatico è arrivato il suggerimento che il prendere iniziative come quelle qui descritte faciliterebbe il miglioramento delle relazioni con i paesi arabi e con il capitale internazionale, ed è stata fatta balenare la possibilità che i paesi arabi ricchi di petrolio offrirebbero ad Assad un pacchetto di aiuti del valore complessivo di venti miliardi di dollari, per facilitare il distacco di Assad da qualsiasi dipendenza economica lo leghi all'Iran.
Tutto questo fa capo all'altra dimensione degli avvenimenti siriani, che riguarda la posizione strategica della Siria come pilastro dell'arco che unisce il Libano del sud all'Iran. Questo ruolo rappresenta qualcosa che tutti coloro che negli USA ed in Europa si preoccupano in primo luogo della sicurezza di Israele hanno cercato di eliminare. Non è altrettanto chiaro, tuttavia, se Israele sia ansioso di vedere Assad rovesciato così come lo sono certe personalità della politica occidentale. I politici israeliani trattano il presidente con rispetto. E se Assad dovesse lasciare, nessuno ha idea di chi potrebbe succedergli in Siria.
Gli Stati Uniti, storicamente, hanno tentato di intromettersi negli affari siriani perfino da prima del colpo di stato della CIA e del MI6 attuato nel 1953 in Iran contro il primo ministro Mossadeq.
Tra il 1947 ed il 1949 personalità del governo statunitense sono intervenuti negli affari siriani. Il loro intento era quello di liberare il popolo siriano da una élite corrotta ed autocratica. Ne venne fuori un disastro che alla fine sfociò nella presa del potere da parte della famiglia Assad. Le potenze occidentali possono anche essersi dimenticate di come sono andate le cose, ma, come ha fatto recentemente notare un commentatore della BBC, i siriani ne hanno sicuramente conservato memoria.
Fin dai tempi dell'invasione dell'Iraq nel 2003, gli USA hanno obiettivamente minacciato il presidente siriano con ultimatum continui, di concerto con Parigi, affinché facesse la pace con Israele. Assad rispedì al mittente tutte le minacce del 2003, cosa che diede origine ad una catena di pressioni e di minacce nei suoi confronti, compreso il ricorso al Consiglio di Sicurezza dell'ONU, il tribunale speciale sulle vicende libanesi e l'azione militare israeliana volta a indebolire Hezbollah ed a mutare di segno l'equilibrio dei poteri in Libano a tutto detrimento di Assad. Gli USA hanno anche cominciato a finanziare i gruppi di opposizione siriani, almeno dal 2005 in poi; più recentemente hanno cominciato ad addestrare attivisti, anche siriani, sui sistemi per evitare l'arresto e sulle tecniche per comunicare in modo sicuro utilizando reti telefoniche abusive e software per internet. Queste tecniche, insieme all'addestramento di attivisti operato da organizzazioni non governative occidentali e da altre agenzie mediatiche, sono tornate utili anche all'insurrezione armata e militarizzata, almeno quanto lo sono state ai movimenti di protesta pacifici e filodemocratici.
Gli USA si sono adoperati anche per finanziare, direttamente o indirettamente, organizzazioni per i diritti umani che si sono rivelate molto attivi nel fornire agli attivisti che operano con i mass media casi non verificati di vittime della repressione e racconti di sedicenti testimoni oculari. Alcuni, come il Damascus Centre for Human Rights ammettono il loro accordo con lo US National Endowment for Democracy e con le altre organizzazioni da cui ricevono finanziamenti, per esempio il Democracy Council e l'International Republican Institute. La decisione del governo siriano di cacciare i giornalisti stranieri ha certamente contribuito a concedere alle fonti di informazioni controllate dagli attivisti all'estero carta bianca nell'imporre ai mass media la loro narrativa sugli avvenimenti siriani.
Il lato mancante del vaso di Pandora siriano, sul quale fino ad ora si è evitato di soffermarsi, è rappresentato dall'esercito siriano e dal suo comportamento nei confronti delle proteste. L'esercito, per la maggior parte addestrato allo stile russo, non ha esperienza di combattimento in contesti urbani complessi in cui dei contestatori autentici si trovino mescolati ad un piccolo numero di insorti armati che sanno come muoversi negli ambienti urbani, che hanno fatto esperienza di imboscate in Iraq e che abbiano l'intenzione di arrivare allo scontro con le forze di sicurezza.
L'esercito siriano non ha esperienza nel campo del contrasto alle insurrezioni; è cresciuto alla scuola del Patto di Varsavia, fatta di grandi manovre e di brigate dotate di armamento pesante, in cui la parola "moderazione" non rientrava a nessun titolo nel vocabolario. Carri armati e brigate corazzate non hanno alcuna utilità in operazioni che richiedano il controllo di una folla, soprattutto in aree ristrette e congestionate. Non sorprende che il movimento dei militari finisca per uccidere contestatori disarmati rimasti presi tra due fuochi, esasperando le tensioni con quanti chiedono sinceramente le riforme e lasciando attonito il pubblico.
La reputazione dell'esercito ha innanzitutto risentito delle critiche. Anche se le storie che riferiscono di diserzioni di massa possono essere ascritte in blocco alla disinformazione, ai gradi più bassi si è comunque verificata una certa erosione della tenuta dei reparti; col crescere delle vittime anche la fiducia dei cittadini nei confronti dei militari ha vacillato. Solo che questo vacillare è cessato con il drammatico scontro verificatosi alla metà di giugno attorno alla cittadina di Jisir Al Shagour, vicino al confine turco.
Così come il popolo libanese ha sostenuto l'esercito nazionale nello scontro di Naher Al Bared, allo stesso modo i siriani hanno sostenuto il loro esercito contro gli attacchi salafiti diretti dapprima contro la polizia e successivamente contro l'esercito e contro le istituzioni statali a Jisr. Man mano che i particolari degli scontri a Jisr Al Shagour venivano resi noti al pubblico, il risentimento nei confronti degli insorti non ha fatto che aumentare, probabilmente fino al punto di non ritorno. Le immagini che arrivavano da Jisr, così come altri filmati messi in circolazione in cui si vedevano appartenenti alle forze di sicurezza rimanere vittime di linciaggi e di aggressioni, hanno colpito molti siriani, che vi hanno visto la stessa orgia sanguinaria cui hanno assistito per l'impiccagione di Saddam Hussein.
E' possibile che i fatti di Jisr abbiano rappresentato un momento di svolta. La tenuta e la reputazione dell'esercito stanno crscendo, e la maggioranza del pubblico adesso considera le forze armate in una maniera che non era da dare per scontata prima che la Siria si trovasse a dover affrontare una minaccia tanto seria quanto scollegata da qualunque programma di riforme. Il sentire generale non pensa più in termini di attuazione immediata delle riforme.
L'opinione pubblica è polarizzata e carica di rancore nei confronti dei salafiti e dei loro alleati. Gli ambienti dell'opposizione laica e di sinistra stanno prndendo le distanze dalla violenza salafita: la contraddizione presente nelle divergenti aspirazioni degli "esuli" e dei salafiti, che li separa dal consenso della maggioranza del paese, adesso si manifesta con chiarezza. E costituisce in buona sostanza l'ultimo lato della paradossale "scatola" siriana.
In un clima simile l'introduzione plateale di una serie di riforme verrebbe interpretata dai sostenitori del presidente come un segnale di debolezza, se non di condiscendenza nei confronti di chi ha ucciso tanti poliziotti e tanti militari a Jisr. Non sorprende dunque che Assad si sia avvalso del discorso tenuto la scorsa settimana per parlare ai suoi sostenitori, sia per mettere in chiaro le difficoltà e le minacce che la Siria si trova ad affrontare, sia per stabilire le tappe di un percorso che conduca all'uscita da questa situazione pericolosa e verso riforme sostanziali.
In Occidente il discorso di Assad è stato ampiamente descritto come "deludente" o "non approfondito sui temi specifici", ma non è questo il problema. Se le cose non fossero arrivate a questo punto una serie di riforme radicali come quella invocata dal ministro degli esteri turco avrebbe potuto, ad un certo momento, avere un effetto shock tale da portare a profonde trasformazioni; è tuttavia dubbio che ormai questo possa succedere. Al contrario, ogni concessione strappata al governo da una violenza come quella vista a Jisr causerebbe con ogni probabilità l'ira dei sostenitori di Assad, ed altrettanto probabilmente non supererebbe il rifiuto categorico dell'opposizione militante, che cerca di esacerbare le tensioni al punto da far sì che l'Occidente si risolva a intervenire.
Il presidente Assad, precisando con attenzione alcuni passi avanti ed alcuni sviluppi da perseguire con determinazione, ha correttamente interpretato lo spirito della maggioranza dei siriani. A giudicare sarà il tempo, ma pare che Assad stia riuscendo ad emergere da una ingarbugliata serie di sfide in parallelo, direttegli contro sia da movimenti politici che da stati sovranim che riflette un ampio spettro di motivi di scontento, di interessi specifici e di motivazioni. Le radici di tutto questo sono lungi dal venir rimosse dalle questioni che riguardano le riforme legislative e politiche in Siria.
Se Assad considerasse l'insieme di tutto quanto sta contro di lui come il vero e proprio montare di un golpe morbido sarebbe difficile stupirsi. Può anche darsi che Assad si chieda fino a che punto il presidente Barack Obama sia al corrente di quanto sta succedendo in Siria. Sembra improbabile che le personalità statunitensi fossero del tutto all'oscuro della matrice di minacce che concorrono a minare la stabilità di Assad o ne ignorassero la natura. Se questo fosse davvero il caso, non sarebbe la prima volta che i siriani si trovano alle prese con un esempio di cattivo funzionamento tra "mano sinistra" e "mano destra" nello stile adottato da obama quanto a politica estera, con approcci di tipo contraddittorio portati simultaneamente avanti da personalità statunitensi differenti.
Se Assad riuscirà a venire a capo di tutte le sfide, come sembra probabile, il tono delle risposte fornite agli inviati arabi ed europei fa pensare che le riforme verranno davvero portate a termine, anche per proteggere l'etica resistenziale della Siria da minacce dello stesso genere che possano presentarsi in futuro.
Nel 2007, ha notato con ironia Assad in una considerazione aggiuntiva al suo discorso, non aveva avuto il tempo di portare a termine delle riforme degne di questo nome: "Noi non abbiamo neppure avuto il tempo di discutere alcunché che riguardasse, tra le altre cose, la legge sui partiti. Ad un certo punto bisognava tenere in considerazione innanzitutto l'economia, ma non avevamo tempo di farci un'idea precisa di quale fosse la situazione economica. Siamo stati coinvolti in una battaglia decisiva [sul fronte esterno], e dovevamo vincerla. Non è che ci fossero altre scelte...".
Adesso il fronte esterno decisivo è proprio quello delle riforme. Ma se lo scopo di tutto questo era quello di provocare un rovesciamento nell'equilibrio dei poteri in Medio Oriente, la cosa non ha funzionato. E' improbabile che Assad esca da questa storia più disponibile ad accettare le sfide dell'Occidente di quanto lo sia stato in passato.

Alastair Crooke è fondatore e direttore di Conflicts Forum, ed è stato consigliere dell'ex responsabile della politica estera della UE Xavier Solana tra il 1997 ed il 2003.

1 commento:

  1. Fantastica analisi, precisa, informata e articolata.


    Obietterei un poco sul considerare gli alawiti "tout court" come una filiazione dello sciismo; in realtà in Medio Oriente esistono molte religioni 'minori' (Alawismo, Fede Drusa, Yazidismo), di cui i media occidentalisti non parlano mai, impegnati come sono a farci credere che "i levantini sono tutti I SLAMICI", alcune di esse sono state influenzate pesantemente dalla Gnosi, anche nella sua forma sciita (basti pensare ai Drusi) ma a volte le pre-esistono (è il caso degli Yazidi e, credo di non dire una sciocchezza, anche degli Alawiti).

    RispondiElimina