martedì 30 agosto 2011

Alastair Crooke - Una spiegazione del paradosso siriano



Articolo tratto da Asian Times on Line

E' possibile spiegare quanto sta accadendo in Siria considerandolo alla stregua di un esempio di rivoluzione popolare araba allo stato puro, come un'insurrezione caratterizzata da una protesta non violenta e liberale contro la tirannia che ha finito per imbattersi in una pura e semplice operazione repressiva? A mio parere si tratta di un'ottica completamente errata e deliberatamente messa in piedi per servire ambizioni di tutt'altro genere. Chiudere gli occhi sugli avvenimenti siriani comporta un grosso rischio, quello di ignorare le potenziali implicazioni di un conflitto settario che non rimarrebbero confinate alla sola Siria.
Uno dei problemi che si devono affrontare tentando di dare una spiegazione al paradosso siriano è che esiste una sincera richiesta di cambiamenti che proviene dall'interno del paese. A chiedere delle riforme è una grande maggioranza della popolazione siriana che avverte un senso di claustrofobia dovuto alla inerte mano pesante dello stato, e che percepisce l'altezzoso senso di sufficienza con cui la macchina burocratica assiste al suo affaccendarsi quotidiano ed alle sue tribolazioni. I siriani soffrono per una corruzione pervasiva e per le intromissioni arbitrarie delle autorità preposte alla sicurezza, che toccano la maggior parte degli àmbiti del vivere quotidiano. Questa richiesta di riforme è da sola una spiegazione sufficiente alle violenze siriane, come molti affermano?
Che esista una richiesta di riforme da parte delle masse è un dato di fatto. Paradossalmente però, e contrariamente a quello che afferma certa narrativa del "risveglio", la maggior parte dei siriani è anche dell'opinione che il presidente Bashar Al Assad condivida la loro convinzione del fatto che le riforme siano necessarie. La popolazione di Damasco, di Aleppo, la classe media, quella mercantile e le minoranze non sunnite (che sono un quarto della popolazione) tra le altre, compresa la dirigenza dei Fratelli Musulmani, rientrano in questa categoria. Tutti pensano anche che non esista nessun altro in grado di condurre in porto le riforme.
Dunque, cosa sta succedendo? Perché il conflitto si è polarizzato e si è fatto tanto aspro, se esiste un consenso tanto condiviso?
Credo che le radici di questo inasprirsi vadano cercate più in Iraq che in Siria, secondo due linee di spiegazione distinte. In primo luogo, esse vanno fatte risalire fino al filone del pensiero jihadista sunnita come è stato concepito da Abu Musab Al Zarqawi, che si è evoluto in Iraq, è violentemente emerso alla supeficie in Libano ed ha infine trovato un terreno favorevole in Siria, trapiantatovi dai molti veterani salafisti siriani alla "fine" del conflitto iracheno. In secondo luogo, ed in modo del tutto separato, l'inasprirsi della situazione siriana ha anche a che vedere con il profondo senso di insoddisfazione diffuso in certi paesi arabi a seguito della perdita di potere politico sofferta dai sunniti dopo l'arrivo alla ribalta di Nouri Al Maliki in Iraq, cosa di cui Assad viene ritenuto responsabilie.
In circostanze che potremmo considerare come precursori dell'attuale situazione siriana, l'esercito libanese dovette combattere, nel 2007, contro un gruppo di militanti sunniti di diverse nazionalità che avevano tutti combattuto in Iraq. Il gruppo, Fatah Al Islam, si era inflitrato dalla Siria nel campo profughi di Naher Al Bared, nel Libano del nord, ed i suoi esponenti si erano imparentati con le famiglie palestinesi che vi abitavano. Il gruppo dei combatenti stranieri era di per sé piuttosto piccolo di numero, ma tutti erano ben armati e con una buona esperienza in fatto di combattimento nei contesti urbani. Il gruppo era riuscito ad attirare anche un certo numero di sostenitori libanesi. Quel sanguinoso scontro con l'esercito del Libano durò più di tre mesi: Naher Al Bared ne uscì a pezzi, mentre l'esercito libanese ebbe centosessantotto caduti.
La vicenda costituì il culmine di uno schema che prendeva le mosse dall'Afghanistan e che si era diffuso attraverso il Medio Oriente, verso l'Iraq e dall'Iraq al tempo stesso. La maggior parte dei sunniti radicali che combattevano l'occupazione statunitense aveva gravitato attorno a gruppi associati tramite legami esili a Zarqawi. Il fatto che Zarqawi fosse affiliato ad Al Qaeda non ha particolare rilevanza oggi in Siria: al contrario, è cruciale la "dottrina siriana" di Zarqawi che fu sviluppata in Iraq.
Come altri salafiti, Zarqawi non accettava le frontiere artificiali e le divisioni tra nazione e nazione ereditate dal colonialismo. Faceva correntemente riferimento all'unione del Libano, della Siria, della Palestina, della Giordania e di regioni della Turchia e dell'Iraq chiamandola con il vecchio nome di Bilad A Sham. Zarqawi e i suoi seguaci erano virulentemente antisciiti: lo erano assai di più della Al Qaeda dei primi anni, e pensavano che Bilad A Sham costituisse il nulceo centrale di un retaggio sunnita che gli sciiti avevano usurpato. Secondo questa visione delle cose il cuore delle terre sunnite, la Siria, da quarant'anni subiva il potere usurpatore degli sciiti Assad (quella alawita è una corriente interna all'islam sciita). L'ascesa di Hezbollah, in parte facilitata da Assad, aveva inoltre eroso ulteriormente il carattere sunnita del Libano. Coerentemente, Zarqawi e i suoi identificavano in quello che ritenevano un mancato sostegno all'ex primo ministro iracheno Ayad Allawi da parte di Assad un atto che aveva consegnato l'Iraq agli sciiti, a Nouri Al Maliki in particolare.
Partendo da questo profondo risentimento per l'erosione del potere sunnita, gli alleati di Zarqawi hanno sviluppato una dottrina politica secondo la quale la Siria ed il Libano non rappresentavano più dei territori da cui lanciar il Jihad, ma territori per il Jihad medesimo (contro gli sciiti così come contro altri).
I salafiti siriani alla fine si sono messi sulla strada di casa, covando il loro risentimento. Molti di loro, siriani e non siriani, si sono stabiliti in villaggi di campagna prossimi alla frontiera con il Libano e con la Turchia e, così come avevano fatto i loro confratelli a Naher Al Barad, si sono imparentati con le famiglie locali.
La violenza armata contro le forze regolari siriane nasce da questi gli elementi, come già successo in Libano nel 2007. A differenza dell'Egitto e della Tunisia, la Siria ha avuto centinaia di morti e molte centinaia di feriti nelle forze armate e nella polizia. (Daraa è qualcosa di diverso: a prendere le armi sono qui beduini che si muovono tra l'Arabia Saudita, la Giordania e la Siria).
Non è facile fare delle cifre, ma forse quarantamila o cinquantamila siriani hanno combattuto in Iraq. Grazie ai matrimoni contratti nelle varie comunità la base di sostenitori su cui possono contare è più estesa degli effettivi che hanno partecipato ai combattimenti veri e propri in Iraq. Il loro obiettivo in Siria è simile: porre le condizioni per il Jihad portando all'estremo i rancori di origine settaria; la stessa cosa che Zarqawi ha fatto in Iraq, attaccando la comunità sciita ed i suoi luoghi sacri. Allo stesso modo, essi stanno cercando di guadagnare terreno nella Siria nordorientale, e di fondarvi un emirato islamico di orientamento salafita destinato a funzionare in modo autonomo rispetto all'autorità statale.
Questo settore dell'opposizione non è interessato alle "riforme" o alla democrazia: essi affermano con chiarezza ed in modo pubblico che se rovesciare gli alawiti "sciiti" gli dovesse costare due milioni di morti, sarebbe comunque un sacrificio che varrebbe la pena di fare. Il fatto che si modifichi la legge vigente perché permetta l'esistenza di nuovi partiti politici o che si allarghino le maglie della libertà di stampa sono cose che li lasciano completamente indifferenti. Il movimento di Zarqawi rifiuta scopertamente ogni politica occidentale.
Questi gruppi salafiti costituiscono il primo lato della "scatola" siriana: non si riconoscono nelle direttive di un'unica organizzazione, ma sono per lo più a guida locale ed agiscono in autonomia. Esiste un sistema di comunicazione che li unisce con legami tenui, ricevono finanziamenti cospicui ed hanno legami con l'esterno del paese.
Il secondo lato della scatola siriana è rappresentato da alcuni gruppi in esilio: anch'essi sono ben finanziati dal governo statunitense e da altre agenzie estere, ed hanno legami con l'esterno del paese sia a livello locale che in Occidente. Le comunicazioni del 2009 partite dall'ambasciata statunitense a Damasco rivelano che un certo numero di questi gruppi e le emittenti televisive ad essi collegate hanno ricevuto decine di milioni di dollari dal Dipartimento di Stato e da altre fondazioni basate negli USA, nonché addestramento ed assistenza tecnica. Questi gruppi in esilio pensano di poter utilizzare con successo gli insorti salafiti per i propri scopi.
Gli esiliati speravano che un'insurrezione salafita contro lo stato, anche se confinata all'inizio nelle regioni periferiche del paese, avrebbe provocato una reazione governativa che avrebbe polarizzato un considerevole numero di persone su posizioni ostili nei confronti dello stato e che alla fine un'intervento occidentale in Siria sarebbe stato inevitabile; il modello di riferimento è Bengasi.
Questo non si è verificato, nonostante i leader occidentali, come il ministro degli esteri francese Alain Juppé, abbiano fatto molto per mantenere aperta questa possibilità.
Sempre gli esiliati, spesso di orientamento laico e di sinistra, tentano anche di aggiustare la concezione della situazione siriana adottata dai mass media. Questi espatriati hanno allenato i salafiti nell'utilizzo delle tecniche caratteristiche delle "rivoluzioni colorate", per fare il ritratto di una storia di immotivata e gratuita repressione di massa portata avanti da un regime che rifiuta le riforme, intanto che l'esercito si disgrega sotto le pressioni esercitate su di esso perché si comporti come un carnefice nei confronti dei cittadini del proprio stesso paese. Al Jazeera e Al Arabia hanno messo del proprio nella diffusione di questa narrativa, trasmettendo racconti di testimoni oculari rimasti anonimi e riprese video, senza stare a far domande (si veda, per esempio, il caso di Ibrahim Al Amine).
I salafiti capiscono che gli esiliati li stanno usando per provocare incidenti, e quindi a rafforzare la narrativa mediatica della repressione portata avanti dall'opposizione esterna; la cosa potrebbe tornare utile anche agli interessi dei salafiti.
Le due componenti qui descritte contano su effettivi relativamente contenuti, ma la spinta emotiva che viene dall'amplificazione dello scontento sunnita e dalle riparazioni che esso pretende ha una portata più ampia e più significativa. Può facilmente trasformarsi in azioni concrete, tanto in Siria quanto nell'intera regione nel suo complesso. L'Arabia Saudita e gli stati del Golfo traggono esplicite rendite di posizione dai timori legati ad un "espansionismo" sciita e se ne servono per giustificare la repressione promossa in Bahrein dal Consiglio di Cooperazione tra Stati Arabi del Golfo e l'intervento militare nello Yemen, intanto che i clamori su questo settarismo assertivo vengono amplificate anche all'interno della Siria.
Gli ambienti clericali sunniti tentano di mettere il cappello sul "risveglio" arabo, come se fosse una risposta alla Rivoluzione Sciita in Iran. A marzo, Al Jazeera ha trasmesso un sermone dello sceicco Youssef Al Qaradawi, che ha alzato lo stendardo della restaurazione di una predominanza sunnita in Siria. A Qardawi, che ha una propria base in Qatar, si è unio il religioso saudita Saleh Al Luhaidan, che ha esortato perentoriamente ad "uccidere un terzo dei siriani, perché gli altri due terzi possano vivere".
E' chiaro che molti dei contestatori, nelle città che sono tradizionalmente centri di irredentismo sunnita comre le siriane Homs e Hama, vengono dalle file dei sunniti in preda allo scontento, favorevoli alla cacciata degli alawiti e ad un ritorno della predominanza sunnita. Non sono salafiti, ma siriani appartenenti alla maggioranza per i quali gli elementi fatti propri dall'ascendenza sunnita, l'irredentismo e l'invocazione delle riforme, si sono fusi in un'unica rivendicazione. Una prospettiva molto preoccupante per quel quarto di popolazione siriana che appartiene alle minoranze non sunnite.
La marginalizzazione dei sunniti in Iraq, in Siria, e più di recente anche in Libano ha provocato scontento tra i sauditi ed in alcuni paesi del Golfo, proprio come tra i salafiti. La convinzione che Assad abbia tradito gli interessi dei sunniti in Iraq, anche se fondata su basi molto deboli, fornisce credibilità ai toni veementi caratteristici della tendenziosa campagna di informazione che Al Jazeera, finanziata dal Qatar, ha rivolto contro Assad.
La rivista francese Le Nouvel Observateur ha riferito di un attivsta mediatico di Stoccolma che si è recato ampiamente per tempo ed in segreto a Doha, laddove il personale di Al Jazeera permetteva libero accesso al canale televisivo panarabo e addestrava il personale che vi lavorava a rendere più impressionanti le proprie riprese video: "Filmate donne e bambini. Insistete sul fatto che stanno usando slogan pacifici".
Al contrario, i resoconti della stampa araba sono stati chiari circa le richieste avanzate con insistenza ad Assad dagli stati del Golfo (gli "Arabi dell'America") e dagli inviati europei in cambio del loro sostegno. Ibrahim Al Amine, redattore capo del quotidiano indipendente Al Akhbar, ha elencato i passi necessari sulla via delle riforme, che contemplano l'eliminazione del partito giuda, l'introduzione di una nuova legislazione sui partiti politici e sulla stampa, la rimozione di determinati individui da certe cariche, il ritiro dell'esercito dalle strade e l'inizio di negoziati diretti ed intensi con Israele. Gli inviati hanno anche suggerito che intraprendere simili riforme potrebbe fornire ad Assad la scusa buona per rompere l'alleanza con Hezbollah e con Hamas, e per indebolire gli aspetti dei rapporti di Damasco con Tehran che riguardano la politica di resistenza.
Dall'ambiente diplomatico è arrivato il suggerimento che il prendere iniziative come quelle qui descritte faciliterebbe il miglioramento delle relazioni con i paesi arabi e con il capitale internazionale, ed è stata fatta balenare la possibilità che i paesi arabi ricchi di petrolio offrirebbero ad Assad un pacchetto di aiuti del valore complessivo di venti miliardi di dollari, per facilitare il distacco di Assad da qualsiasi dipendenza economica lo leghi all'Iran.
Tutto questo fa capo all'altra dimensione degli avvenimenti siriani, che riguarda la posizione strategica della Siria come pilastro dell'arco che unisce il Libano del sud all'Iran. Questo ruolo rappresenta qualcosa che tutti coloro che negli USA ed in Europa si preoccupano in primo luogo della sicurezza di Israele hanno cercato di eliminare. Non è altrettanto chiaro, tuttavia, se Israele sia ansioso di vedere Assad rovesciato così come lo sono certe personalità della politica occidentale. I politici israeliani trattano il presidente con rispetto. E se Assad dovesse lasciare, nessuno ha idea di chi potrebbe succedergli in Siria.
Gli Stati Uniti, storicamente, hanno tentato di intromettersi negli affari siriani perfino da prima del colpo di stato della CIA e del MI6 attuato nel 1953 in Iran contro il primo ministro Mossadeq.
Tra il 1947 ed il 1949 personalità del governo statunitense sono intervenuti negli affari siriani. Il loro intento era quello di liberare il popolo siriano da una élite corrotta ed autocratica. Ne venne fuori un disastro che alla fine sfociò nella presa del potere da parte della famiglia Assad. Le potenze occidentali possono anche essersi dimenticate di come sono andate le cose, ma, come ha fatto recentemente notare un commentatore della BBC, i siriani ne hanno sicuramente conservato memoria.
Fin dai tempi dell'invasione dell'Iraq nel 2003, gli USA hanno obiettivamente minacciato il presidente siriano con ultimatum continui, di concerto con Parigi, affinché facesse la pace con Israele. Assad rispedì al mittente tutte le minacce del 2003, cosa che diede origine ad una catena di pressioni e di minacce nei suoi confronti, compreso il ricorso al Consiglio di Sicurezza dell'ONU, il tribunale speciale sulle vicende libanesi e l'azione militare israeliana volta a indebolire Hezbollah ed a mutare di segno l'equilibrio dei poteri in Libano a tutto detrimento di Assad. Gli USA hanno anche cominciato a finanziare i gruppi di opposizione siriani, almeno dal 2005 in poi; più recentemente hanno cominciato ad addestrare attivisti, anche siriani, sui sistemi per evitare l'arresto e sulle tecniche per comunicare in modo sicuro utilizando reti telefoniche abusive e software per internet. Queste tecniche, insieme all'addestramento di attivisti operato da organizzazioni non governative occidentali e da altre agenzie mediatiche, sono tornate utili anche all'insurrezione armata e militarizzata, almeno quanto lo sono state ai movimenti di protesta pacifici e filodemocratici.
Gli USA si sono adoperati anche per finanziare, direttamente o indirettamente, organizzazioni per i diritti umani che si sono rivelate molto attivi nel fornire agli attivisti che operano con i mass media casi non verificati di vittime della repressione e racconti di sedicenti testimoni oculari. Alcuni, come il Damascus Centre for Human Rights ammettono il loro accordo con lo US National Endowment for Democracy e con le altre organizzazioni da cui ricevono finanziamenti, per esempio il Democracy Council e l'International Republican Institute. La decisione del governo siriano di cacciare i giornalisti stranieri ha certamente contribuito a concedere alle fonti di informazioni controllate dagli attivisti all'estero carta bianca nell'imporre ai mass media la loro narrativa sugli avvenimenti siriani.
Il lato mancante del vaso di Pandora siriano, sul quale fino ad ora si è evitato di soffermarsi, è rappresentato dall'esercito siriano e dal suo comportamento nei confronti delle proteste. L'esercito, per la maggior parte addestrato allo stile russo, non ha esperienza di combattimento in contesti urbani complessi in cui dei contestatori autentici si trovino mescolati ad un piccolo numero di insorti armati che sanno come muoversi negli ambienti urbani, che hanno fatto esperienza di imboscate in Iraq e che abbiano l'intenzione di arrivare allo scontro con le forze di sicurezza.
L'esercito siriano non ha esperienza nel campo del contrasto alle insurrezioni; è cresciuto alla scuola del Patto di Varsavia, fatta di grandi manovre e di brigate dotate di armamento pesante, in cui la parola "moderazione" non rientrava a nessun titolo nel vocabolario. Carri armati e brigate corazzate non hanno alcuna utilità in operazioni che richiedano il controllo di una folla, soprattutto in aree ristrette e congestionate. Non sorprende che il movimento dei militari finisca per uccidere contestatori disarmati rimasti presi tra due fuochi, esasperando le tensioni con quanti chiedono sinceramente le riforme e lasciando attonito il pubblico.
La reputazione dell'esercito ha innanzitutto risentito delle critiche. Anche se le storie che riferiscono di diserzioni di massa possono essere ascritte in blocco alla disinformazione, ai gradi più bassi si è comunque verificata una certa erosione della tenuta dei reparti; col crescere delle vittime anche la fiducia dei cittadini nei confronti dei militari ha vacillato. Solo che questo vacillare è cessato con il drammatico scontro verificatosi alla metà di giugno attorno alla cittadina di Jisir Al Shagour, vicino al confine turco.
Così come il popolo libanese ha sostenuto l'esercito nazionale nello scontro di Naher Al Bared, allo stesso modo i siriani hanno sostenuto il loro esercito contro gli attacchi salafiti diretti dapprima contro la polizia e successivamente contro l'esercito e contro le istituzioni statali a Jisr. Man mano che i particolari degli scontri a Jisr Al Shagour venivano resi noti al pubblico, il risentimento nei confronti degli insorti non ha fatto che aumentare, probabilmente fino al punto di non ritorno. Le immagini che arrivavano da Jisr, così come altri filmati messi in circolazione in cui si vedevano appartenenti alle forze di sicurezza rimanere vittime di linciaggi e di aggressioni, hanno colpito molti siriani, che vi hanno visto la stessa orgia sanguinaria cui hanno assistito per l'impiccagione di Saddam Hussein.
E' possibile che i fatti di Jisr abbiano rappresentato un momento di svolta. La tenuta e la reputazione dell'esercito stanno crscendo, e la maggioranza del pubblico adesso considera le forze armate in una maniera che non era da dare per scontata prima che la Siria si trovasse a dover affrontare una minaccia tanto seria quanto scollegata da qualunque programma di riforme. Il sentire generale non pensa più in termini di attuazione immediata delle riforme.
L'opinione pubblica è polarizzata e carica di rancore nei confronti dei salafiti e dei loro alleati. Gli ambienti dell'opposizione laica e di sinistra stanno prndendo le distanze dalla violenza salafita: la contraddizione presente nelle divergenti aspirazioni degli "esuli" e dei salafiti, che li separa dal consenso della maggioranza del paese, adesso si manifesta con chiarezza. E costituisce in buona sostanza l'ultimo lato della paradossale "scatola" siriana.
In un clima simile l'introduzione plateale di una serie di riforme verrebbe interpretata dai sostenitori del presidente come un segnale di debolezza, se non di condiscendenza nei confronti di chi ha ucciso tanti poliziotti e tanti militari a Jisr. Non sorprende dunque che Assad si sia avvalso del discorso tenuto la scorsa settimana per parlare ai suoi sostenitori, sia per mettere in chiaro le difficoltà e le minacce che la Siria si trova ad affrontare, sia per stabilire le tappe di un percorso che conduca all'uscita da questa situazione pericolosa e verso riforme sostanziali.
In Occidente il discorso di Assad è stato ampiamente descritto come "deludente" o "non approfondito sui temi specifici", ma non è questo il problema. Se le cose non fossero arrivate a questo punto una serie di riforme radicali come quella invocata dal ministro degli esteri turco avrebbe potuto, ad un certo momento, avere un effetto shock tale da portare a profonde trasformazioni; è tuttavia dubbio che ormai questo possa succedere. Al contrario, ogni concessione strappata al governo da una violenza come quella vista a Jisr causerebbe con ogni probabilità l'ira dei sostenitori di Assad, ed altrettanto probabilmente non supererebbe il rifiuto categorico dell'opposizione militante, che cerca di esacerbare le tensioni al punto da far sì che l'Occidente si risolva a intervenire.
Il presidente Assad, precisando con attenzione alcuni passi avanti ed alcuni sviluppi da perseguire con determinazione, ha correttamente interpretato lo spirito della maggioranza dei siriani. A giudicare sarà il tempo, ma pare che Assad stia riuscendo ad emergere da una ingarbugliata serie di sfide in parallelo, direttegli contro sia da movimenti politici che da stati sovranim che riflette un ampio spettro di motivi di scontento, di interessi specifici e di motivazioni. Le radici di tutto questo sono lungi dal venir rimosse dalle questioni che riguardano le riforme legislative e politiche in Siria.
Se Assad considerasse l'insieme di tutto quanto sta contro di lui come il vero e proprio montare di un golpe morbido sarebbe difficile stupirsi. Può anche darsi che Assad si chieda fino a che punto il presidente Barack Obama sia al corrente di quanto sta succedendo in Siria. Sembra improbabile che le personalità statunitensi fossero del tutto all'oscuro della matrice di minacce che concorrono a minare la stabilità di Assad o ne ignorassero la natura. Se questo fosse davvero il caso, non sarebbe la prima volta che i siriani si trovano alle prese con un esempio di cattivo funzionamento tra "mano sinistra" e "mano destra" nello stile adottato da obama quanto a politica estera, con approcci di tipo contraddittorio portati simultaneamente avanti da personalità statunitensi differenti.
Se Assad riuscirà a venire a capo di tutte le sfide, come sembra probabile, il tono delle risposte fornite agli inviati arabi ed europei fa pensare che le riforme verranno davvero portate a termine, anche per proteggere l'etica resistenziale della Siria da minacce dello stesso genere che possano presentarsi in futuro.
Nel 2007, ha notato con ironia Assad in una considerazione aggiuntiva al suo discorso, non aveva avuto il tempo di portare a termine delle riforme degne di questo nome: "Noi non abbiamo neppure avuto il tempo di discutere alcunché che riguardasse, tra le altre cose, la legge sui partiti. Ad un certo punto bisognava tenere in considerazione innanzitutto l'economia, ma non avevamo tempo di farci un'idea precisa di quale fosse la situazione economica. Siamo stati coinvolti in una battaglia decisiva [sul fronte esterno], e dovevamo vincerla. Non è che ci fossero altre scelte...".
Adesso il fronte esterno decisivo è proprio quello delle riforme. Ma se lo scopo di tutto questo era quello di provocare un rovesciamento nell'equilibrio dei poteri in Medio Oriente, la cosa non ha funzionato. E' improbabile che Assad esca da questa storia più disponibile ad accettare le sfide dell'Occidente di quanto lo sia stato in passato.

Alastair Crooke è fondatore e direttore di Conflicts Forum, ed è stato consigliere dell'ex responsabile della politica estera della UE Xavier Solana tra il 1997 ed il 2003.

venerdì 26 agosto 2011

Alcune considerazioni sull'aggressione alla Libia


Mu'ammar Abū Minyar al-Qadhdhāfī fotografato nel settembre 2010.
Quello accanto è uno che farebbe il "Ministro degli Esteri"
per lo stato che occupa la penisola italiana.

Sull'aggressione "occidentale" alla Grande Jamahiria Araba di Libia Popolare e Socialista ci sarebbero molti commenti da fare, a partire dalla pulcinellesca azione dei mass media del mainstream alla obiettiva realpolitik dell'"occidentalismo" peninsulare, che non si è affatto peritato di abbandonare al suo destino il riverito alleato di ieri.
In questo non c'è niente da stupirsi: secondo il nostro punto di vista, tanto generoso quanto risaputo, lo stato che occupa la penisola italiana ricorda una volgare spaghetteria di provincia infarcita di cameriere in topless, in cui un "servizio d'ordine" fatto di maneschi buttafuori si impossessa di quando in quando di un commensale scelto a caso e gli spara allegramente in testa dopo averlo spinto in un angolo appartato.
Scrive il blogger Minimi Termini:
Non so come andrà a finire. Probabilmente la Libia andrà in mano a qualche fantoccio prezzolato che contribuirà a rifornire di petrolio chi di dovere, con un Paese evoluto e benestante ridotto a una buca di sabbia i cui abitanti cercheranno fortuna in Europa, lavorando in qualche catena di montaggio per 800 euro e una manciata di "negri di merda".
La nostra breve permanenza nella Grande Jamahiria Araba di Libia Popolare e Socialista data a cinque anni or sono, ed è documentata dalle immagini in link.
Sul fatto che il tenore di vita della popolazione fosse incommensurabilmente superiore a quello dei paesi confinanti non è nemmeno il caso di porre questioni. Di contro la nostra impressione è stata quella di un paese i cui negozietti traboccavano di merci importate e che l'economia dipendesse dagli idrocarburi in una misura che avrebbe preoccupato chiunque.
Il personale militare, pressoché onnipresente e vestito con M65 yankee nelle diverse varianti reperibili a tonnellate in ogni magazzino di surplus, schierava molti effettivi ultracinquantenni che avevano tutta l'aria di essere dediti ad esclusivi compiti di polizia e di controllo del territorio.
L'impressione era che la concordia con l'"Occidente", i trattati, le comparsate a Roma ed a Parigi, le strette di mano e la visibilità mediatica condiscendente già iniziata in quel periodo avessero trasformato le forze armate della Jamahiria in un corpo di polizia al soldo degli "occidentali" con l'esplicito incarico di svolgere il lavoro sporco del "controllo" dell'immigrazione.
A Mu'ammar Abū Minyar al-Qadhdhāfī mostrare condiscendenza nei confronti dell'"occidente" non ha alla fine portato alcunché di buono: il colpo di spugna sulle politiche fino ad allora seguite e l'annichilimento per rottamazione del potenziale militare non gli hanno evitato di finire vittima della stizza capricciosa di un presidente della Repubblica Francese che non era riuscito a piazzare come previsto quella partita di costosissimi e inutili supercaccia che avrebbe interrotto la lunga serie di gare d'appalto perse e forse evitato il tracollo alla Dassault.
E questo senza neppure sfiorare la questione del petrolio, sul conto del quale le intenzioni "occidentali" non potrebbero essere più chiare.
Quanto successo era abbastanza prevedibile. Per gli "occidentalisti" il concetto di politica non contempla alcun ruolo per la mediazione e la convivenza, e l'unico scopo dell'azione politica deve essere la distruzione dell'avversario. L'aspetto interessante, in questo, è dato senz'altro dalle modalità di azione della propaganda "occidentalista", che fedele alla natura menzognera ed empia dei suoi committenti attribuisce ai nemici designati caratteristiche ed intenzioni che sono, al contrario, interamente "occidentali".

giovedì 25 agosto 2011

Come va messo il burqa in moschea ad Istanbul?



Agosto. Di solito si tratta di un mese in cui gli argomenti scarseggiano. Eppure di argomenti da trattare ce ne sarebbero molti, dall'aggressione "occidentale" alla Grande Jamahiria Araba di Libia Popolare e Socialista alla "crisi" siriana con tutte le sue povere lesbiche conculcate ed oppresse.
Invece tocca raccontare di qualcuno, o più verosimilmente di qualcuna, che sta seriamente meditando di indossare il burqa per visitare la Sultanahmet Camii.
E che cercando qualche informazione su come fare per non incappare in brutte figure, è finita su queste pagine. Imbattendosi peraltro in un articolo in cui si trattano in modo infinitamente più gentile di quanto meriterebbero alcuni "occidentalisti" fiorentini di trascurabile calibro. L'articolo è accompagnato proprio da una foto degli interni della Sultanahmet pullulante di figure in burqa.
I commenti di ogni articolo qui pubblicato sono aperti: siano i nostri lettori a spiegare a costei come va messo il burqa in moschea ad Istanbul.

venerdì 19 agosto 2011

Casaggì Firenze: quando tuona di solito piove...


...La pioggia, si dice, è quella cosa che ha il brutto vizio di seguire ai tuoni. Così, quando qualcuno ha inviato un paio di proiettili ad un anziano combattente colpevole di considerare le menzogne "occidentaliste" per quello che esse sono, l'organizzazione "occidentalista" Casaggì Firenze ha istantaneamente smesso di starnazzare in merito a certe questioni ed ha optato per una discreta marcia indetro.
Fortunatamente il web ha una memoria piuttosto buona: la cosa rischia di diventare noiosa, ma Casaggì diffonde con tanto entusiasmo le proprie asserzioni che è un vero dispiacere privarsi dello spettacolino quotidiano dato gratuitamente da questi perfetti rappresentanti dell'epoca contemporanea. Per questo, ripetiamo ai nostri ben più che venticinque lettori che a nostro avviso i giovani "occidentalisti" fiorentini, in attesa che si liberi un posto in qualche mangiatoia amministrativa o parastatale, farebbero bene a limitare la sfera dei loro interessi a quanto di loro competenza, raffigurato dall'immagine qui sotto.



lunedì 15 agosto 2011

Casaggì Firenze e il superamento dei limiti


Per qualche misterioso motivo tutto loro gli "occidentalisti" dell'organizzazione fiorentina Casaggì -una compagine giovanile contigua al PDL- hanno fatto del "lancio del cuore oltre l'ostacolo", e per esteso del superamento di ogni limite inclusi quelli del buon gusto, della decenza e dell'opportunità, una sorta di dogma indiscutibile.
Questo risulta vero per i campi più svariati. La foto qui sopra, di fonte "occidentalista" attendibile, dovrebbe ritrarre i -pochi- simpatizzanti dell'organizzazione mentre avanzano in processione in un cimitero. L'immagine mostra la gioventù "occidentalista" mentre infrange vittoriosa ben quattro nuovi limiti.
Il primo è quello della decenza, superato con la difesa dell'indifendibile, accolto da una esecrazione tanto univesale quanto esplicitamente cercata. A ben vedere, si tratta della vittoria più facile.
Il secondo è quello della sana alimentazione, testimoniato dalla corpulenza della figura in bianco ritratta di spalle. Ecco dove conduce l'eccessiva familiarità coi maccheroni c'a' pummarola.
Il terzo è quello dell'estetica, indicato dalla compagine nel suo complesso ma più specificamente dalla assai discutibile estetica dei tatuaggi della non valchiria ritratta nella foto.
Il quarto è quello dell'autolesionismo, infranto pressoché ogni giorno pubblicando materiali di ogni sorta, senza curarsi del fatto che qualcuno possa restituirne all'utenza di internet un inquadramento lievemente diverso rispetto a quello in cui li si vorrebbe.

L'immagine qui sopra è stata ripresa in località Garganta del Diablo, nel parco nazionale delle Cataratas de Iguazu, nella Repubblica Argentina. Chi volesse superare di slancio il limite qui indicato si troverebbe alle prese con un salto di una trentina di metri almeno.
E con tanta di quell'acqua da riempire secchi di colla per attacchinaggio per un'intera era geologica.
La disumanità non è un tratto che ci contraddistingue. Noi non siamo apprendisti gazzettieri "occidentalisti" e speriamo vivamente che almeno limiti come questo siano tenuti da Casaggì nella debita considerazione.

venerdì 12 agosto 2011

mercoledì 10 agosto 2011

Amal Saad Ghorayeb - L’impegno iraniano per la causa palestinese: un esame delle motivazioni ideologiche, politiche e strategiche.




Le relazioni dell’Iran con i movimenti di resistenza in Palestina ed in Libano non possono essere viste nella stessa ottica con cui si osservano le relazioni iraniane con gli altri attori arabi, statali o non statali che siano. Questa distinzione è dovuta all’asse di resistenza che unisce la Repubblica Islamica dell’Iran a Hezbollah e ad Hamas, oltre che alla Siria; è dovuta anche e soprattutto alla centralità della causa palestinese, che sostiene questa alleanza strategica e determina i parametri della politica estera iraniana nel suo complesso.
Per raggiungere una più significativa comprensione dei rapporti che l’Iran ha con il mondo arabo, è interessante esaminare la natura e gli scopi del suo impegno nei confronti della causa palestinese usando le seguenti variabili causali: ideologia, sicurezza nazionale, interessi strategici e “sicurezza ontologica”, ovvero sicurezza della propria identità. A loro volta queste variabili sono condizionate da determinanti storiche, religiose, culturali e politiche, che hanno conferito un’aura sacrale alla repulsione della Repubblica Islamica per Israele ed alla causa palestinese, intese come costanti ideologiche e strategiche. Dal momento che la causa palestinese e, per estensione, l’ostilità nei confronti di Israele rappresentano l’essenza della stretta relazione che esiste tra la Repubblica Islamica e Hezbollah, che sarà discussa nell’ultima parte di questo scritto, le variabili su ricordate spiegano anche i forti legami che esistono tra l’Iran ed il movimento di resistenza libanese.


Le radici ideologiche dell’attenzione iraniana per la causa palestinese

Origini storiche

Recentemente, il presidente Mahmoud Ahmadinejad ha dipinto la causa palestinese come “la più importante del nostro tempo, e la più grande ingiustizia della storia”[1]; se ne deduce l’assoluta centralità. Questo modo di sentire era già stato fatto proprio in precedenza, nello stesso anno, dall’ayatollah Akbar Hashemi Rafsanjani -generalmente considerato un protettore, se non proprio l’ideatore, dell’opposizione riformista incarnata dal Movimento Verde- in un suo incontro con il leader della jihad islamica palestinese Ramadan Abdullah Mohammed Shallah, in cui la Palestina venne definita come “la principale preoccupazione dell’Iran”[2]. Ancora più significativo della più o meno sincera affermazione di Rafsanjani è il fatto che anche i cosiddetti pragmatisti e moderati come lui, in materia di politica estera sentono ancora la necessità di rendere omaggio alla Palestina e di evidenziare il fatto che essa ha un’importanza fondamentale nel discorso politico iraniano, nel solco della tradizione khomeinista. Nonostante esistano molte differenze politiche tra i due principali schieramenti, entrambi avanzano pretese sul Khatt al Imam, il sentiero dell’Imam Khomeini, e sui principi di politica estera che egli enucleò; il primo di essi è rappresentato dalla demonizzazione dello stato di Israele e da un pari rispetto portato verso la Palestina.
Almeno quindici anni prima dello scoppio della Rivoluzione Islamica, inaugurando la sua campagna rivoluzionaria nel pieno degli anni Sessanta, Khomeini aveva posto la questione palestinese al centro delle sue preoccupazioni. Prima, durante e dopo la rivoluzione la Guida Suprema, l’ayatollah Seyyed Ali Khamenei si è mosso sulle orme dell’Imam assegnando alla Palestina, in una sorta di leitmotiv della sua retorica, lo status indiscusso di problema più importante per tutto il mondo islamico[3], e facendo riferimento ad esso con maggior frequenza rispetto a qualsiasi altra questione nel corso di una storia di produzioni retoriche lunga oltre due decenni[4]. Dopo la guerra di Gaza nel gennaio 2009, la Guida Suprema fece cenno alla nazione palestinese come ad una che “merita veramente di essere indicata come quella che più rovesci ha sopportato nel corso della sua storia”[5]. L’attuale Guida Suprema dell’Iran utilizza inoltre la questione palestinese come metro per misurare l’impegno di qualcuno nei confronti della “libertà e dei diritti umani”: una cartina di tornasole per il presidente Obama e per il suo slogan che inneggia al “cambiamento”, che apparentemente non ha portato secondo Khamenei ai risultati sperati, dato che l’amministrazione americana continua a “mentire spudoratamente sulla questione palestinese ed anche su altre”[6].
L’istituzionalizzazione di queste posizioni su Israele e Palestina, intesi come pilastri della politica estera iraniana, può essere fatta risalire alla storia contemporanea dell’Iran, che è stata segnata dal retaggio della dominazione straniera rappresentata dagli Stati Uniti e da Israele, fermi sostenitori del tirannico regime dello shah Pahlavi. Decenni prima dello scoppio della rivoluzione, Khomeini ed altri ulema si erano opposti con determinazione alle strette relazioni che lo shah intratteneva con Israele. Tra le ragioni di questa opposizione c’era anche il modo in cui Pahlavi aveva trasformato l’economia iraniana facendola diventare un mercato per grandi quantità di beni importati da Israele, intanto che aumentavano le esportazioni di greggio verso Israele per soddisfarne le richieste[7]. Il dissenso venne spazzato via dal famoso apparato repressivo della Savak, che era stato fondato e sostenuto da CIA e Mossad, fino allo scoppio della rivoluzione[8], cosa che spinse Khomeini a chiedersi una volta se “lo Shah non fosse un israeliano”[9].
Accuse come questa, rivolte contro la dipendenza dello “shah traditore” dagli Stati Uniti e da Israele, finirono per costare l’arresto a Khomeini il 3 giugno 1963; a sua volta questo causò un’insurrezione popolare di protesta nota come “Movimento del 15 khordad” che culminò finalmente nella Rivoluzione Islamica dell’Iran quindici anni dopo.
Le radici della Rivoluzione Islamica vanno cercate in effetti nella reazione all’egemonia statunitense e all’infiltrazione di Israele nell’economia e nel sistema di sicurezza iraniano. La rivoluzione fu dunque al tempo stesso una rivolta contro la monarchia ed una guerra di liberazione contro l’imperialismo statunitense e contro la pesante intromissione israeliana; lo slogan che ne riassumeva gli obiettivi era “Indipendenza,libertà, Repubblica Islamica” (Esteqlāl, āzādī, jomhūrī-ye eslāmī).
Parallelamente all’esortazione di Khomeini a liberare l’Iran dall’imperialismo, avanzava la sua esortazione a liberare la Palestina dal regime sionista; entrambi erano riassunti dallo slogan “Oggi l’Iran, domani la Palestina”[10]. Per arrivare a questo, nell’ottobre 1968 Khomeini emise una fatwa religiosa in cui si stabiliva l’obbligo per i credenti a destinare una parte del khoms (la tassa destinata a fini religiosi) perché servisse ad aiutare i combattenti palestinesi. La fatwa era a suo modo priva di precedenti, dal momento che i beneficiari palestinesi del khoms appartenevano all’OLP, un’organizzazione laica e non sciita.
Una volta raggiunto il potere, uno dei primi atti del governo rivoluzionario fu la chiusura dell’ambasciata israeliana e la sua sostituzione con la prima ambasciata palestinese in tutto il Medio Oriente. Lo stesso anno, Khomeini dichiarò l’ultimo venerdì del mese di Ramadan “giornata di Al Quds”[11] (“giornata di Gerusalemme”) intendendo con questo fare atto di “solidarietà internazionale dei musulmani a sostegno dei legittimi diritti del popolo musulmano della Palestina”; la giornata era intesa anche come “giornata dei deboli e degli oppressi dall’arroganza delle potenze”[12]. Si propugnava il sostegno per la Palestina sia sul piano morale che su quello religioso, secondo la dicotomia utilizzata da Khomeini dei mustakbirim (oppressori) contro i mustad’afin (oppressi): “Noi stiamo sempre e comunque dalla parte degli oppressi. I palestinesi sono oppressi dagli israeliani, e dunque non ci schieriamo a loro fianco”[13].
Allo stesso modo, il concomitante rifiuto di riconoscere ad Israele il diritto ad esistere è anch’esso connotato da argomentazioni laiche e morali in merito al diritto dell’autodeterminazione nazionale. Lo stato ebraico viene considerato uno stato illegittimo, fondato a spese dei diritti di un altro popolo che sono stati usurpati. Di qui l’aggiunta frequente dell’epiteto usurpatore nel caso si nomini Israele. Al popolo palestinese andava dunque il pieno titolo, e perfino l’obbligo, di recuperare tutta la Palestina storica perché Khoeini non vedeva “alcuna differenza tra i territori del 1948 e quelli del 1967”, dal momento che “l’intera Palestina era diventata territorio di saccheggio”. In accordo con queste affermazioni Khomeini ed altri che hanno seguito il suo sentiero hanno respinto ogni forma di negoziazione per la pace con Israele, considerandole tutte illegali dal punto di vista religioso. “Avere rapporti con Israele o con i suoi agenti, politici o commerciali che siano, è proibito ed è contrario all’Islam”[14]. Ali Akbar Mohtashemi, un religioso riformista di primo piano (è stato anche un sostenitore del “movimento verde”) ha dato eco a questa proibizione di tipo religioso quando ha affermato che “prendere parte alla conferenza [di pace] di Annapolis è illegale dal punto di vista religioso”[15].
Il fatto che si sia espresso in questi termini significa che la questione palestinese per Khomeini non era semplicemente una questione nazionale dalla portata che si limitava al popolo palestinese, ma una questione che riguardava tutti i musulmani, in quanto Gerusalemme era stata la loro “prima qibla” e dunque “apparteneva a loro”[16]. Da questo derivava il fatto che ogni musulmano aveva l’obbligo religioso e morale di “armarsi contro Israele”[17] e di liberare Gerusalemme. Nella sua condizione di corpo alieno “impiantato nel cuore del mondo islamico” dagli “oppressori” rappresentati dalle superpotenze[18], Israele costituiva una minaccia all’esistenza non soltanto di Gerusalemme e della Palestina, ma di tutto il mondo arabo ed islamico. Questo “cancro”, questa “ghiandola infetta” o, a volte, questo “virus”, secondo gli sprezzanti epiteti di Khomeini, era un nemico “delle stesse basi dell’Islam” e “dell’umanità”. Sul piano morale e su quello religioso veniva quindi fatto bersaglio di anatemi: “il nucleo centrale del male”, il “fòmite della corruzione”. Queste demonizzazioni ancora risuonano nella comunicazione politica iraniana, assieme a riferimenti che definiscono Israele, in termini religiosi “piccolo Satana”, “bandiera di Satana” e “incarnazione di Satana”.

La distruzione del regime sionista e la liberazione della Palestina

Data la propensione ad anatemizzare Israele e la centralità della liberazione di Gerusalemme nella politica dottrina dell’Iran, come logica precondizione del raggiungimento dei suoi obiettivi la distruzione di Israele come stato sovrano è il principale assunto dell’atteggiamento della Repubblica Islamica nei confronti di esso. Negli ultimi anni questo concetto ha attirato molta attenzione da parte dei mass media e del mondo politico, grazie all’estremamente controverso recupero dello slogan compiuto da Ahmadinejad. La reazione furibonda a livello internazionale che seguì al suo famigerato discorso dell’ottobre 2005, tenuto nel contesto di una conferenza intitolata “un mondo senza sionismo” e nel corso del quale Ahmadinejad avrebbe auspicato che Israele venisse “spazzato via dalla carta geografica” accese anche una sorta di controversia semantica sulla frase qui riportata[19]. Ad un esame più accurato, è chiaro che non è il popolo ebraico che la Repubblica Islamica aspira a sradicare, quanto il regime sionista che lo governa. Se contestualizzato, il discorso di Ahmadinejad rivela che la sua era un’esortazione a sradicare “il regime sionista che occupa Gerusalemme” posta in relazione al fatto che altri regimi apparentemente invincibile hanno finito per crollare, come quello dello Shah, quello di Saddam Hussein o la stesa Unione Sovietica. Il discorso si limitava a predire il fatto che il regime d’Israele sarebbe andato incontro allo stesso destino. Per questo personalità iraniane come il ministro degli esteri Mottaki e il consulente di Khamenei per gli affari politici e di sicurezza Ruhullah Husseinian hanno sottolineato entrambe che il Presidente stava invocando un regime change in Israele piuttosto che il genocidio dei suoi abitanti ebrei. Ahmadinejad lo ha esplicitamente ammesso nel giugno 2007, quando chiese “Perché agli Stati Uniti è permesso invocare un cambiamento del regime in Iran, mentre ai nostri leader è proibito invocare la fine del regime sionista”[20]?
Forse la più elaborata e lucida delucidazione ufficiale sulle intenzioni iraniane nel confronto con Israele si trova in un discorso che Khamenei pronunciò nel novembre 2005, presentando l’argomentazione che segue. “Abbiamo un logico e fondato interesse alla questione palestinese. Vari decenni fa lo statista egiziano Gamal Abdel Nasser… affermò nei suoi slogan che gli egiziani avrebbero ricacciato in mare gli usurpatori ebrei della Palestina. Alcuni anni dopo Saddam Hussein… disse che avrebbe messo a ferro e fuoco mezza Palestina. Ma noi non approviamo nessuna delle due cose. Noi crediamo, secondo i nostri principi islamici, che né ricacciare gli ebrei in mare né mettere la Palestina a ferro e fuoco siano cose logiche o ragionevoli”[21].
La proposta alternativa di Khamenei, sostenuta da altre personalità iraniane Ahmadinejad compreso, era quella di sradicare il regime sionista con i mezzi della diplomazia: la sua abrogazione tramite referendum. L’idea di Khamenei era di tenere un referendum “tra tutti i nativi palestinesi, musulmani, ebrei e cristiani” per decidere che tipo di governo volessero[22]. L’uso del vocabolo nativi rende chiaro che gli ebrei israeliani rimarrebbero fuori dal conto, cosa che si deduce anche dalla proposta dello stesso Khamenei secondo cui il governo “avrebbe deciso in merito al destino di coloro che sono immigrati in Palestina da altre parti del mondo”[23]. Siccome le parti coinvolte in questo contratto sociale sarebbero state quella degli abitanti originali della Palestina storica e quelli della diaspora palestinese, l’Iran avrebbe considerato “accettabile” qualunque governo essi avrebbero deciso, che fosse “un governo musulmano, cristiano, ebraico o di coalizione”[24].
In caso di fallimento di questa “soluzione”, resistere ad Israele era l’unico altro accettabile mezzo tramite il quale i palestinesi potevano riavere la loro terra e ripristinare la Palestina storica. Dal momento che era per lo meno improbabile che Israele accettasse il referendum proposto da Khamenei, la resistenza armata diventava l’unica alternativa praticabile per la tutela dei diritti dei palestinesi. Come dichiarato da Ahmadinejad, “non c’è dubbio che la nuova ondata in Palestina spazzerà presto via questa disgraziata macchia dalla faccia del mondo islamico”[25].
Dal punto di vista iraniano, l’obbligo di liberare la Palestina tocca in primo luogo ai gruppi della resistenza palestinese. Mancando una campagna concertata per la liberazione di Gerusalemme da parte degli arabi, la strategia iraniana per contrastare il regime sionista resta limitata alla fornitura di sostegno politico, finanziario ed economico agli alleati in Palestina oltre che a Hezbollah.

L’Iran e la guerra a Gaza

Alcune voci nel mondo arabo e non solo hanno criticato l’Iran per non essere riuscito a tradurre la propria retorica sulla Palestina in azioni concrete nel corso dell’invasione di Gaza da parte di Israele nel 2009; simili accuse non considerano l’asprezza dei toni con cui l’Iran si è rivolto ai governi arabi sia durante che dopo il conflitto. Tehran ha minato quelle relazioni così faticosamente ristabilite con i governi arabi tornando ad una retorica incendiaria che ricorda quella degli ultimi anni Ottanta, quando l’Iran stava “esportando la rivoluzione” nei paesi arabi vicini. L’Iran ha danneggiato in questo modo un paio di decenni di riavvicinamenti diplomatici iniziati dall’ex presidente Rafsanjani e continuati dal presidente Ahmadinejad, il cui coinvolgimento nel mondo arabo aveva lo scopo di contrastae la campagna intrapresa dall’amministrazione Bush, volta a spronare contro l’Iran gli alleati arabi “moderati” e a soffiare sul fuoco delle tensioni tra sunniti e sciiti. Le barricate verbali e scritte erette dalla leadership iraniana contro i governi arabi va considerata in questa ottica.
Ad ogni modo, considerato lo sfacciato sostegno fornito da governi arabi, in particolare da quello egiziano, all’avventura bellica israeliana a Gaza, per non parlare del fatto che il regime di Mubarak era al corrente dell’invasione prima che essa si verificasse, che adesso è ufficialmente confermato dai documenti forniti da Wikileaks[26], il concetto che il pubblico ha della posizione degli arabi è passato da quello di “complicità” e di sotterranea “collaborazione” con Israele dei tempi della guerra nel luglio 2006 a quello di “cooperazione” e “partenariato” con lo stato sionista nel contesto della sua guerra contro Gaza. A fronte di un tradimento flagrante come questo, l’Iran non poteva più attenersi ad una politica di basso profilo a petto dei suoi interlocutori arabi. Bollandoli come “arabi traditori”[27], Khamenei deplorò il “silenzio assenso”[28] degli stati arabi moderati, mentre Ahmadinejad attribuiva loro con cinismo “sorrisi di soddisfazione”[29] a fronte del “genocidio senza precedenti”, affermando che “essi stavano con il nemico, condividendone tutti gli obiettivi”[30].
Con una mossa priva di precedenti dall’inizio dei suoi disaccordi con il mondo arabo, l’Iran ha indicato nell’Egitto un bersaglio non soltanto a causa delle sue responsabilità nell’assedio di Gaza, ma anche a causa del suo “pubblico sostegno” ad Israele così come lo ha descritto il giornale israeliano Haaretz[31]. Allontanandosi con decisione dall’abituale modo diplomatico che usa per esprimersi, l’ex ministro degli esteri iraniano Manouchehr Mottaki ha denunciato i “traditori della causa palestinese, che pochi giorni prima dell’attacco hanno riferito ai palestinesi che la situazione era tranquilla”[32] in un poco velato riferimento al regime di Mubarak, ed il falso senso di sicurezza che questo aveva infuso tra le file di Hamas prima dell’attacco israeliano. Anche se incolpabile con meno evidenza rispetto al governo egiziano, neppure la monarchia saudita sfugge all’esecrazione iraniana, come si evince dalla lettera scritta da Ahmadinejad al re saudita Abdallah bin Abdul Aziz in cui si faceva pressione perché “rompesse il suo silenzio” sul “massacro che stava avendo luogo a Gaza, e prendesse una posizione chiara sull’assassinio dei suoi figli, che sono cari all’intera comunità dei credenti”[33].
Nell’elargire reprimende ai governi arabi per il loro tradimento della causa palestinese e facendo assumere gli stessi toni alle sue relazioni con essi, la Repubblica Islamica dell’Iran è andata rafforzando il proprio ruolo di difensore dei diritti dei palestinesi, assumendo parimenti quello di “paese più attivo nel sostegno al terrorismo” secondo la lista dei “paesi che sostengono il terrorismo”[34] redatta dal Dipartimento di Stato americano, della quale l’Iran fa parte dal 1984. Come rivelato dai Country Reports on Terrorism del 2009 curati dal Dipartimento di Stato, “L’Iran è rimasto il principale sostenitore dei gruppi che si oppongono in modo implacabile al processo di pace in Medio Oriente”, ovverosia Hamas, altri gruppi palestinesi e Hezbollah, ai quali l’Iran ha continuato a fornire “sostegno logistico, finanziario e materiale”[35]. Considerato nel contesto storico delle attività sovversive statunitensi in Iran, recentemente portate all’evidenza dai disordini seguiti alle elezioni del 2009 istigate in gran parte da una trama israeliano-statunitense, gli stretti legami della Repubblica Islamica con i movimenti di resistenza e con le organizzazione che respingono il cosiddetto “processo di pace” la rendono vulnerabile alle macchinazioni di Washington e di Tel Aviv[36]. La proposta di un “grande patto” avanzata da due esponenti degli ambienti liberali di Washington, Flynt Leveret e Hillary Mann Leverett, costituisce un’ulteriore dimostrazione del fatto che il sostegno alla causa palestinese minaccia la sicurezza nazionale dell’Iran. Come evidenziato dagli autori di questa proposta, Tehran accetterebbe di abbandonare il proprio impegno a favore dei palestinesi ed il suo sostegno per i movimenti di resistenza in Palestina, oltre che quello per Hezbollah, e che farebbe anche ulteriori concessioni se gli Stati Uniti interrompessero i loro tentativi di provocare un regime change[37].

La sicurezza nazionale e gli interessi strategici come fattori determinanti del sostegno iraniano alla Palestina

L’impegno iraniano per la causa palestinese non costituisce solo una minaccia per la sua stabilità politica, ma compromette anche i suoi interessi strategici. Nonostante l’ossessione statunitense per il programma nucleare iraniano e l’inefficace tentativo di mettervi un freno tramite l’imposizione di sanzioni, è più che probabile che Washington chiuderebbe un occhio sul programma iraniano per gli armamenti nucleari, o addirittura contribuirebbe ad esso come ha fatto con i suoi alleati (Germania, Belgio, Canada, Grecia, Italia, Olanda e Turchia) nel contesto della politica di condivisione delle armi nucleari all’interno della NATO, se Tehran cessasse di sostenere i movimenti di resistenza in Palestina e in Libano. Questa inferenza è legittimata dalla continua associazione che l’amministrazione Bush ha fatto tra il presunto piano iraniano per la realizzazione di armi di distruzione di massa e l’alleanza dell’Iran con “gruppi terroristi”. Nello stesso ordine di idee l’allora consigliere per la sicurezza nazionale Condoleeza Rice, che affermò: “Il sostegno diretto che l’Iran fornisce al terrorismo regionale e planetario, nonché i suoi aggressivi sforzi di sviluppare armamenti di distruzione di massa smentiscono ogni buona intenzione che l’Iran ha mostrato nei giorni successivi al peggior attacco terroristico della storia”[38]. Il problema fondamentale di Washington, dunque, non è l’asserito intento dell’Iran di sviluppare delle armi nucleari, quanto il fatto che a svilupparle sia uno stato alleato della resistenza palestinese.
Nonostante il coinvolgimento iraniano nella causa della liberazione della Palestina storica lo esponga nel medio termine a minacce alla sua sicurezza provenienti dall’esterno (così come ad intromissioni estere che fomentano i rischi contro la sicurezza interna), e danneggi nel breve termine alcuni dei suoi interessi strategici, il rispetto dei principi ideologici della Repubblica Islamica ha permesso all’Iran di conseguire nel lungo termine ottimi risultati in entrambi i campi. In primo luogo, la lunga storia di intromissioni israeliane negli affari interni del paese, che risale all’epoca precedente la Rivoluzione Iraniana, lascia figurare Israele come una minaccia permanente per l’indipendenza dell’Iran e, per esteso, anche per la sua stabilità politica.
Una conferma di questa conclusione è data dall’asserzione di Mohtashemi secondo cui la liberazione della Palestina è necessaria per la salvaguardia del sistema politico iraniano: “Ovviamente se la nazione palestinese tornasse in possesso dei propri legittimi diritti, anche la minacce contro la Repubblica Islamica dell’Iran, che provengono dall’estero, risulterebbero sensibilmente ridotte”[39]. Ahmad Khatami, che appartiene al Consiglio degli Esperti che affianca l’opera della Guida Suprema, gli fa eco; nel pieno dell’aggressione israeliana al Libano del 2006 Khatami affermò: “Oggi difendiamo Hezbollah. Hezbollah, infatti, sta difendendo la nostra stessa sicurezza”[40]. La stessa cosa traspare dalla dichiarazione di Velatati secondo cui “Israele non sarà in grado di avere campo libero nella regione fino a quando lo Hezbollah libanese continuerà ad esistere”[41].
In secondo luogo, un do ut des con gli americani a proposito della Palestina non è considerato dagli iraniani come qualcosa che possa garantire la salvaguardia della sicurezza nazionale contro le sollevazioni interne, o che possa garantire loro di poter raggiungere senza ostacoli i propri obiettivi strategici. I principi ideologici della sovranità, dell’indipendenza, dell’autosufficienza e della dignità non sono dei valori astratti ma delle necessità strategiche che risultano dall’esperienza storica iraniana in materia di dominazione straniera. La caduta del regime dello Shah, che era sostenuto da Israele e dagli Stati Uniti, ha insegnato agli iraniani che le politiche di dipendenza messe in pratica dall’Iran prerivoluzionario erano il mezzo più sicuro per rimanere deboli dal punto di vista strategico e per arrivare al collasso del paese. Una percepita perdita di dignità nazionale e di sovranità metterebbe oggi in questione la credibilità rivoluzionaria ed islamica del sistema e la sua capacità di tutelare gli interessi nazionali, portando quindi ad una destabilizzazione.
Questo ragionamento logico viene formulato da Mottaki, in un appello rivolto ai paesi arabi e musulmani affinché sostengano la causa palestinese intesa come mezzo utile per la loro stessa sicurezza nazionale: “adoperarsi per la Palestina non è una spesa, ma un investimento per la sicurezza dei nostri paesi”[42]. Durante la guerra a Gaza, Khamenei condensò la sua opinione sul come un più approfondito impegno per la causa palestinese potrebbe rafforzare la sicurezza nazionale dei paesi arabi in un silenzio mònito rivolto ai governi che non avevano sostenuto la resistenza palestinese, che sarebbero finiti pur senza volerlo a soffrire di una destabilizzazione provocata dal dissenso interno[43], dal momento che “le loro popolazioni si sono ‘risvegliate’ e pretendono adesso più sostegno per la Palestina”[44].
In considerazione di questi avvertimenti, l’Iran ritiene la prospettiva di un “Grande Patto” sulla Palestina come foriera di un destino simile a quello condiviso dagli alleati arabi degli Stati Uniti, che ben difficilmente possono rappresentare una storia di successo per quanto riguarda il campo dell’emulazione della Repubblica Islamica. Secondo Tehran gli Stati Uniti utilizzano l’assistenza militare e politica che offrono a questi governi come uno strumento per ottenere concessioni politiche che legano mani e piedi quei paesi agli USA. Inoltre, il fatto di aver tradito la Palestina e quello di dipendere dagli Stati Uniti per la stabilità del loro fronte interno fanno sì che in Iran si considerino gli stati arabi come paesi che hanno perso la loro sovranità nazionale, la loro indipendenza ed il peso politico che avevano nella regione, per non parlare della loro legittimità popolare.
Da questo punto di vista il sostegno alla causa palestinese si è rivelato fino ad oggi un vantaggio strategico per l’Iran, consentendogli di esportare la propria cultura politica basata sulla liberazione della regione dalle influenze straniere; questo, a sua volta, ha contribuito a rafforzare l’Iran come potenza regionale. Il Presidente della Majilis spiega in modo stringato che “L’Iran è potente nella regione, e gode di una vasta popolarità, perché difende l’indipendenza dei vari paesi e si oppone al predominio statunitense”[45]. Viene citata anche un’affermazione del comandante in capo delle forze armate, Seyyed Hassan Firuzabadi secondo la quale sostenere i palestinesi è nell’interesse strategico e nell’interesse nazionale iraniano, come modo per assicurare al regime un più forte sostegno in tutto il mondo musulmano e per garantire all’Iran un ruolo eminente negli affari regionali[46].
In Iran si è convinti che conservando la propria indipendenza rispetto all’Occidente il paese rimarrà poco ricattabile in qualunque campo, cosa che invece colpisce gli alleati degli Stati Uniti nella regione. Alla luce della loro dipendenza da Washington, i politici arabi moderati sono stati costretti ad abbandonare la causa palestinese, indebolendo così la legittimità popolare verso i loro sistemi politici, in cambio della sicurezza del loro governo che va intesa come contrapposta alla sicurezza nazionale e che in ultima analisi deve la sua stessa sopravvivenza alle misure repressive messe in atto apposta per garantirla.
La Repubblica Islamica dell’Iran considera quindi la sua politica estera come un paradigma di quella che i governi arabi dovrebbero seguire. In contrasto con la logica del realismo adottata dagli emuli dell’ex presidente egiziano Hosni Mubarak, secondo cui la resistenza non aveva retto ad una prova del nove fatta coi parametri di costo e beneficio[47], l’Iran intende dimostrare che ideologia ed interesse nazionale non sono cose che si escludono a vicenda, se il perseguimento di una non va a detrimento dell’altra. Nella formulazione epistemologica della Repubblica Islamica, principi e valori politici possono essere riconciliati con gli interessi strategici e possono anche rafforzarsi a vicenda. In base alla stessa considerazione la coerenza dell’identità politica della Repubblica Islamica può coincidere con la sua sicurezza nazionale ed esserne al tempo stesso un elemento costituente.

La sicurezza ontologica

Questa è la ragione per cui la Repubblica Islamica rifiuterà con ogni probabilità non soltanto i contenuti, ma la logica stessa che sta alla base del “Grande Patto” proposto da Leverett, nel caso la proposta venisse fatta propria in via ufficiale dall’amministrazione Obama. La raccomandazione fatta da Leverett ai responsabili della politica statunitense, che dovrebbero mostrare chiaramente che il loro intendimento non è quello di “cercare di cambiare la natura del regime iraniano, ma di cambiare invece le politiche che Washington considera fonte di problemi” si contraddice da sola, ed appare riduttiva perché ignora il fatto che la vera natura del sistema politico iraniano non si basa soltanto sulla teologia islamica sciita e sulla sua liturgia, ma è formata nella sua essenza dalle sue linee politiche, soprattutto da quelle considerate sgradite negli Stati Uniti. Di fatto le politiche che Washington vorrebbe cambiare comprendono una parte essenziale dell’autopercezione dell’Iran in quanto stato islamico. La proposta di Leverett identifica, erroneamente, le politiche di sicurezza nazionale iraniane con la sicurezza fisica del sistema intesa come una sua mera sopravvivenza in quanto entità istituzionale, e non con la sicurezza identitaria del regime, con il fatto che esso rappresenta un “agente di tipo del tutto peculiare”[48], con la sua “sicurezza ontologica”[49]. Pretendendo un cambiamento di rotta da parte dell’Iran ma assicurando al tempo stesso la volontà di mantenerne inalterata la forma islamica del governo, Washington minaccia la sicurezza ontologica dell’Iran di rappresentare un tipo sui generis di agente politico islamico.
La Repubblica Islamica deriva la propria identità politica e religiosa dell’interpretazione dell’Islam fornita da Khomeini, che concepisce l’Islam come “la religione di individui dediti alla militanza, che intendono impegnarsi per la verità e la giustizia. L’Islam è la religione di coloro che desiderano la libertà e l’indipendenza. L’Islam è la scuola di coloro che lottano contro l’imperialismo”[50]. La concezione dell’Imam si erge in assoluta contraddizione con la “versione difettosa” ed apolitica promossa dai “servi dell’imperialismo”, che priva l’Islam del suo intrinseco potenziale “rivoluzionario” riducendolo ad una religione dotata di “qualche principio etico” e “priva di alcunché da dire sulla vita umana in generale e su come dovrebbe essere ordinata la società”[51], togliendo così ai suoi aderenti la possibilità di raggiungere “la libertà”[52].
Dal momento che il cambiamento di rotta che gli USA vogliono implicherebbe l’abbandono da parte dell’Iran della lotta contro l’imperialismo e l’ingiustizia, andrebbe contro la sua indipendenza e la sua libertà come stato ed implicherebbe la fine del sostegno a movimenti di resistenza che difendono i diritti degli oppressi, un’adesione autentica alle richieste poste provocherebbe la concreta trasformazione della natura del sistema politico, che da autenticamente islamico secondo i criteri di Khomeini assumerebbe le vesti di un Islam zoppicante e dunque distorto. L’essenza del sistema politico e le politiche da esso seguite sono più sinonimi che categorie mutualmente escludentesi: ogni cambiamento nei fondamenti della politica estera iraniana renderebbe “non islamico” il sistema politico. Cosa più importante, ogni mutamento fondamentale negli obiettivi della politica estera dell’Iran, in mancanza di un corrispondente cambiamento nelle politiche mediorientali degli Stati Uniti, significherebbe essenzialmente che lo stato iraniano ha stravolto i propri principi fondanti, minato la propria identità e di conseguenza se stesso. Se l’Iran diventasse uno degli alleati moderati dell’America nella regione, la Rivoluzione Islamica perderebbe ogni significato e la Repubblica Islamica verrebbe meno alle ragioni della sua stessa esistenza, ritornando all’identità prerivoluzionaria che le era propria ai tempi dello Shah.
Dal momento che agiscono sul piano sociale, gli stati sovrani sono minacciati dalla prospettiva della “insicurezza” quando il loro comportamento si scontra con le aspettative associate alla definizione che di se stessi forniscono come peculiare tipo di attore[53]. Queste aspettative derivano da routine consolidate e dai ruoli interpretati contro gli altri partecipanti all’agone internazionale, tramite i quali “gli attori giungono a sapere chi sono ed in che modo possono comportarsi”[54]. Gli stati adottano in modo più o meno stabile i comportamenti tipici del loro ruolo nel determinare le identità, che a loro volta conformano le preferenze e gli interessi degli attori, permettendo agli attori stessi di mettere in pratica la loro preziosa consapevolezza nell’agire per “compiere delle scelte”[55]. Nonostante molte delle politiche seguite dagli stati conducano a risultati che minacciano la loro sicurezza sul piano fisico, la questione ha un’importanza secondaria rispetto alla stabilità percepita dell’identità che essi si sono costruiti, e della corrispondente consapevolezza nell’agire. Uno stato sovrano può così adottare in modo abituale pattern comportamentali conflittuali e pericolosi al pari di altri più sicuri. Allo stesso modo la sicurezza ontologica è “perfettamente compatibile con l’insicurezza sul piano meramente fisico”[56], come indicano la politica estera dell’Iran e le istanze cui esso resta fedele.
La rivoluzione fu in parte guidata dalla lotta per la libertà e l’indipendenza nazionale; la stessa esistenza della Repubblica Islamica sorse dunque in qualche misura per reazione, e la sua identità fu connotata in senso difensivo. L’Iran divenne uno stato preoccupato di proteggere la sua indipendenza e la sua dignità, fondate su basi del tutto nuove. Il timore di una dominazione straniera era così radicato nella cultura politica che furono messe a punto delle salvaguardie costituzionali per proteggere il paese dal controllo straniero e per proteggere il discorso meta politico della sua indipendenza, o della sua iperindipendenza, come la definisce un certo studioso[57]. Nell’articolo 152 della costituzione si legge: “La politica estera dell’Iran si basa sul rifiuto di ogni forma di dominazione, sia che si tratti di esercitarla sia che si tratti di subirla, sulla salvaguardia dell’indipendenza del paese… sulla difesa dei diritti di tutti i musulmani, e sul non allineamento rispetto alle superpotenze egemoniche”.
La Repubblica Islamica ha anche istituzionalizzato ed integrato nella costituzione la propria narrativa di giustizia e di resistenza, sottolineando in mezzo agli altri obiettivi la propria “fraterna dedizione nei confronti di tutti i musulmani ed il proprio espresso sostegno agli oppressi di tutto il mondo”. La “lotta contro l’oppressione”, come tema ricorrente sia sul piano costituzionale che nella retorica politica, ha un ruolo centrale sia nella costituzione che nella definizione di sé della Repubblica Islamica dell’Iran; lo stesso ruolo centrale che i principi di libertà hanno nelle costituzioni democratiche occidentali[58]. Il più vicino alleato della Repubblica Islamica, il leader di Hezbollah Seyyed Hassan Nasrallah spiega: “L’Iran non lascerà mai soli i popoli di questa regione e neppure i movimenti di resistenza. Per l’Iran e per la sua Guida Suprema, per i leader politici e per il popolo stesso la causa del popolo palestinese è nelle preghiere, nei digiuni, nella devozione notturna. Rimarrà un loro principio fino al Giorno del Giudizio”[59]. Fino a quando il tema della resistenza verrà riconosciuto da amici e nemici dell’Iran come una caratteristica fondante della sua politica estera, e come una sorta di “imperativo comportamentale”[60], il concetto di resistenza non farà che entrare sempre più profondamente a far parte dell’identità politica della Repubblica Islamica. La relazione che esiste tra aspettative altrui e propria identità può essere spiegata con la teoria dei ruoli, che afferma che ogni identità è legata ai ruoli che un attore impersona e alla conseguente “comprensione condivisa di quanto ci si attende” dall’attore stesso[61]. Ciascun attore quindi interiorizza sia il ruolo sia le aspettative in materia di comportamenti che sono associate ad esso, che portano così alla formazione di una identità specifica[62].
Per tutte queste ragioni è altamente improbabile che la Repubblica Islamica sigli un Grande Patto con Washington: così facendo perderebbe la propria identità di paese indipendente, cercatore di giustizia e dedito alla resistenza, e questa identità è molto più necessaria alla sopravvivenza della Repubblica Islamica di quanto lo sia la sua sicurezza come entità organizzativa. La sicurezza come entità ideologica rappresenta una priorità strategica per un attore ideologico come l’Iran, dal momento che non può affrontare un cambiamento della propria identità; anche se rimanesse intatta dal punto di vista organizzativo, uno stravolgimento identitario metterebbe la parola fine all’esperienza della Repubblica Islamica dell’Iran, che diventerebbe in tal caso qualcosa di completamente diverso.

L’impegno iraniano per la causa palestinese alla base della sua alleanza con Hezbollah

L’impegno ideologico e strategico di Hezbollah verso la Palestina

Oltre all’esaminare la cause ideologiche, politiche e strategiche alla base dell’impegno iraniano per la causa palestinese, uno studio che mostri in che modo questo impegno rappresenti anche la base delle relazioni tra Iran e Hezbollah, che dell’Iran è il più vicino alleato, è utile per mettere in migliore evidenza la natura esatta della dedizione di Tehran alla Palestina ed i suoi scopi.
La relazione organica che esiste tra i due attori si basa sulle radici storiche e culturali di ciascuno, su una ideologia religiosa e politica condivisa e sulle prospettive strategiche, centrate su una lotta per l’esistenza che ha il suo nemico in Israele e che come tale definisce l’identità politica sia di Hezbollah che della Repubblica Islamica. Hezbollah non soltanto condivide la demonizzazione di Israele e la conseguente santificazione della causa palestinese operata dall’Iran, ma deve la sua stessa ragione di esistere alla lotta contro Israele, che come tale è alla base della sua identità politica. Facendo propria l’esortazione che Khomeini rivolgeva ad ogni musulmano di “armarsi contro Israele” Hezbollah crede anche di avere “il dovere religioso” (“al wajib al shari’i”) di resistere ad Israele, e l’obbligo di fornire assistenza militare ai palestinesi[63]. In questo modo, al di là ed al di sopra della lotta contro Israele in Libano, questo movimento di resistenza colloca la liberazione della Palestina dall’occupazione israeliana, che viene considerata un obbligo; in questo modo Hezbollah fa proprio dal punto di vista ideologico l’impegno di aiutare i palestinesi a raggiungere l’obiettivo dell’indipendenza nazionale.
La dedizione alla causa palestinese e l’ostilità verso Israele servono a consolidare i legami tra Iran e Hezbollah: ognuna delle due parti loda l’altra per il sostegno ai palestinesi e per l’impegno profuso nel tenere testa ad Israele. Hezbollah considera l’Iran come l’avanguardia della resistenza in tutta la regione, “l’unica voce che si leva contro il progetto sionista”, come affermato da Nasrallah[64]. “L’Iran fa vedere chiaramente che è orgoglioso di sostenere senza condizioni la resistenza in Libano e in Palestina, laddove a tutti gli altri si fa chiaramente intendere che è bene non farlo”[65].
Per quanto riguarda la Repubblica Islamica, la resistenza che Hezbollah impone ad Israele la obbliga a fornire sostegno al movimento, come espresso dalla rassicurazione di Khomeini secondo la quale “il popolo iraniano non vi abbandonerà”[66]. Al di là della perseveranza con cui resiste ad Israele, Hezbollah viene esaltato anche per l’effetto che le sue iniziative hanno sui palestinesi. In un caso del genere, Khamenei ha attribuito il manifestarsi dell’Intifada di Al Aqsa nel settembre del 2000, quattro mesi dopo l’ignominioso ed unilaterale ritiro di Israele dal Libano del sud, al successo militare che Hezbollah aveva conseguito cacciando lo stato ebraico dal Libano meridionale[67]. Nel 2009, dopo la guerra di Gaza, Khamenei ha dichiarato: “Il Libano è diventato il cuore del Medio Oriente di oggi: la vittoria degli abitanti di Gaza nella guerra che è durata ventidue giorni è stata il frutto della vittoria che ha arriso alla resistenza islamica nella guerra libanese dei trentatrè giorni”[68].
Hezbollah non cerca di accampare crediti lanciando un’intifada palestinese o contribuendo all’attività militare di Hamas, ma ne acquisisce perché i destini dei due movimenti di resistenza in Libano ed in Palestina sono strettamente intrecciati l’uno all’altro. Come affermato da Nassrallah nel 2008, “[La resistenza] costituisce un progetto, ed il movimento di resistenza, proprio in quanto movimento, ha uno sviluppo, un destino ed un obiettivo che sono unici anche se all’interno del movimento esistono diversi partiti, diverse fazioni, diverse credenze, diverse sette e diverse linee di pensiero intellettuale e politico… I movimenti di resistenza nella zona, specialmente in Libano e in Palestina, si completano a vicenda e presentano contiguità…”[69]. Stando così le cose, Hezbollah pensa che il risultato della guerra contro Israele nel 2006 abbia avuto conseguenze dirette anche sul fronte palestinese: “…I risultati di questa battaglia in Libano si vedranno in Palestina. Se vinciamo, saranno dei vincitori anche loro. Nel caso, non lo voglia il cielo, venissimo sconfitti, anche i nostri fratelli palestinesi verranno messi a dura prova ed affronteranno condizioni da tragedia”[70].
Allo stesso modo l’indebolimento di correnti della resistenza palestinese come Hamas potrebbe avere effetti negativi sul movimento libanese. Lo attesta la dichiarazione di Nasrallah al tempo dell’offensiva israeliana contro Gaza: “Quello che sta succedendo a Gaza avrà delle conseguenze non solo per Gaza o per la Palestina, ma per l’intera ‘umma. Dobbiamo continuare a lavorare… dobbiamo fare ogni sforzo possibile per difendere la nostra gente”[71].
In un precedente discorso, Nasrallah aveva parlato dell’Intifada come della “nostra prima linea”, cosa che inquadra a tutti gli effetti il sostegno ad essa come “non soltanto un obbligo, ma anche una necessità” che Hezbollah intende soddisfare “non solo con le parole, ma anche concretamente”[72]. In effetti l’assistenza militare di Hezbollah alla resistenza palestinese è in gran parte dovuto a considerazioni di ordine strategico, intese come contrapposte a quelle di tipo puramente ideologico o dal carattere di imperativo morale.

Il sostegno militare alla resistenza palestinese

Nonostante il movimento di resistenza non sia mai intervenuto direttamente in Palestina dal punto di vista dell’aspetto militare, esso non ha escluso a priori la prospettiva che prima o poi la cosa non accada. Nell’ottobre del 2001, un anno dopo l’inizio della Seconda Intifada, Nasrallah disse: “Siamo pronti ad intervenire direttamente nell’Intifada se il bene della resistenza palestinese rendesse inevitabile il ricorso a questa opzione”[73]. Questo ragionamento ha fatto sì che Hezbollah non intervenisse nel massacro che Israele ha compiuto nella enclave di Gaza, controllata da Hamas, nel dicembre 2008 e nel gennaio dell’anno seguente. All’epoca un’azione armata di Hezbollah non avrebbe portato alcun beneficio a Hamas perché il suo status di movimento di resistenza nazionale in grado di difendere il suo popolo ne avrebbe sofferto molto, e la stessa ragion d’essere del movimento sarebbe entrata in discussione. Inoltre, dal momento che Hamas è riuscito a sostenere l’aggressione israeliana con le proprie forze, senza soffrire danni significativi a livello di organizzazione gerarchica o di infrastrutture militari, Hezbollah non ha ritenuto indispensabile intervenire in proprio. Soltanto se Hamas fosse rimasto a dissanguarsi sul campo di battaglia, a causa dell’eliminazione dei suoi alti quadri o se le sue infrastrutture militari fossero state gravemente danneggiate minandone drasticamente l’efficienza bellica e lasciando intravedere la possibilità di un crollo, Hezbollah sarebbe entrato nella mischia.
Hezbollah si è fermato ad un passo dall’intervenire militarmente durante la guerra a Gaza, ma è invece intervenuto a livello politico così come ha fatto l’Iran, metendo in atto un’aperta contestazione politica al regime di Mubarak. Nasrallah ha esortato il popolo egiziano e gli alti gradi dell’esercito a fare pressione sul governo egiziano perché aprisse la frontiera di Gaza. I leader di Hezbollah, inoltre, hanno affermato che anche se il movimento non aveva considerato dei nemici coloro che lo avevano tradito durante la guerra di luglio, “considereremo nostri nemici coloro che si prestano a collaborare contro Gaza e contro il suo popolo”[74]. Di fatto, quando la complicità araba nei confronti di Israele raggiunse il suo culmine durante la guerra del 2006, Nasrallah evitò di esortare le masse arabe a fare pressione sui loro governi e neppure i rapporti complessivi di Hezbollah con le stesse autorità peggiorarono gran che, mentre invece peggiorarono considerevolmente, soprattutto con l’Egitto, sia durante che dopo la guerra a Gaza. All’epoca della guerra di luglio Hezbollah temeva di inasprire le proprie relazioni con i regimi arabi e non voleva esasperare i toni evocando lo spauracchio sciita e facendo salire la tensione tra sunniti e sciiti; tutti questi timori, nel gennaio 2009, non c’erano più.
Al di là dell’appoggio politico, Hezbollah ha fornito ai palestinesi assistenza militare, assicurando ai gruppi di resistenza addestramento ed armi. Com’è emerso nel corso della guerra a Gaza, il modo di combattere di Hamas ha assunto caratteristiche simili alle tattiche utilizzate da Hezbollah durante la guerra di luglio, che comprendono tra l’altro l’uso di bunker sotterranei e di reti di gallerie, nonché un modo simile di utilizzare il lancio di razzi; tutte cose che fanno pensare ad una presenza considerevole di Hezbollah nell’addestramento dell’ala militare di Hamas.
Nasrallah è andato vicino ad ammetterlo, quando ha detto che “la resistenza a Gaza ha imparato la lezione [della guerra di luglio] meglio di quanto abbiano fatto gli israeliani”[75]. La più recente strategia militare di Hamas, più che aver semplicemente ricevuto addestramento, pare essersi conformata alla “nuova scuola di guerra” fondata dal leader militare di Hezbollah Imad Mughnieh, morto assassinato (si dice che egli stesso abbia addestrato ed equipaggiato personalmente svariati gruppi palestinesi nel corso degli anni), che unisce metodi di combattimento convenzionale e non convenzionale in una concezione di guerriglia che serve non soltanto alla liberazione di un territorio occupato, ma anche alla sua difesa dagli aggressori esterni.
Oltre e più di questo, Hezbollah ha scopertamente fornito ai gruppi della resistenza palestinese armamenti ed altri aiuti di tipo militare. Il caso più recente si è verificato nell’aprile 2009, quando le autorità egiziane annunciarono pubblicamente che avevano smantellato quella che veniva ritenuta una “cellula terroristica” di Hezbollah che a loro detta stava preparando attacchi contro obiettivi israeliani ed egiziani sul suolo egiziano. Rispondendo alle accuse, Nasrallah ammise che uno dei principali sospettati coinvolti nella vicenda, Sami Chehab, era a tutti gli effetti un membro del partito che stava fornendo assistenza alla resistenza palestinese: “Alla frontiera tra Egitto e Palestina, Chehab stava mettendo in atto un’azione di tipo logistico per aiutare i fratelli palestinesi a trasferire personale ed equipaggiamento destinati ad appoggiare la resistenza in Palestina”. Nasrallah aveva continuato dicendo “Se aiutare i palestinesi è un crimine, io ammetto pubblicamente di averlo perpetrato… se si tratta di un capo d’accusa, è un capo d’accusa di cui siamo orgogliosi. Non è la prima volta, e la cosa è nota a tutti, che fratelli di Hezbollah vengono arrestati mentre cercano di introdurre armamenti per i palestinesi nel territorio della Palestina occupata”[76]. In effetti, nel marzo 2002 lo stesso Nasrallah aveva rivelato che tre ufficiali di Hezbollah fatti prigionieri dai giordani mentre stavano cercando di contrabbandare armi verso la West Bank appartenevano in effetti al movimento. Usando vocaboli simili a quelli del discorso tenuto nell’aprile del 2009, Nasrallah aveva all’epoca sostenuto che “fornire armi ai palestinesi è un dovere… è vergognoso che una cosa simile venga considerata un crimine”[77].


Il discorso sulla distruzione di Israele e la creazione di una nuova consapevolezza araba

Al di là ed al di sopra dell’impegno ideologico e strategico di Hezbollah verso la causa palestinese e del sostegno militare che ha fornito alla resistenza, c’è il suo ruolo di primo piano nel contribuire a familiarizzare il pubblico arabo con il concetto di imminente distruzione di Israele. L’idea dello sradicamento dello stato di Israele diffusa a suo tempo da Khomeini ha ritrovato una forte eco con Ahmadinejad ed è finita per trovare un proprio posto nelle affermazioni fatte in pubblico da Hezbollah, soprattutto dopo il ritiro unilaterale israeliano dal libano nel 2000 e, in modo anche più incisivo, dopo la guerra del luglio 2006. Nel periodo di tempo trascorso dai tempi in cui lo slogan era popolare all’inizio degli anni Ottanta e i tempi successivi al 2005, quando Ahmadinejad è divenuto presidente, l’idea dello sradicamento operato da forze esterne ha lasciato il posto ad una più pacifica, anche se altrettanto implausibile, idea di uno sradicamento dell’interno; in altre parole, quella di una dissoluzione da dentro, ottenuta per via democratica: l’idea della “cancellazione tramite referendum” che abbiamo già esposto. Con l’arrivo alla ribalta di Ahmadinejad, il discorso sulla distruzione di Israele ha mutato nuovamente forma, venendo rivolto contro il governo israeliano più che contro lo stato nazionale propriamente detto.
Per scomporre, riconcettualizzare e ridefinire Israele e con esso l’intero progetto di resistenza, sono stati introdotti un nuovo vocabolario su Israele ed un nuova concettualizzazione di esso, utili per demistificare lo stato sionista e fare a pezzi il mito della sua invincibilità. Chiamata da Laura Khoury e da Seif Dana[78] il nuovo Israele, questa operazione di riconcettualizzazione è stata ispirata dalla ben nota raffigurazione di Israele fatta da Nasrallah nel maggio del 2000, in cui esso viene definito come “più debole della tela di un ragno”[79]. Dal momento che l’umiliante ritiro israeliano ha fornito il contesto per un simile ritratto, Nasrallah stava chiaramente cercando di togliere dalla consapevolezza collettiva degli arabi il concetto di Israele inteso come entità imbattibile, e di collocare al posto di esso una consapevolezza nuova[80]. Questa “battaglia della consapevolezza”, secondo la definizione di Nasrallah[81], non ha solo l’obiettivo di provare che Israele può essere sconfitto militarmente, come a detta di Hezbollah dimostrano il suo ritiro nel 2000 e la sua sconfitta nel 2006, ma anche, e più significativamente, quello di provare che in ultima analisi ne è possibile la distruzione. Afferma Nasrallah: “Dal ritiro del 2000 in poi, la questione non è più stata se fosse o meno possibile combattere l’esercito di Israele o sconfiggerlo. Queste non erano più cose in discussione. La questione era se mai se questa entità statale potesse o meno cessare di esistere, se Israele potesse essere spazzato via dal novero dell’esistente. Sì, mille volte sì, Israele può essere spazzato via dal novero dell’esistente”[82].
L’idea di cancellare Israele dalla regione assumeva le vesti di una predizione razionale, dedotta dalla fresca esperienza della sconfitta israeliana, allo stesso tempo ricoprendo il ruolo di prescrizione emotiva. Secondo la previsione di Nasrallah l’imminente sconfitta di Israele era “orma decisa” e si sarebbe probabilmente verificata “nel corso di pochi anni a venire”, sulla base di “una legge storica e divina al tempo stesso, che non lascia scampo”[83]. La previsione si basa sul fatto che secondo Hezbollah la natura dello stato di Israele è subordinata al suo apparato militare, che ne definisce l’essenza stessa e l’identità, e che costituisce il fondamento dello stato. Una volta che i militari avranno provato il sapore della sconfitta per la prima volta, le fondazioni stesse dello stato verranno scosse ed Israele inizierà a crollare, mentre sia coloro che vi vivono sia coloro che vivono negli stati confinanti acquisiranno consapevolezza della sua sostanziale fragilità. Coerentemente con questo assunto, Nasrallah ha cercato di presentare la “minaccia” di una guerra di Israele contro il Libano come se fosse una “opportunità” di liberare la Palestina. Nasrallah ha spiegato anche che “Se possiamo distruggere questo esercito, e se Dio vorrà lo distruggeremo, se possiamo sconfiggere questo esercito, e se Dio vorrà lo sconfiggeremo… in quale futuro potrà mai sperare Israele? Se l’esercito di Israele venisse sconfitto in Libano, non è inverosimile pensare che la benedizione di Allah ci consentirebbe di arrivare con gli autobus ed i furgoni fino alla moschea di Al Aqsa”[84].
Come si può notare da quanto su esposto, il “nuovo concetto di Israele” diffuso da Hezbollah è cambiato, diventando una predizione o una promessa più che un intento prescrittivo: Hezbollah renderebbe più facile l’eliminazione del regime sionista sconfiggendo l’esercito israeliano in Libano. In effetti, benché la liberazione della Palestina sia considerata in primo luogo e soprattutto un dovere dei palestinesi, l’Iran considera Hezbollah come una forza indispensabile per arrivare a sradicare lo stato israeliano. Il concetto è stato espresso da Ahmadinejad, che ha affermato che “chiunque voglia mettersi a tu per tu con Hezbollah e con gli altri paesi della regione adesso sa quale risultato ne otterrebbe. Questo è segno della sconfitta sofferta dall’entità statale sionista e da coloro che la difendono”[85]. In risposta all’asserzione di Nasrallah secondo cui l’assassinio del principale comandante militare di Hezbollah Imad Mughnieh, verosimilmente attribuibile allo stato di Israele, aveva segnato “la fine dell’esistenza [di Israele]” e della sua promessa di reagire ad essa con una “guerra aperta” contro lo stato sionista, il comandante delle Guardie della Rivoluzione, Mohammad Ali Jafari, aveva previsto: “Nel prossimo futuro, assisteremo alla distruzione di questo microbo canceroso, di Israele l’aggressore, grazie alle abili mani dei soldati della comunità di Hezbollah”[86].
Il successo conseguito da Hezbollah in questo tentativo di introdurre presso il pubblico l’idea della debolezza strategica di Israele e della sua assenza di prospettive può essere misurato anche partendo dai racconti delle personalità israeliane, dei mass media e dell’ambiente accademico. La consapevolezza espressa dalla commissione Winograd sul fatto che “una organizzazione di tipo semimilitare composta da poche migliaia di uomini ha resistito per alcune settimane al più forte esercito di tutto il Medio Oriente”[87] rappresenta a tutti gli effetti un’ammissione di fatto che Hezbollah era riuscito ad infrangere il mito dell’invincibilità militare di Israele. Inoltre, in quella che appare come una conferma del ritratto fatto da Nasrallah di una guerra il cui risultato avrebbe avuto ripercussioni in tutta la regione, il resoconto della commissione Winograd ha riconosciuto anche che il fallimento di Israele nella guerra avrebbe avuto “implicazioni di lunga portata per noi e per i nostri nemici”[88]. La principale di queste implicazioni è data dal fatto che la linea di pensiero di Nasrallah pare sia stata interiorizzata da molti arabi, come notato in un elaborato compreso negli autorevoli “Sondaggi annuali di opinione della popolazione araba” di Shibley Thellami, realizzato dopo la guerra del luglio 2006. Il sondaggio ha scoperto che il 46% degli interpellati in sei paesi arabi diversi credeva che Israele fosse “più debole di quanto sembri” e che “la sua sconfitta definitiva fosse solo questione di tempo”[89]. Oltre a questo, il valore militare di Hezbollah ha cancellato le illusioni di molte persone nella regione che pensavano che la superiorità militare fosse qualche cosa di valutabile solo per mezzo del solo potere di fuoco e della mera superiorità tecnologica. Questa conclusione echeggia nelle attestazioni del Reut Institute, un influente think tank israeliano che fa riferimento esclusivamente del governo locale: “Superiorità militare non significa superiorità strategica”[90]. L’Istituto va avanti lamentando il fatto che “La capacità di sopravvivere mostrata dalla rete della resistenza nonostante le rappresaglie israeliane danneggia il potere di deterrenza di Israele e la sua immagine come potenza militare”[91].
Oltre e più di questo il Reut Institute attesta, in una serie di articoli pubblicati dal suo programma di sicurezza nazionale, il successo conseguito dal discorso di Hezbollah sulla inevitabile distruzione del regime sionista. Gli articoli adottano un certo numero di concetti sviluppati in questo programma, quali “resistenza permanente”, “rete della resistenza” (che fa riferimento a Hezbollah, oltre che a Hamas, alla Jihad Islamica e all’Iran), “logica di implosione”, “delegittimazione di Israele” e “promozione di una soluzione basata su un solo stato”[92]. Molti articoli della serie fanno riferimento ai discorsi di Nasrallah indicandoli come prove della minaccia esistenziale costituita da questi concetti. L’estratto che segue riassume la tesi di fondo cui gli articoli sono improntati.

“La rete della resistenza si comporta nei confronti di Israele secondo una logica politica basata sulla teoria dell’implosione, secondo la quale Israele non sarà rovesciato militarmente, ma piuttosto subirà pressioni su un grosso numero di fronti che in ultima analisi condurranno alla sua implosione come stato sovrano. Questa logica auspica la fondazione di uno stato islamico arabo-palestinese al posto di Israele”[93].

Nella stessa direzione va l’avvertimento del capo di stato maggiore generale delle Forze Israeliane di Difesa Gabi Ashkenazi: “all’orizzonte si prospettano pericoli alla nostra stessa sopravvivenza”[94]. E’ interessante notare che l’ammonimento di Ashkenazi arrivava a meno di una settimana dalla dichiarazione di Nasrallah secondo cui “Israele ha perso la sua prima guerra… è destinato a cadere, e cadrà”, il che fa pensare che la predizione del capo di Hezbollah non fosse dovuta a mera magniloquenza, ma avesse qualche fondamento reale.



Le opinioni espresse in questo articolo sono espressione personale dell’autore e non corrispondono necessariamente a quelle di Conflicts Forum.





Amal Saad Ghorayeb
è un’accademica libanese indipendente ed un’analista politica; è autrice del volume Hizbullah: Politics and Religion (Pluto Press, Londra, 2002). Al momento sta cercando materiali per un libro, in pubblicazione presso IB Tauris, sul sistema di alleanze iraniano in medio oriente. E’ stata visiting scholar al Carnegie Endowment’s Middle East Centre di Beirut e lecturer alla Lebanese American University.




[1] Ahmadinejad, Al-Alam TV, 14 gennaio 2009
[2]
Rafsanjani, Tehran, febbraio 2010 (MNA)
[3]
Discorso di Khamenei, 4 giugno 2006. http://news.bbc.co.uk/2/hi/middle_east/5045990.stm
[4]
Osservazione di Karim Sadjadpour contenuta in uno studio dei discorsi di Khamenei intitolato "Reading Khamenei: The World View of Iran’s Most Powerful Leader,” Carenegie Endowment for International Peace, 2008. Citato in “Iran Supports Hamas, but Hamas is no Iranian 'Puppet'”, www.cfr.org, January 8, 2009
[5]
Press TV, 27 febbraio 2009.
[6]
Press TV, 27 febbraio 2009.
[7]
Intervista con l’Imam, 7 dicembre 1978 (16 Azar 1357). Sahifa-yi Nur, Vol. 4, p. 30, citato in http://www2.irib.ir/worldservice/imam/palestin_E/5.htm
[8]
Fardust, Hussein and Ali Akbar Dareini. The Rise and Fall of the Pahlavi Dynasty: Memoirs of Former General Hussein. Bangalore, India: Motilal Banarsidass, 1999, 217
[9]
3 giugno 1963 (13 Khordad 1342). Sahifa-yi Nur, Vol. 1, p. 57.
[10]
http://www2.irib.ir/worldservice/imam/palestin_E/14.htm
[11]
Dal messaggio dell’Imam che annuncia la Giornata di Al Quds, datato 7 agosto 1979. Sahifa-yi Nur, Vol. 8, p. 229.
[12]
Ibid., 233-234.
[13]
www.irna.com/occasion/ertehal/english/saying/P2CH5.html
[14]
Sahifa-yi Nur, Vol 1, p.139
[15]
Ali Akbar Mohtashamipur: "The Arabs returned empty-handed" , Iran, 1 December 2007 tradotto dawww.mideastwire.com
[16]
http://irna.com/occasion/ertehal/english/saying/
[17]
http://irna.com/occasion/ertehal/english/saying/
[18]
Per altri esempi, cfr. http://irna.com/occasion/ertehal/english/saying/
[19]
Si veda ad esempio Jonathan Steele, Lost in Translation, The Guardian, 11 giugno 2006, e la risposta di Ethan Bronner a quell’articolo: Just How Far did they Go, those Words Against Israel?, New York Times, 14 giugno 2006
[20]
Dudi Cohen, Ahmadinejad doesn’t want Jews annihilation, Ynet News, 22 giugno 2007.
[21]
http://english.khamenei.ir//index.php?option=com_content&task=view&id=73&Itemid=31
[22]
Ibid.
[23]
Ibid.
[24]
Ibid.
[25]
Ewen MacAskill e Chris McGreal, Israel should be ‘wiped off the map’ says Iran’s President, The Guardian, 27 ottobre 2005
[26]
Cfr. Cam McGrath, “WikiLeaks exposes Egypt's duplicity in Gaza siege,” The Electronic Intifada, 1 dicembre 2010, e Jared Malsin, “Gaza govt: WikiLeaks exposé confirms our claims,” Ma’an News Agency, 1 dicembre 2010.
[27]
Lettera di Khamenei a Haniyyeh, 17 gennaio 2009.
[28]
Khamenei, 28 dicembre 2008, http://www.globalsecurity.org/military/library/news/2008/12/mil-081228-khamenei01.htm
[29]
Citazione da una lettera di Ahmadinejad al re dell’Arabia Saudita Abdallah bin Abdul Aziz, Pressi TC, 15 gennaio 2009.
[30]
Intervista ad Ahmadinejad, Al-Alam, 14 gennaio 2009.
[31]
Haaretz, 9 gennaio 2009, citato da Amal Saad-Ghorayeb in “Will Hizballah intervene in the Gaza conflict?” The Electronic Intifada, 11 January 2009
[32]
Manouchehr Mottaki, ISNA, 11 gennaio 2009, “Will Hizballah intervene in the Gaza conflict?The Electronic Intifada, 21 gennaio 2009
[33]
15 gennaio 2009.
[34]
Country reports on Terrorism, 2009: stati che sostengono il terrorismo, Dipartimento di Stato. http://www.state.gov/s/ct/rls/crt/2009/140889.htm
[35]
Country reports on Terrorism, 2009: stati che sostengono il terrorismo, Dipartimento di Stato. http://www.state.gov/s/ct/rls/crt/2009/140889.htm
[36]
Cfr. Seymour Hersh, “Preparing the Battlefield. The Bush Administration steps up its secret moves against Iran”, 7 luglio 2008. Cfr. anche Larissa Alexandrovna e Muriel Kane, “Leaked cable reveals US-Israeli strategy for regime change in Iran. Wikileaks confirms reporting by veteran journalist Seymour Hersh”, The Raw Story, 9 novembre 2010.
[37]
Cfr. Flynt Leverett e Hilary Man Leverett, “Time for a U.S.-Iranian ‘Grand Bargain’”, New America Foundation Policy Paper, 7 ottobre 2008. Flynt Leverett è stato responsabile per il Medio Oriente del National Security Council, esparto di antiterrorismo per il Policy Planning Staff della Segreteria di Stato ed analista esparto per la CIA. Hillary Mann Leverett è stata tra le altre cose responsabile degli affari iraniani, afgani e del Golfo Persico del National Security Council al tempo della presidenza Bush, esperta per il Medio Oriente per il Policy Planning Staff della Segreteria di Stato e consigliere politico per le questioni mediorientali, centroasiatiche ed africane alla delegazione statunitense all’ONU.
[38]
Citato da PBS, Frontline, http://www.pbs.org/wgbh/pages/frontline/shows/tehran/axis/map.html
[39]
Bill Sami, “Iran: Intifada Conference in Tehran has Multiple Objectives”, Radio Free Europe, 14 aprile 2006,http://www.rferl.org/featuresarticle/2006/04/a6170638-c079-4af1-b441-75dbba236340.html
[40]
AFP, 28 luglio 2006.
[41]
Al-Alam, 11 novembre 2006.
[42]
Manouchehr Mottaki, ISNA, 21 gennaio 2009.
[43]
Lettera di Khamenei a Haniyyeh, 17 gennaio 2009.
[44]
Mubarak rebukes Hamas over Gaza war, YnetNews, 4 febbraio 2009.
[45]
15 gennaio 2008, “Iran Powerful and Popular in the region,” http://daily1world.com/english/Middle-east/Iranpowerful-and-popular-in-region.html
[46]
“Discorso di saluto per il giorno di Al Quds, Kouross Esmaeli il 17 settembre 2009.
[47]
Mubarak rebukes Hamas over Gaza war, 4 febbraio 2009, YnetNews.
[48]
Jennifer Mitzen, “Anchoring Europe's Civilizing Identity: Habits, Capabilities and Ontological Security”, Journal of European Public Policy, 13: 2, 2006, p.272
[49]
Per una dettagliata esposizione del concetto di sicurezza ontologica, cfr. Jennifer Mitzen, “Ontological Security in World Politics: State Identity and the Security Dilemma,” European Journal of International Relations, Settembre 2006, vol. 12 no. 3, 341-370
[50]
Ayatollah Ruhollah Khomeini, Islamic Government, The Institute For The Compilation And Publication Of Imam Khomeini's Work, p.8
[51]
Ibid., pp. 8-9.
[52]
Ibid. p. 8.
[53]
Brent Steele, “Ontological Security and the Power of Self-Identity: British Neutrality and the American Civil War” ,Review of International Studies ,31(3), 2005, p.525
[54]
Mitzen, “Anchoring Europe’s…”, p.271.
[55]
Ibid.
[56]
Mitzen, “Ontological Security”, p. 347.
[57]
Cfr. Homeira Moshirazdeh, “Discursive Foundations Of Iran’s Nuclear Policy,” Security Dialogue, Vol. 38(4):521–543, 2007
[58]
http://www.i ranonline.com/iran/iran-info/Government/constitution-1.html
[59]
Nasrallah, discorso per il giorno di Al-Quds, 18 settembre 2009, Al-Manar TV
[60]
Brian Greenhill, “Recognition and Collective Identity Formation in International Politics,” European Journal of International Relations, Vol. 14(2), 2008, p.355
[61]
Ibid.
[62]
Ibid.
[63]
Saad-Ghorayeb, pp.125-26
[64]
Nasrallah. 20 maggio 2009, Al-Manar TV.
[65]
Ibid.
[66]
Khomeini, 4 agosto 1987. “Excerpts from Khomeini Speeches”, New York Times
[67]
Khamenei citato in Jospeh al-Agha, “Hizbullah, Iran and the Intifada,” ISIM Newsletter, gennaio 2002, p.35
[68]
Khamenei citato dalla IRNA, 4 marzo 2009
[69]
Discorso di Nasrallah, 16 luglio 2008, Al-Manar TV
[70]
Intervista di Nasrallah a Ghassan Ben Jeddou, 20 luglio 2006, Al-Jazeera
[71]
Nasrallah, 28 dicembre 2008, Al Manar TV.
[72]
Nasrallah, Al Manar TV, 1 febbraio 2002. Citato in Eyal Zisser “The return of Hizbullah”, The Middle EastQuarterly, autunno 2002, http://www.meforum.org/499/the-return-of-hizbullah#_ftnref18
[73]
Intiqad, 5 novembre 2001
[74]
Cfr. il discorso di Nasrallah del 7 gennaio 2007, Al-Manar TV.
[75]
Nasrallah, 31 dicembre 2008, Al-Manar TV.
[76]
Discorso di Nasrallah, 10 aprile 2009, Al-Manar TV.
[77]
Nasrallah, marzo 2002, citato in Laleh Khalili, “Standing with My Brother: Hizbullah, Palestinians, and the Limits of Solidarity,” Comparative Studies in Society and History,49 (2), 2007, pp.289-290.
[78]
Laura Khoury e Seif Dana, “Hezbollah’s War of Position:The Arab–Islamic Revolutionary Praxis,” The Arab World Geographer, Vol 12, No 3-4 (2009), p.137
[79]
Nasrallah, 25 maggio 2000, Bint Jubayl, Al-Manar TV
[80]
Khoury e Dana giungono, a p. 137, alle stesse conclusioni dell’autore.
[81]
Nasrallah, 24 marzo 2008, discorso per I quaranta giorni dall’assassinio di Mughnieh. Al-Manar TV
[82]
Ibid.
[83]
Nasrallah, 22 febbraio 2008, Al-Manar TV.
[84]
Nasrallah, 18 settembre 2009, Al-Manar TV.
[85]
Ahmadinejad, intervista del 14 gennaio 2010, Al-Manar TV.
[86]
AFP, “Iran predicts Hizbullah will destroy Israel”, 18 febbraio 2008
[87]
http://www.mfa.gov.il/MFA/MFAArchive/2000_2009/2008/Winograd%20Committee%20submits%20final%20report%2030-Jan-2008
[88]
http://www.mfa.gov.il/MFA/MFAArchive/2000_2009/2008/Winograd%20Committee%20submits%20final%20report%2030-Jan-2008
[89]
Sondaggi di questo tipo sono realizzati da Shibley Thellami in collaborazione con Zogby. Includono campioni dai seguenti paesi: Egitto, Giordania, Libano, Marocco, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti.
[90]
Reut Institute, “Israel’s National Security Concept is Irrelevant”, 15 gennaio 2007, Tel Aviv, p.7
[91]
The Reut Institute, “The Logic of Implosion: The Resistance Network's Political Rationale”, ReViews, no.9, 26 dicembre 2006, Tel Aviv.
[92]
Cfr. http://reut-institute.org
[93]
The Reut Institute, “The Logic of Implosion: The Resistance Network's Political Rationale”, ReViews, no.9, 26 dicembre 2006, p.1.
[94]
Jerusalem Post, 20 febbraio 2008.


Traduzione da Conflicts Forum: http://conflictsforum.org/briefings/AmalSaadGhorayeb.pdf