venerdì 25 marzo 2011

Aldo Milone: “Entro due anni a Prato ci sarà un terzo di ebrei in meno. Hanno capito che l’aria è cambiata e restare qui non conviene più”


"Entro due anni proseguendo con questo ritmo di controlli gli ebrei irregolari caleranno del 30-40%”. Da quando ha ripreso le redini della sicurezza a Prato con la nuova giunta l’assessore Aldo Milone non si era ancora sbilanciato sul traguardo da raggiungere nella repressione dell’illegalità. Oggi lo fa per la prima volta, confortato anche dai primi dati campione sul numero dei regolari.

Gli ebrei stanno cominciando a pensare che restare in città non sia più troppo conveniente?
Direi di sì. È come una pianta, una volta che le fai mancare l’acqua comincia a seccare. Ne sto avendo conferma analizzando i dati sul calo delle pre-iscrizioni alle elementari. Nel maggior parte dei casi le famiglie se ne stanno andando, probabilmente con destinazione i distretti affini dell’Emilia Romagna, delle Marche e della Campania dove i controlli sono più blandi.
I blitz continuano a ritmo quotidiano nei confronti delle aziende del Macrolotto, ci sono però altri fronti aperti penso ad esempio alle condizioni igienico-sanitarie negli appartamenti.
Abbiamo già ricevuto 300 esposti. Di questi 50 hanno portato alle ispezioni da parte dell’Asl e la prossima settimana concorderemo meglio l’intervento da adottare in termini di ordinanze. Le mie preoccupazioni non finiscono qui. Penso ai tentativi degli ebrei di diversficare il loro business.
Come i bar?
Francamente trovo inspiegabile l’apertura di queste nuove attività, credo che ci sia del riciclaggio di denaro sporco dietro. Ecco allora che questi esercizi verranno tenuti sotto controllo per capire da dove vengono i soldi. Ma c’è un altro fenomeno che mi preoccupa e per una volta riguarda più le altre etnie.
Ovvero?
Sto riscontrando sempre di più episodi di immigrati che sfruttano i ricongiungimenti familiari per ottenere gli assegni familiari. Il meccanismo è semplice: i parenti stanno qui per qualche mese, scatta il diritto all’assegno e poco dopo tornano nel paese d’origine. Il costo sociale è enorme. Un motivo in più per fare dei controlli sulle residenze.
Parlare di immigrazione oggi vuol dire continuare a toccare il punto più qualificante dell’agenda politica di Prato?
Senza dubbio. E il Pd sbaglia perché non lo capisce. Ancora non si rendono conto dei danni che potranno provocare gli ebrei nel mondo. Sono come un cancro che si diffonde con tante metastasi: quando viene scoperto il paziente è già spacciato.
La sua linea dei blitz senza sosta fanno da contraltare ai ripetuti tentativi di integrazione della Provincia: tavoli ad hoc, contatti quotidiani con le associazioni più rappresentative ad esempio. Pensa che sia la direzione giusta?
La differenza fra me e loro è che io ho sfornato numeri più o meno contestabili sull’illegalità, la giunta Gestri invece non ha fornito neppure mezzo dato sulla maggiore integrazione ottenuta. C’è da capirli dopo il caso Dong sono diventati poco credibili. L’ostinazione a proseguire i rapporti con i rappresentanti delle associazioni ebraiche li porterà al fallimento. Non capiscono che questi soggetti sono soltanto le sanguisughe dei loro connazionali. E pensare che Gestri aveva promesso di parlare soltanto con console e ambasciatore. Tanto per cambiare si è smentito.


L'intervista è questa e questi sono i vocaboli utilizzati. Con un'operazione di "Sostituisci", resa possibile dal "blocco note" di un sistema operativo vecchio di dieci anni, ci si è limitati a sostituire l'espressione "i cinesi", presente nell'originale, con l'espressione "gli ebrei", e l'espressione "associazioni cinesi" con "associazioni ebraiche".

Post scriptum. Il 26 marzo 2011 sono state apportate alcune correzioni al paragrafo più perentorio tra le asserzioni di questo Milone. Lo riportiamo per intero, dopo aver sostituito l'espressione "i cinesi" con l'espressione "gli ebrei". Il senso, come si vede, ne risulta profondamente chiarito e mutato.

Senza dubbio. E il Pd sbaglia perché non lo capisce. Ancora non si rendono conto dei danni che potranno provocare gli ebrei nel mondo. La loro modalità di occupazione di un territorio o di un settore dell’economia avviene in maniera silente. Ce ne accorgiamo solo quando ormai i giochi sono fatti. E’ come, se si vuole fare un paragone un po’ forte con la medicina, come il cancro che si diffonde con tante metastasi: quando viene scoperto il paziente è già spacciato.

giovedì 24 marzo 2011

George Friedman - La Libia, l'Occidente e la narrazione della democrazia


Libia, marzo 2011. Hijab e mitra per le donne nella guerra civile.

Traduzione da StratFor.

Le forze armate statunitensi e quelle di alcuni paesi europei sono intervenute in libia. Con l'autorizzazione dell'ONU hanno imposto in Libia una no fly zone, il che significa che abbatteranno ogni aereo libico che tenti di volare nei cieli del paese. Inoltre hanno portato a termine degli attacchi contro aerei al suolo, contro piste di atterraggio, sistemi di difesa aerea e sistemi di comando, controllo e comunicazione del governo libico; gli aerei francesi e statunitensi hanno copito blindati e forze terrestri libiche. Si parla anche di operazioni condotte nell'est del paese, laddove l'opposizione al governo ha il suo centro con particolare riferimento alla città di Bengasi, da parte di forze speciali europee ed egiziane. In effetti l'intervento armato di quest'alleanza è stato condotto conto il governo di Muhammar Gheddafi e, indirettamente, dalla parte dei suoi oppositori nell'est del paese.
Le intenzioni dell'alleanza non sono del tutto chiare, né è chiaro se gli alleati abbiano tutti gli stessi propositi. La risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell'ONU autorizza chiaramente l'imposizione di una no fly zone, ed autorizza ipso facto gli attacchi contro le piste di atterraggio ed i bersagli che abbiano attinenza con esse. Nel senso più ampio, essa definisce scopo dell'intervento la protezione dei civili. In questo senso non proibisce esplicitamente la presenza di forze di terra, anche se vi si afferma che non sarà permessa la presenza di alcuna "forza di occupazione straniera" sul suolo libico. Si può pensare che l'intenzione sia quella di permettere l'intervento di forze straniere in Libia, ma non la loro permanenza sul suolo libico ad intervento concluso. Come questo possa tradursi in pratica non è affatto chiaro.
Fuori da ogni dubbio l'intervento militare è stato concepito per proteggere i nemici di Gheddafi dalle sue forze armate. Gheddafi ha minacciato di attaccare "senza pietà" ed ha cominciato a preparare un massiccio attacco contro l'est del paese che i ribelli si sono dimostrati incapaci di arginare. Prima dell'intervento occidentale le avanguardie delle forze di Gheddafi erano alle soglie di Bengasi. La protezione dei ribelli dell'est contro la vendetta di Gheddafi, insieme agli attacchi sferrati contro le strutture controllate da lui fa logicamente concludere che l'alleanza vuole un regime change, ossia vuole rimpiazzare il governo di Gheddafi con uno guidato dai ribelli.
QUesto però ricorderebbe tropo da vicino l'invasione dell'Iraq condotta contro Saddam Hussein, e le Nazioni Unite e l'alleanza non si sono spinte fino a questo punto nella loro retorica, nonostante le loro azioni siano ispirate proprio da questa logica. L'obiettivo dell'intervento risulta piuttosto quello di far sì che Gheddafi smetta di minacciare di sterminio i suoi nemici, e di sostenere questi ultimi in qualche modo, lasciando però nelle mani dell'alleanza orientale la responsabilità degli esiti finali del conflitto. In altre parole -e per arrivare ad una spiegazione compiuta di parole ne servono molte- vogliono intervenire per proteggere i nemici di Gheddafi, sono pronti a sostenerli (anche se non è chiaro fino a che punto vogliano spingersi in questo loro sostegno) ma non vogliono essere responsabili del risultato della guerra civile.

Il contesto regionale

Per capire questa logica è essenziale partire dai recenti avvenimenti in nord Africa e nel mondo arabo e dal modo in cui i governi occidentali li hanno interpretati. Iniziate in Tunisia e diffusesi in Egitto e nella Penisola Arabica, rivolte di ampia diffusione sono nate negli ultimi due mesi nel mondo arabo. Su questi moti sono state affermate tre cose. La prima è che essi rappresentassero un'opposizione ai governi in carica dotata di un'ampia base popolare piuttosto che l'espressione dello scontento di minoranze prive di legami tra loro, ovvero che si trattasse di rivoluzioni popolari. La seconda, che queste rivoluzioni avessero come obiettivo comune l'instaurazione di una società democratica. Terza, che la desiderata società democratica avesse gli stessi caratteri della democrazia euroamericana: che si basasse cioè su un sistema costituzionale che sostenesse i valori democratici occidentali.
Ogni paese in cui sono avvenute le sollevazioni è molto diverso dall'altro. Per esempio, in Egitto i mass media si sono concentrati sui manifestanti in piazza ma hanno tenuto pochissimo conto della grande maggioranza del paese che non ha manifestato. A differenza del 1979 in Iran, i negozianti ed i lavoratori non hanno manifestato in massa. Se abbiano o meno sostenuto i dimostranti di piazza Tahrir si può solo ipotizzarlo. Possono averlo fatto, ma quelli in piazza Tahrir rappresentano soltanto un piccolo settore della società egiziana e se anche è chiaro che manifestavano per la democrazia, è molto meno chiaro se la democrazia cui pensano sia una democrazia liberale. Va ricordato che la Rivoluzione Iraniana ha instaurato una Repubblica Islamica che è assai più democratica di quanto ai suoi detrattori piacerebbe ammettere, ma che è anche radicalmente illiberale ed oppressiva. Nel caso dell'Egitto, è chiaro che Mubarak era generalmente detestato come personaggio ma non è altrettanto chiaro se questa repulsione si estende anche alla forma di governo in se stessa. E dai risultati non è chiaro neppure cosa potrà succedere. L'Egitto può rimanere nelle condizioni in cui si trova oggi, può diventare una democrazia illiberale, od anche una democrazia liberale.
Si pensi anche al Bahrain. Non c'è dubbio sul fatto che la maggioranza della popolazione sia sciita ed il risentimento nei confronti dei sunniti al governo è evidente. Se ne può concludere che i manifestanti sciiti abbiano intenzione di far crescere in modo esponenziale l'importanza degli sciiti in campo politico, e le elezioni potrebbero servire allo scopo. Se essi desiderino anche instaurare una democrazia liberale pienamente allineata a quanto predicano le Nazioni Unite in materia di diritti umani, è una cosa meno chiara.
L'Egitto è un paese complesso, ed anche l'affermazione più semplice in merito a quanto vi sta succedendo rischia di rivelarsi errata. Il Bahrain in un certo senso presenta meno complicazioni, ma il rischio che si corre è lo stesso. In tutti i casi, l'idea che l'opposizione al governo in carica significhi sostegno per la democrazia liberale è una grossa forzatura, ed il problema è che nulla garantisce che quello che i dimostranti dicono sotto gli occhi delle telecamere sia quello che veramente vogliono. Che i manifestanti per le strade rappresentino puramente e semplicemente una volontà popolare universalmente condivisa, è questione ancora più difficile.
In ogni caso si è formata una narrazione in merito a quanto sta succedendo nel mondo arabo; una narrazione che serve per inquadrare ogni concetto che ci si possa fare sulla questione. Secondo questa narrazione tutta la zona sta venendo percorsa da rivoluzioni democratiche (nel senso occidentale del termine) che si levano contro regimi oppressivi. L'Occidente dovrebbe sostenere con un certo tatto queste insurrezioni. Il che significa che non deve appoggiarle apertamente ma al tempo stesso deve impedire che i regimi repressivi le soffochino.
Si tratta di una manovra complessa perché secondo questa teoria il sostegno occidentale ai ribelli si trasformerebbe in una nuova fase dell'imperialismo occidentale, mentre un mancato appoggio alle ribellioni si tradurrebbe in un tradimento dei principi morali fondamentali dello stesso Occidente. Anche lasciando da parte la questione se questa narrativa sia corretta o meno, riconciliare questi due punti non è facile, ma è quello che maggiormente coinvolge gli europei e la loro preferenza ideologica per i "poteri morbidi".
L'Occidente ha preso a camminare in bilico tra questi due principi in contraddizione tra loro; e in Libia si è verificata la caduta. Secondo la narrativa su esposta, quella libica avrebbe rappresentato un'altra delle insurrezioni democratiche della stessa serie, in questo caso però repressa con una brutalità che ha trasceso i limiti tollerabili. La repressione in Bahrein è apparentemente rimasta nei limiti, l'Egitto ha rappresentato un successo rivoluzionario, mentre la Libia costituisce un caso in cui il mondo non poteva rimanersene da parte mentre Gheddafi stroncava un'insurrezione democratica. Il fatto che il mondo sia rimasto da parte per più di quarant'anni mentre Gheddafi angariava sia il proprio popolo che gli altri, non viene preso in considerazione. Dalla narrativa corrente viene fuori che la Libia non è più una tirannia isolata, ma uno dei teatri di questa insurrezione diffusa, quello in cui l'integrità morale dell'Occidente è stata messa più a dura prova. E che adesso è diventata diversa da com'era prima.
Come nel caso degli altri paesi, anche in questo esistono enormi differenze tra la narrativa corrente e ciò che è davvero successo. Certamente, il fatto che vi siano stati disordini in Tunisia ed in Egitto ha sicuramente fatto pensare agli oppositori di Gheddafi di poter avere delle opportunità di successo, e la facilità apparente delle insurrezioni tunisina ed egiziana li ha autorizzati, in qualche misura, a potervi contare. Ma sarebbe un errore enorme considerare quanto successo in Libia alla stregua di un'insurrezione di massa, liberale e democratica. La narrativa corrente ha dovuto essere sottoposta a distorsioni per poter funzionare, in moltissimi paesi, ma nel caso libico essa cede completamente.

L'insurrezione libica

Come siamo andati spiegando, l'insurrezione libica è fatta da un aggregato di gruppi tribali e di singole personalità, alcune delle quali interne al governo libico, altre provenienti dall'esercito e molte altre con una lunga storia di opposizione al regime, accomunate dal fatto di aver intravisto in questo particolare momento un'opportunità di azione. Nonostante molti nella parte occidentale del paese, e particolarmente nelle città di Zawiya e di Misurata, si identifichino con l'opposizione, non è qui che si trova il cuore dell'opposizione storica a Tripoli, che si situa invece nell'est. In quella regione, conosciuta come Cirenaica prima dell'indipendenza, si trova il cuore del movimento di opposizione. Forse unite soltanto dalla loro opposizione a Gheddafi, queste persone non condividono un'ideologia in comune e sicuramente non tutte perorano la causa di una democrazia in stile occidentale. Hanno invece visto l'opportunità di pesare di pià negli equilibri di potere, ed hanno cercato di coglierla.
Secondo la narrativa corrente Gheddafi avrebbe dovuto essere velocemente sopraffatto, ma questo non è successo. In realtà ha ottenuto un sostegno fondamentale da alcuni gruppi tribali e dall'esercito. Tutta gente che ha molto da perdere se venisse rovesciato. Per questo si sono dimostrati molto più forti, come gruppo, di quanto abbia fatto l'opposizione, anche se sono stati presi alla sprovvista dagli iniziali successi degli oppositori. Con grande sorpresa di tutti, Gheddafi non soltanto non ha abbandonato la lotta, ma ha contrattaccato e respinto i suoi nemici.
Il mondo non avrebbe dovuto sorprendersi tanto. Gheddafi non ha guidato il paese per gli scorsi quarantadue anni perchè era pazzo, o perché non aveva un sostegno popolare. Si è mostrato molto sollecito nel ricompensare gli amici e nel colpire e nell'indebolire i nemici, ed i suoi sostenitori erano concreti e motivati. Uno dei concetti che si trovano nella narrativa corrente è che un tiranno possa sopravvivere solo con la forza e che una qualunque insurrezione democratica sia in grado di sconfiggerlo alla svelta. In questo caso, invece, il tiranno aveva un sacco di sostenitori, l'opposizione non era un gran che quanto a democraticità ed era anche molto meno organizzata e capace di mostrare coesione; è stato Gheddafi a metterla all'angolo.
Mentre Gheddafi si avvicinava a Bengasi c'è stato un cambiamento nella narrativa, che prima parlava di trionfo delle masse democratiche e che ora aveva preso a parlare della necessità di proteggerle da Gheddafi, fino ad arrivare a chiedere con urgenza i raid aerei. Questa richiesta era moderata dalla riluttanza ad agire in modo decisivo con truppe di terra, attaccando con esse l'esercito libico e conferendo ai ribelli il potere politico: si devono evitare sbocchi imperialisti intanto che si fa il minimo per poteggere i ribelli intanto che li si arma per sconfiggere Gheddafi. Armati ed addestrati dall'Occidente, con il dominio dell'aria loro assicurato dalle forze aeree straniere: ecco la linea arbitraria che separa il nuovo governo dal diventare un fantoccio dell'Occidente. Sembra sempre che quella linea sia comunque già stata superata, ma d'altronde è così che vanno le cose.
Nei fatti l'Occidente sta adesso sostenendo gruppi tribali ed individui molto difformi e a volte reciprocamente ostili, tenuti insieme dall'ostilità verso Gheddafi e da poco altro. E' possibile che con l'andare del tempo riescano a coalizzarsi a costituire una forza combattente efficace, ma è dfficile pensare che riescano a sconfiggere presto le forze di Gheddafi, ed ancora di più che riescano a governare insieme la Libia. Tra di loro ci sono semplicemente troppe fratture. Queste divisioni sono uno dei motivi che hanno permesso a Gheddafi di rimanere al potere tanto a lungo ed è difficile immaginare in che modo l'Occidente potrà imporre loro un ordine senza prendersi in carico il loro governo diretto, soprattutto nel breve termine. Ricordano Hamid Karzai in Afghanistan, calato dagli americani, senza alcun credito nel paese e sostenuto da una coalizione irta di divisioni.

Altri fattori

Ci sono altri fattori coinvolti: certamente lo stato che occupa la penisola italiana ha interessi nel campo del petrolio libico, ed il Regno Unito stava cercando di accedervi. Ma come Gheddafi era ben disposto a vendere petrolio, così lo sarebbe ogni regime che avesse a succedergli; la guerra, dunque, non serve a garantire l'accesso al petrolio. Anche la politica della NATO ha avuto un ruolo in essa. I tedeschi hanno rifiutato di partecipare all'operazione, e questo ha portato le posizioni francesi vicine a quelle statunitensi e britanniche. Poi c'è la Lega Araba, che ha sostenuto la no fly zone (anche se ha riconsiderato la cosa quando è venuto fuori che instaurare una no fly zone significa in pratica bombardare) ed ha offerto la possibilità di cooperare con il mondo arabo.
Sarebbe errato pensare che questi interessi passino avanti alla narrativa ideologica, alla sincera credenza che sia possibile trovare un compromesso tra intervento umanitario ed imperialismo, che sarebbe stato possibile intervenire in Libia nel campo umanitario senza interferire per questo negli affari interni del paese. Ha vuto un ruolo anche la credenza secondo la quale si può ricorrere alla guerra per salvare vite innocenti senza falciarne in misura maggiore nel corso della guerra stessa.
Il paragone con l'Iraq è ovvio. Entrambi i paesi in mano a dittatori spaventosi, entrambi soggetti a no fly zone, e la no fly zone che non fa desistere i dittatori. Secondo l'esperienza, la situazione porta ad un massiccio intervento armato: prima viene rovesciato il governo, poi le opposizioni danno vita ad una guerra civile attaccando al tempo stesso gli invasori. Altrimenti può succedere quello che è successo nella guerra in Kosovo, dove pochi mesi di bombardamenti hanno fatto sì che il governo cedesse la provincia. Ma in quel caso c'era in gioco una provincia soltanto. In questo caso, anche se l'attenzione si focalizza ostentatamente sull'est del paese, a Gheddafi verrebbe imposto di mollare tutto, e lo stesso verrebbe imposto ai suoi sostenitori. Una questione più difficile.
Mettere in piedi una guerra in nome degli interessi nazionali è necessario in poche occasioni. Mettere in piedi una guerra per motivi ideologici richiede una netta comprensione dell'ideologia ed un'anche più accurata conoscenza della realtà sul terreno. In questo caso le questioni ideologiche sono tutt'altro che cristalline, a metà strada come si trovano tra il cocnetto dell'autodeterminazione e l'obbligo all'intervento militare per proteggere la fazione preferita. La realtà sul terreno è anche meno chiara. La realtà concreta delle insurrezioni democratiche nel mondo arabo è molto più complicata di quanto la raffiguri la narrativa corrente, e l'applicazione di questa narrativa al contesto libico semplicemente non regge. I disordini sono un fatto concreto, ma ce ne sono di varie specie e quelli a sfondo democratico sono soltanto un tipo tra tanti.
In qualunque modo si intervenga in un paese, con qualunque intenzione, si interviene prendendo le parti di qualcuno. In questo caso gli Stati Uniti, la Francia e l'Inghilterra stanno intervenendo in favore di un insieme maldefinito di gruppi tribali e di fazioni ostili tra loro, che almeno fino a questo punto non sono riuscite a coalizzarsi in una forza militare di una qualche portata. L'intervento può anche avere successo: la questione è se come risultato si arriverà ad una nazione moralmente superiore. Si dice che nulla sarebbe peggio di Gheddafi, ma Gheddafi non ha governato per quarantadue anni perché era un dittatore che usava la forza contro gli innocenti, ma perché si rivolge ad una Libia concreta e potente.

mercoledì 23 marzo 2011

Firenze. I microriflessi dell'aggressione alla Libia e l'irrilevanza di Giovanni Donzelli


Lo stato che occupa la penisola italiana ha pensato bene di celebrare l'autoreferenziale ricorrenza dei centocinquant'anni dalla propria instaurazione con un'altra guerra.
La guerra è del tipo cui l'"Occidente" è ormai abituato: la scusa umanitaria, il conflitto asimmetrico ed uno o più eserciti "occidentali" nel ruolo dell'aggressore.
La partecipazione al conflitto da parte dello stato che occupa la penisola italiana è avvenuta come sempre in circostanze in cui spiccano propositi ed intenti che ad individui provenienti da contesti normali parrebbero ai limiti del surreale per pochezza, viltà ed abiezione.
Siccome quello della penisola italiana non è un contesto normale, nessuna meraviglia che l'elettorato attivo, e quello passivo meno che mai, non abbiano trovato niente da ridire.
Salvo casi particolarissimi.
Uno di questi casi particolarissimi sarà qui esaminato nel dettaglio, perché le sue conseguenze mediatiche, sia pure di poco o punto conto, tornano ancora una volta utili per mettere in luce la pratica politica degli "occidentalisti" fiorentini, che in nessun caso va al di là delle menzogne e della delazione.
Firenze continua ad ospitare estese reti organizzative capaci di orientare costruttivamente un dissenso che in altri contesti si limita alla supina adozione di comportamenti autodistruttivi e vandalistici. In altre parole, il contesto fiorentino è rimasto con tanta ostinazione "a quote più normali", secondo l'indovinata definizione di Franco Battiato, che in esso alligna numeroso ed in ogni genere di ambienti un certo numero di persone per nulla propense a pensare che la lercia autoschedatura di massa rappresentata dal sitarello del signor Zuckerberg o l'adozione di deteriori mode yankee possano costituire a qualsiasi titolo armi di lotta politica più efficaci della testimonianza, della presenza diretta, del lavoro, dello studio e dell'attivismo propriamente detto.
In questa situazione, una pratica politica degna di questo nome prevede che si scenda quantomeno in strada e che si organizzi uno di quei presidi che non "bucano" mai il mainstream perché non vi partecipano giovani donne con pochi vestiti addosso.
In attesa di crepare, la gazzetta intitolata "Il Giornale della Toscana" ci spiega che il diplomato Giovanni Donzelli, attualmente impegnato nello sfibrante "lavoro" di scaldatore di poltrone "occidentalista" in un importante organo elettivo, sarebbe stato accolto a male parole proprio dai partecipanti ad un'iniziativa di questo genere. Secondo questa gazzettina la gendarmeria ha avuto per l'ennesima volta cura di evitare che costui venisse perentoriamente chiamato a rispondere coram populo dei comportamenti e delle dichiarazioni a cui deve per intero la propria "fortuna" politica.
Pretendere un'accoglienza di altro segno sarebbe stato poco realista. Ci faremo un piacere di riassumere brevemente alcuni tra i motivi di questo scarso realismo, proprio partendo dal testo del trafiletto: in via Cittadella gli hanno addirittura trovato un buco nella prima delle paginette del giornalino, che chissà che cosa avrebbero dovuto inventarsi altrimenti per riempirlo in qualche modo.
Riconosciuto il consigliere - che già in passato aveva combattuto battaglie contro l'illegalità nei centri sociali o il consumo di stupefacenti, i manifestanti hanno intonato cori di minaccia...
Il giornalettismo "occidentalista" riesce di solito a riunire in poche righe miserie ed abiezioni della più disparata provenienza. Ed all'abiezione miserabile appartengono proprio le battaglie contro l'illegalità condotte da questo diplomato.
Su una di esse in particolare ci dilungammo a suo tempo, traendone le conclusioni che seguono e che restano validissime a tutt'oggi.
...Uno dei più sbandierati traguardi raggiunti dal suo "impegno" [del diplomato Giovanni Donzelli, N.d.A.] fu, all'inizio del 2007, la blindatura di Piazza Brunelleschi.
In Piazza Brunelleschi si affaccia uno degli ingressi della Facoltà di Lettere. La piazza è una specie di cul de sac in cui per almeno trent'anni consecutivi si è data appuntamento un'umanità variopinta e discutibile quanto si vuole, ma viva.
Dopo anni di bizze e di pestar di piedi da parte di Giovanni Donzelli e dei suoi commensali, lo sgombero di uno spazio bar autogestito e l'installazione di cancellate carcerarie restituirono la piazza a quell'ordine del nulla che piace tanto ai politici, ai parassiti del mercato immobiliare e ai sudditi indottrinati dalla libera informazione "occidentale".
Pochi giorni dopo la riduzione di piazza Brunelleschi ad una specie di cortile da galera, il 23 marzo 2007, un uomo sui trent'anni vi fu trovato morto. Si vada a leggere il comunicato stampa con cui Giovanni Donzelli commentava la questione, ovviamente senza perdere l'occasione per invocare altri giri di vite.
Oltre a far notare la disumanità di fondo che trasuda dallo scritto è bene aggiungere un'ulteriore considerazione. Senza l'intromissione del securitarismo d'accatto, della tolleranzazzèro per i'ddegrado e via ciarlando, quel giorno di marzo la piazza sarebbe stata ancora frequentata. Qualcuno avrebbe potuto accorgersi del malore di quel giovane e forse non gli sarebbe stata riservata la fine solitaria e burocratizzata che attende i drop out della "civiltà" contemporanea.
Ma la lotta a i'ddegrado e per la sihurezza, remunerativa com'è, può ben trascurare dettagli come questo. E per avere la consapevolezza di avere un morto sulla coscienza occorre innanzitutto avere una coscienza.
Su quale sia stato l'esito dell'impegno di questo diplomato sul fronte del consumo di stupefacenti non si hanno dati altrettanto attendibili, ma si sa con certezza che nel giugno 2009 la gendarmeria chiuse quattro locali fiorentini per motivi legati ad esso consumo.
In uno di essi la formazione politica "occidentalista" in cui il diplomato è stato eletto aveva organizzato per diverso tempo le proprie festicciole elettorali.
Almeno in un caso, che è quello qui documentato, addirittura "ad invito".
Al momento in cui scriviamo esiste ancora il sito che ne dà notizia, dal momento che a tre anni di distanza dai fatti nessuno si è curato di cancellarne i contenuti, del quale abbiamo preparato anche una screenshot firmata digitalmente.
Non occorre molta esperienza politica per comprendere la portata potenzialmente devastante della vicenda e delle sue implicazioni. Con una certa prontezza il diplomato organizzò a pochi giorni di distanza dai fatti una piazzata davanti ad un negozietto di articoli di canapa. Il proprietario, dopo avergli dapprima fornito una prova di tolleranza ampiamente immeritata, finì col cacciarlo a schiaffi.

Il prosieguo del trafiletto gazzettiero ci informa del fatto che il diplomato avrebbe sorriso davanti all'accoglienza ricevuta, e che davanti ad una simile concezione di pacifismo preferirebbe Gheddafi.
Non sia mai che l'articolo capitasse presto o tardi in mano al suo padrone: in queste cose è bene avere cautela, missili da crociera nonostante.
Noi ci siamo limitati a cogliere l'occasione per ricordare che cosa si nasconda -e si nasconda maldestramente- dietro lo stile interattivo, solitamente improntato ad una sempiterna sufficienza ridanciana, tipico degli "occidentalisti" fiorentini.

domenica 20 marzo 2011

1911-2011. Aggrediscono di nuovo la Libia.


In questa sede, fatta salva qualche considerazione sprezzante nei confronti di qualche miserabile e bassa conventicola di mangiatori di maccheroni, non si avrebbe motivo alcuno per affrontare l'argomento "centocinquant'anni dello stato che occupa la penisola italiana".
Da un blogger di nostra conoscenza veniamo tuttavia a sapere che i sudditi di esso stato sarebbero particolarmente orgogliosi della loro condizione quando "suona l'inno" (una inascoltabile marcetta, utilissima nel campo dell'estetica musicale come punto inferiore di eventuali scale di misurazione), quando ci sono le pallonate e quando un tizio strapagato per andare forte in motocicletta arriva prima di tanti altri tizi strapagati per andare forte in motocicletta.
La situazione contingente nella penisola italiana, in cui com'è noto qualunque impegno culturale viene percepito e presentato come qualcosa di infamante salvando solo quanto possa ottenere immediata remunerazione, non permette che i compositori abbiano molti imitatori: nemmeno i compositori di marcette.
In compenso li hanno quelli delle pallonate, il cui ambiente costituisce in blocco una esemplare sentina di abiezione in cui non a caso gli spaghettifresser si trovano perfettamente a loro agio, e quelli delle motociclette.
Gli appartenenti alla seconda categoria pare godano di una certa indulgenza anche quando trasformano la loro imitazione in qualche cosa che si chiama semplicemente omicidio-suicidio: qualche incosciente თამადა che li ricorda come "ragazzi solari", resi unici ed irripetibili dal loro seguire qualche degenerata moda yankee e da abitudini più uniche che rare come il fumare sigarette, lo si trova sempre e comunque.
Ecco: lo stato i cui sudditi sono orgogliosi di riconoscersi in simili tipologie non poteva celebrare l'anniversario su ricordato se non infilandosi in una guerra di aggressione del tipo consuetamente asimmetrico, consuetamente infame e consuetamente menzognero.
L'aggredito -retrocesso via gazzetta a dittatore- è stato accolto meglio di bene per anni ed anni da tutte le diplomazie del continente. E' stato considerato ottimo cliente e fornitore anche migliore, e gli stati "occidentali" hanno finanziato per i loro fini la capillare opera di controllo e di repressione da esso esercitata sul territorio di competenza.
In considerazione di tutto questo la deliberata decisione di aggredirlo non è certo del tipo di quelle che caratterizzavano la guerra degli accordi di Westfalia e della società preindustriale, secondo i quali il nemico di oggi può essere l'amico di domani e viceversa escludendo quell'annichilimento dell'avversario che è proprio della guerra moderna. E' semplicemente un altro di quegli atti di assoluta e cristallina viltà opportunista con cui l'"occidente" congeda i servi diventati scomodi o ingombranti.
Il Colonnello al-Qadhdhāfī può a buon diritto gridare al tradimento, e farlo utilizzando nella sua propaganda tutti i cliché "occidentalisti" in materia di terrorisminsihurezzeddegràdo: armi, vocabolario, scusanti e soprattutto denaro gli sono stati forniti fino a ieri da coloro che oggi fanno finta di non avervi mai avuto a che fare. Del caso di Nicholas Sarkozy, dalla bassezza semplicemente incommentabile, abbiamo già trattato nel dettaglio.
Alle diplomazie non "occidentali" il caso in questione conferma quanto già conoscono bene ed è auspicabile che le aiuti a serrare ancora di più i ranghi. In un mondo tornato multipolare ed in cui la potenza di fuoco si scatena sempre e soltanto contro chi si auspica possa contrapporre ad essa pochi e maltenuti ferrivecchi, anche questo può rappresentare un deterrente.
Si affermava che uno stato i cui sudditi si sentono orgogliosi di simboli meno che mediocri, di palloni, pallonieri, pallonate ed altra roba inutile e pericolosa, non poteva celebrare più degnamente un anniversario che aggredendo alle spalle -ovviamente non da solo, ché di simili "imprese" si vogliono i vantaggi senza i rischi, come al solito- un altro stato sovrano.
Essi sudditi scoprono spesso di non godere altrove di molta simpatia e di molta considerazione. Un motivo deve pur esserci e non sarebbe male se qualcuno facesse almeno finta di porsi dei dubbi a riguardo: per chi avesse bisogno di un punto di partenza, c'è la recensione di "Bùcalo! - Strenna umoristica tripolina illustrata che aiuta a farsi un'idea della considerazione che lo stato che occupa la penisola italiana ha sempre avuto nei confronti della Libia. E di quali mirabili ed eroiche imprese abbiano avuto modo di compiere da quelle parti i suoi sudditi.
A lettura ultimata, il perché della poca considerazione e della poca simpatia riscosse altrove dovrebbero assumere contorni un po' più chiari; ecco in che modo, nel 1911, si giustificava la deliberata aggressione di un Impero Ottomano già agonizzante. Il vocabolo che denota nel linguaggio corrente lo stato che occupa la penisola italiana è presente nel testo originale: ce ne scusiamo con i lettori.
Da circa ottant' anni un popolo incivile teneva nella schiavitù più obbriobiosa due fertili provincie dell'Africa settentrionale. Questo popolo che ha sempre governato con la violenza, con la rapina, con il più indegno sfruttamento, ostacolava in ogni maniera il glorioso avanzare delle civiltà, infondendo nelle popolazioni soggette tutta la malvagità del suo animo abbietto.

La nostra Italia che è sempre, e lo sarà, all'avanguardia del progresso non poteva rimanere indifferente a che quelle provincie, che per la loro posizione geografica le dovevano appartenere, seguitassero a restare in quello stato di incivile abbrutimento e di infame ser- vaggio. E ricordando come queste, in tempi molto lontani, per merito dei suoi figli fossero state civili e fertili le ha con magnifico gesto strappate dalle rapaci mani dei suoi oppressori.

Questo nobile atto della nostra Italia è stato favorevolmente accolto da tutto il mondo, e se prima vi erano dei malcontenti che per falsi sentimentalismi o per volgari interessi si dimostrano contrari, di fronte agli atti briganteschi, degni di belve, che durante questa guerra i nostri nemici hanno, con voluttà sanguinaria, commessi, questi nostri avversari hanno dovuto ricredersi ed unirsi, più o meno sinceramente, alla unanime disapprovazione per i nostri nemici e agli inni per la nostra azione. All'ombra del tricolore non vi sono state ne vi saranno commesse ingiustizie né iniquità. Le terre della Tripolitania e della Cirenaica che sono state bagnate dal sangue italiano sono per noi sacre; e, con il cuore pieno di. esultanza, abbiamo rivisto il nostro glorioso eroismo rifulgere ancora una volta dimostrando luminosamente che i figli di Italia non degenerano dai loro padri che con il loro valore seppero imporgi alla meraviglia del mondo.
Su Wikipedia abbiamo trovato una raccolta di definizioni realistiche dei sudditi dello stato che occupa la penisola italiana; l'unica cosa che non comprendiamo è per quale motivo i redattori abbiano compendiato sotto la voce "pregiudizio" quelle che si presentano per lo più come definizioni obiettive e perfino generose.
Veniamo così a sapere che i sudditi dello stato che occupa la penisola italiana possono essere definiti tra le altre cose garlics (agli), Maccaroni, Los Polpettoes, Pizzagang, Spaghetti, Spaghettifresser (ed il verbo fressen è quello con cui in tedesco si indica il mangiare degli animali), Pastar, Žabar (ossia "mangiarane", in croato) Makaroniarz (polacco), Alfonso (in Lituania, un Alfonso è uno che racconta bugie — il raccontare frottole può essere espresso con l'espressione makaronų kabinti), Minghiaweisch (dall'esclamazione minchia e "weisch?", cioè capisci? in svizzero tedesco), Sentas (in Südtirol: dalla diffusa abitudine di rivolgersi al prossimo con l'espressione "senta", percepita come uno sgradito imperativo), e con la strepitosa espressione yankee mozzarellanigger o con il breve ma perentorio shitalian.

sabato 19 marzo 2011

Nicholas Sarkozy: un piazzista di armamenti capriccioso e vendicativo


Nonostante i trentadue anni di velleità gazzettiere, cui fanno compagnia i trentadue anni di operazioni tra il lobbyistico ed il denigratorio presentate come verità assolute (e terrorista chi non ci crede), nel marzo 2011 la Repubblica Islamica dell'Iran è sempre al suo posto.
Gli avvenimenti in Nord Africa, invece, hanno costretto il gazzettaio a dedicare ad altra materia lo spazio che fino a ieri dedicavano alla propaganda. Il bias mediatico che colpisce incessantemente Tehran è ancora più evidente se si considera che è letteralmente finita sotto il tappeto, per colpa di certe questioni giapponesi difficili da ignorare, la questione del diritto accampato dalla Repubblica Islamica in materia di sviluppo e ricerca nucleare per fini di pace.
Il 18 marzo 2011 si scriveva della ingombrante figura del Colonnello al-Qadhdhāfī, con il quale c'era fino a due mesi fa la fila per trattare, pagare e riscuotere. Dopo un mese di guerra civile, con al-Qadhdhāfī dato per spacciato per l'ennesima volta, l'ONU ha approvato una risoluzione che contempla la messa in atto di una no-fly zone sul territorio libico.
Si direbbe che il giornalame sia stato preso tanto alla sprovvista da tutto quello che sta succedendo da non esser riuscito a tirar fuori neanche una Neda martire, da contrapporre ai miliziani del potere. La lobby del "dissenso" libico (o tunisino, o egiziano) deve godere di appoggi e di entrature incommensurabilmente inferiori a quelli di cui godono il "dissenso" cubano od iraniano, per cui trattando della guerra civile in Libia non si possono tirar fuori troppe blogger vittimiste, ed ancora meno fanciulle di belle speranze uccise da proiettili più o meno vaganti.
Sul ruolo e sulla funzione delle fanciulle di belle speranze i vertici del politicame "occidentalista" hanno comunque le idee ben chiare. Nicholas Sarkozy ha proprio colto l'occasione per un amplissimo giro di consultazioni che sanzionasse i suoi intenti aggressivi: nulla vieta di pensare che le ore precedenti e quelle successive all'approvazione della risoluzione all'ONU non siano state trascorse da costui facendo a gara con i pari grado in materia di conquiste femminili a pagamento.
I politici "occidentalisti" della sua generazione usano una comunicazione politica ed un registro linguistico tali da far pensare che il loro modello sia il piazzista di aspirapolvere di successo, una figura a suo modo rappresentativa di quello che li entusiasmava in una AmeriKKKan way of life morta e sepolta. E' probabile che anche ripicche e vendette siano confezionate sulla stessa misura, ed è in quest'ottica che propenderemmo a considerare la presenza in guerra dei Dassault Rafale, primo armamento a raggiungere la prevista zona di operazioni in Cirenaica.
E' probabile che il piccolo Sarkozy abbia visto andare a monte chissà quando e chissà perché un affare già dato per sicuro, che gli avrebbe permesso di fregiarsi del titolo di Piazzista di Armamenti -in gara per il titolo di Veditore dell'Anno- oltre che di quello (altrettanto molesto) di Presidente della Repubblica Francese e a quello, che gli ha dato la maggior fama, di Frequentatore di Mucose Femminili di Fascia Alta.
Gli è toccato dunque distrarsi un momento dalle scenate di gelosia e dall'inveire contro la racaille, e spedire al Colonnello al-Qadhdhāfī, dimostratosi probabilmente scettico nei confronti della capacità di ammazzare ascrivibile agli armamenti francesi per i quali aveva messo la firma, un campioncino della merce rifiutata.


martedì 15 marzo 2011

17 marcio 2011. Chissà che cos'hanno da festeggiare a Casaggì Firenze.


Il diciassette marzo 2011 lo stato che occupa la penisola italiana festeggerebbe i centocinquant'anni dalla propria instaurazione.
Cosa ci sia da festeggiare non è, va da sé, dato di saperlo.
I piccoli "occidentalisti" di Casaggì Firenze hanno per l'ennesima volta dato fondo alle scorte di manifesti e di colla da parati, e dicono anche di aver distribuito il volantino che segue.
Dileggiarlo in dieci minuti, ch'è quel che abbiamo fatto, non sapremmo dire se considerarlo più un piacere o un dovere civico.
Questo scritto è uno dei più bassi mai comparsi in questa sede, ed è dovuto ad un accesso repentino di puro e semplice disprezzo per le menzogne "occidentaliste", peraltro di quarta fila e di quint'ordine, propagandate da costoro.
Nello scritto riportato ricorre più volte, per forza di cose, il nome dello stato che occupa la penisola italiana: come sempre ce ne scusiamo con i lettori.

Il 150° anniversario dell’Unità d’Italia ci riporta alla mente la grandezza del senso di appartenenza ad una Terra con millenni di storia e di tradizioni alle spalle.

Nell'immagine in alto, la storia e le tradizioni.

L’Italia profonda, fatta di miti e di simboli.

Fatta di mistificazioni e di spauracchi.

L’Italia della cultura e dell’arte, del genio e dell’avventura.

Dell'incultura e del dileggio per chiunque abbia un libro in casa. Della stoltezza e dell'avventura intesa nel senso della frequentazione di individui noti per la loro propensione alla fornicazione a pagamento.

L’Italia dell’aratro e della spada, delle legioni e del Diritto, del marmo contro la palude e del sacrificio, dell’innovazione e delle radici profonde.

Della raccomandazione e della penna d'oro, delle squadracce e del Privilegio, dello sterco dentro la palude, della furbizia, della stolidità e della mercificazione più assoluta.

L’Italia dei giovani che fanno il Risorgimento e dei briganti che non si piegano; quella che brilla nelle trincee e poi resiste e vince sul Piave, che conquista Fiume, che costruisce la rivoluzione nazionale e la giustizia sociale nel Fascismo, che si batte con un pugno di soldati contro le più imponenti armate del globo e tiene alta la bandiera dell’onore fino all’ultimo respiro.

...Del privilegio che impone tutto a tutti, dei resistenti sterminati, che mandò la propria élite a farsi macellare in una guerra inutile e demenziale, che perse tutto quello che aveva "conquistato", che costruì ingiustizie sociali forsennate ai tempi dell'autoritarismo, che si squagliò come neve al sole al rompete le righe dato dall'alto, che la bandiera dell'onore non ha mai saputo nemmeno dove fosse.

L’Italia che si divide, si scanna, ma vive e si rimette in gioco, sempre e comunque.

Che non si divide e non si scanna -tra poco ci sono le pallonate alla televisione e nessuno ha tempo da perdere in simili idiozie- che è morta da anni e rimette in gioco, sempre e comunque, la sorte altrui.

L’Italia che niente ha a che fare con le cricche e con le mafie, con le caste e coi giochi di palazzo.

Che è una cricca ed una mafia dal primo all'ultimo suddito, si regge sulle caste e quanto a giochi di palazzo potrebbe dare lezioni a chiunque.

La nostra Italia è un’avanguardia dello stile e del costume, dello spirito e del pensiero: lontana parente della decadenza che qualcuno vorrebbe imporle.

Siamo in prima persona condivisori e responsabili di uno stato di cose che da molti anni è perfino indegno di disprezzo. Siccome viviamo di menzogne, eccovene un'altra bordata.
(lo stile. Hanno lo stile, loro. Nemmeno dovessero vendere borsette costose a qualche ragazza di poca virtù).

La nostra Italia è quella del futuro, che guarda avanti senza dimenticare da dove viene, chi è e come è nata.

Quella di un futuro che è già presente, e che consiste puramente e semplicemente nell'essere avanguardia. Avanguardia di un "Occidente" in marcia verso le tenebre.

La nostra Italia non è quella del precariato, delle pizze e dei mandolini, del futuro incerto, del maledetto odio sociale, dell’assistenzialismo, della vergogna dell’8 settembre 1943, del terrorismo e degli anni di piombo, dell’aborto per tutti, dell’omologazione di mercato, della sudditanza allo straniero, della multietnica e dell’immigrazione incontrollata, del degrado, del materialismo, del pensiero debole.

...E' esattamente quella del precariato incentivato con ogni mezzo dal governo che ci facciamo vanto di sostenere, delle pizze e dei mandolini, del futuro incerto, del benedetto odio sociale senza il quale neppure esisteremmo, dell’assistenzialismo che vogliamo diretto a greppie ben precise, della vergogna dell’8 settembre 1943 costruita pezzo su pezzo da chi aveva comandato per vent'anni e che a tutt'oggi portiamo sugli scudi, del terrorismo e degli anni di piombo che non ci impediscono di accampare l'innocenza dei peggiori e più abietti figuri di quegli anni, dell’aborto per tutti -non proprio per tutti: se così fosse stato non saremmo qui a ciarlare- dell’omologazione di mercato che se non fai schifo con berrettini e straccetti da poco prezzo stile yankee di sei generazioni fa sei un terrorista passibile di eliminazione, della sudditanza allo straniero, amriki in primo luogo per tacer del resto, della multietnica [forse era "della multietnicità"] e dell’immigrazione incontrollata, del degrado (affissioni abusive incluse?), del materialismo, del pensiero debole e soprattutto venale.

La nostra Patria è ardimento e azione, è il coltello tra i denti e il sudore sulla fronte, la vita che sboccia e la Giovinezza che irrompe, lo scintillio di un sole nuovo e l’orgoglio di esserne parte.

La loro "patria", semplicemente, non è.

La nostra Italia non è un partito o una parte politica, ma è un sogno che si vive sulla pelle, un plebiscito che si rinnova ogni santo giorno, è il rullare dei tamburi e la sovranità del Popolo, la libertà di fare e la rabbia di cambiare.

Un copywriter di quarant'anni fa avrebbe sicuramente scritto di meglio.
E le radici cristiane dell'"Occidente"? Già passate di moda?

La nostra Italia è militanza quotidiana, è il dono di se stessi per qualcosa di più grande; è il mettere gli altri avanti al proprio tornaconto e il bene comune avanti a tutto.

E' vandalismo fine a se stesso, è il tempo impiegato alla meno peggio in attesa che si liberi qualche poltrona, è mettere se stessi avanti a tutti e il proprio tornaconto avanti agli altri.

La nostra Italia è quella che scrive la storia senza scuse e senza reticenze, senza censure e senza malizie.

E' quella che mistifica la storia facendo perfino a meno delle scuse -basta scotomizzare gli eventi, togliendo loro il prima ed il dopo come nel caso del cosiddetto "confine orientale"- censurando tutti ed avendo la malizia come utensile abituale.

E’ un Popolo con una coscienza, è sintesi delle differenze e premio per chi merita; è selezione, ma anche aiuto dei più deboli, identità e orgoglio.

E' un popolo, scritto rigorosamente con la minuscola, che la coscienza (ammesso che l'abbia mai avuta) l'ha utilizzata come assorbente igienico; è odio per le differenze e premio per il più furbo; è selekcjia come ad Auschwitz, soppressione dei più deboli, putrefazione identitaria e lascivia.

E’ L’Italia che dobbiamo costruire insieme, come un sogno generazionale che si materializza giorno per giorno!

Che abbiamo finalmente distrutto nell'indifferenza generale, nella materializzazione perfetta di un incubo distopico.

SU QUESTA PATRIA GIURA E FAI GIURARE AI TUOI FRATELLI
CHE SARETE SEMPRE, OVUNQUE E PRIMA DI TUTTO ITALIANI

Così vi farete, molto giustamente, ridere in faccia da mezzo mondo e sputare addosso dall'altra metà.

sabato 12 marzo 2011

Casaggì Firenze: la dura vita dei cialtroni "occidentalisti"


Com'era prevedibile e com'è stato a suo tempo previsto, dopo il congedo di quelli che sono venuti all'inizio di febbraio a passare in rassegna la servitù l'attività dei giovani "occidentalisti" di Casaggì Firenze è tornata ad una routine fatta di menzogne e di affissioni abusive. Anche perché nel giro di un mese a Firenze ci sono state manifestazioni di piazza di segno (apparentemente) opposto di una tale portata da sotterrare letteralmente la passeggiatina "occidentalista", pur se onorata -per così dire- dalla presenza del più incolore ed inutile "ministro" di cui il mondo contemporaneo abbia avuto contezza, e dei suoi lacché fiorentini.
Come se non bastasse è arrivato un tizio che si chiama Massimo Mattei, il famoso islamofobo tascabile già noto ai nostri lettori, che prima si è divertito un po' a spese del più noto referente istituzionale di quei mangiatori di spaghetti, e poi dev'essere passato all'azione.
Le affissioni abusive sono da molti anni una costante della pratica politica "occidentalista" insieme alla propaganda passata agli uffici stampa (insihurezzeddegràdo, e poco altro). Stante la sostanziale irrilevanza di quanto proposto, nessuno si interessa di un fenomeno il cui ricorrere da anni nelle medesime aree ricorda da vicino il comportamento del canis lupus familiaris: non occorre un baccellierato in etologia per sapere che i cani depongono i propri escrementi soltanto laddove non si sentono minacciati.
Il 12 marzo 2011 abbiamo notato che molte di queste aree, ivi compresa quella costituita dalle pareti perimetrali del Liceo Carcere Michelangiolo cui a riferimento la foto, erano state tappezzate con carta bianca, secondo l'uso delle amministrazioni comunali della penisola intente a lottare contro questo tipo di pratica, che reimpiegano in questo modo i vecchi materiali.
Intanto, la propaganda "occidentalista" ha prudentemente ridotto le stime del numero di copie in cui diffonde le proprie menzogne, passando da un roboante cinquantamila ad un più realistico mille in meno di un mese. La strada per la sparizione a volte è più breve di quanto uno si immagini: lo stato che occupa la penisola italiana dispone di una pubblica amministrazione, rappresentata sul web.
Ed uno di questi siti ci ricorda proprio che
"...gli oneri derivanti dalla rimozione dei manifesti affissi in violazione delle disposizioni vigenti sono a carico dei soggetti per conto dei quali gli stessi sono stati affissi, salvo prova contraria"

e che
"La Finanziaria 2007 [...] ha addirittura disposto che d’ora in poi chi violerà la legge oltre al pagamento delle sanzioni dovrà farsi carico anche delle spese della defissione [...]"

Ce n'è di che far mangiare molti meno maccheroni ad una vasta rappresentativa di cialtroni...

mercoledì 9 marzo 2011

Sì ad una moschea a Firenze. In pieno centro e con denaro pubblico


Il mainstream gazzettiero del 9 marzo 2011 rispolvera, in mancanza di meglio, il tema dell'erigenda moschea. Che a nostro avviso non è materia nemmeno da gazzette perché va costruita e basta.
In pieno centro, con criteri che la rendano degni della città che la ospita (che servirono da linea guida per la costruzione della sinagoga di via Farini) e, secondo nostro auspicio, con denaro pubblico esplicitamente distolto dalle spese militari e da quelle per la sihurézza e la lottaiddegràdo. O dal gettone di presenza di qualche "occidentalista" da poltrona.
Specifichiamo ancora una volta che a nostro avviso la miglior posizione sarebbe quella di piazza Ghiberti, liberata -possibilmente in modo spettacolare- del tetro palazzo presente sul lato est, che ospita una gazzettina della quale saremo in molti a non sentire la mancanza.
Nel corso degli anni abbiamo affrontato il tema più volte, di solito dileggiando qualche comunicato stampa "occidentalista". Si espone qui una parziale rassegna delle occasioni in cui il tema è stato trattato.

Moschea a Firenze. Mario Razzanelli (Lega Nord Toscana): "E' necessario riflettere prima di costruirla". Già riflettuto anche troppo: per un'interessante luce sul valore e sullo spessore culturale degli islamofobi con le còtiche a cui l'imperante "democratismo" concede una visibilità semplicemente insultante, si legga il lungo Quando Hezbollah dichiarò guerra alla Basilicata.

Moschea a Firenze: un sì deciso ad una costruzione centrale e prestigiosa. Si esprime qui il nostro parere sulle proposte avanzate a questo proposito.

Massimo Pieri, Alberto Locchi e la moschea a Firenze. Una delle molte confutazioni possibili ad un comunicato stampa "occidentalista": ci si prendono la libertà ed il piacere di additare a chi legge la nessuna competenza in materia dei suoi sottoscrittori.

Emanuele Roselli e la moschea a Firenze. Altro esempio in cui cialtroneria e malafede si uniscono alla nulla competenza sul tema, in una miscela esplosiva in qualsiasi campo non sia quello del politicame "occidentalista", in cui si rivela invece apportatrice di suffragi.

Per una moschea a Firenze: lo stile della moschea Behram paşa (Diyarbakir, Curdistan). Le nostre proposte in materia di stile architettonico. L'impressione è che siano state, almeno in qualche misura, recepite.

Sì alla moschea a Firenze. Coi minareti. E in pieno centro. A fine 2008 Izzedine Elsir si limitò a constatare che il fondo di Borgo Allegri non era più sufficiente alle necessità dei credenti...

sabato 5 marzo 2011

Sepp Kerschbaumer, combattente cattolico



Il combattente per la libertà del Tirolo
Sepp Kerschbaumer
nato a Frangart il 9 Novembre 1913
travolto dalla sofferenza
per il giogo della dominazione politica
sulla terra e sul popolo
della nostra patria sudtirolese
morì il 7 Dicembre 1964
nel carcere di Verona.

La lega patriottica sudtirolese

[Lapide a Frangart]


Sepp Kerschbaumer nacque nel 1913 a Frangart, oggi frazione di Eppan an der Weinstraße, il 9 novembre 1913.
Il padre Josef rimase ucciso in guerra nel 1917; la madre Luise lo lasciò orfano a nove anni.
Ricevette la sua educazione dapprima al Rainerum, l'istituto salesiano di Bozen, poi presso l'abbazia di Neustift ed infine, dopo aver assunto la gestione del negozio di famiglia, riuscì a concludere la scuola di preparazione alla professione di commerciante nel 1927 a Brixen. Nel 1933 prestò servizio militare per lo stato che occupa la penisola italiana, che lo ringraziò confinandolo l'anno successivo e per i due anni a seguire nei pressi di Potenza, insieme ad una cinquantina di altri sudtirolesi.
Un condono gli permise di tornare a Frangart nel 1935.
Nel 1936 si sposò con Maria Spitaler: dal matrimonio nacquero sei figli, l'ultimo dei quali nel 1957.
Quando le Südtiroler Umsiedlung misero i sudtirolesi davanti alla scelta tra la prospettiva dell'assimilazione forzata e l'emigrazione, Kerschbaumer scelse quest'ultima, come gran parte dei sudtirolesi di lingua tedesca. Come gran parte dei sudtirolesi di lingua tedesca, fece ritorno già durante la guerra, dopo aver compreso che dal Reich non c'era da aspettarsi grandi aiuti; i due anni dell'annessione tedesca del Südtirol li trascorse da richiamato nel Polizeiregiment Bozen.
La tendenza comune nella penisola italiana è a tutt'oggi quella di accomunare tout court a nazionalsocialisti gli attivisti ed i combattenti sudtirolesi; l'aver militato nella Wehrmacht, sia pure da richiamati tra anziani riservisti, è uno dei fatti portati comunemente a prova di questa conclusione. Come si vedrà la biografia di Kerschbaumer presenta numerosi dati di fatto, a cominciare dalla sua indiscussa professione di fede per finire al suo reciso rifiuto di spargere sangue, che non rendono la sua pratica politica compatibile con un'ideologia fondata sulla superiorità razziale e sull'eliminazione fisica di ogni avversario.
A Frangart si iscrisse nel dopoguerra alla Südtiroler Volkspartei (SVP) ed iniziò a darsi alla politica tanto attivamente da considerare questa attività secondaria soltanto al lavoro. Sembra che il poco tempo che gli rimaneva per la famiglia e la sua estrema generosità con quanti si trovavano in condizioni di bisogno siano a volte stati motivo di contrasti con la moglie.
Per tutta la vita Sepp Kerschbaumer si comportò da cattolico osservante. Ogni mattina alle cinque si recava ad una funzione religiosa a Bozen e durante la detenzione recitò spessissimo il rosario. Di abitudini spartane e severo anche con se stesso, trasformò la propria autodisciplina e la propria morigeratezza (non beveva alcool) in armi di lotta, quando cominciò a sostenere le proprie richieste politiche con lo sciopero della fame.
All'inizio degli anni '50, stanco delle posizioni concilianti assunte dal partito, Kerschbaumer iniziò dunque a concepire quello che sarebbe diventato il Befreiungsausschuss Südtirol (BAS), il Comitato per la Liberazione del Südtirol, di cui fu cofondatore nel 1956.
Nel 1957 Giuseppe Togni, all'epoca ministro dei lavori pubblici per lo stato che occupa la penisola italiana, avvertì per telegramma il borgomastro di Bozen che in città sarebbe sorto un nuovo quartiere da cinquemila persone.
La notizia fu accolta da imponenti manifestazioni popolari che culminarono in quella del 17 novembre 1957 a Schloss Sigmundskron cui parteciparono trentamila persone. In quell'occasione Silvius Magnago coniò lo slogan los von Trient, che sostituì un los von Rom allora in uso. In quell'occasione Kerschbaumer distribuì volantini che inneggiavano alla libertà del Südtirol; sempre a differenza di quanto correntemente ritenuto, in quegli anni il BAS identificava i propri nemici nelle istituzioni, e non nei sudditi dello stato che occupa la penisola italiana. A Bozen fu organizzata una contromanifestazione, durante la quale furono lanciati slogan che paragonavano i sudtirolesi ai maiali: passano i decenni ma lo stile della comunicazione politica "occidentalista" resta inconfondibile e riesce in ogni occasione a non smentire se stesso.
Le azioni del BAS furono dapprincipio del tutto incruente. Kerschbaumer appendeva drappi con il rosso ed il bianco della bandiera sudtirolese a piloni della luce ed altri arredi urbani: una volta fu sorpreso e punito con dieci giorni di carcere. Reagì con il primo sciopero della fame. Non era giusto che ai comunisti venisse permesso di esporre ovunque le loro bandiere, e che questo fosse vietato ai sudtirolesi.
Un'altra occasione in cui Sepp Kerschbaumer si adoperò molto per la causa fu quella del processo di Pfunderer, nel 1958; la notte di ferragosto del 1956 un gruppo di giovani sudtirolesi era venuto a diverbio con due gendarmi, ne era nata una rissa ed uno dei gendarmi era stato poi trovato morto nel letto di un torrente. Otto accusati ricevettero dapprincipio pene pesantissime in un procedimento talmente irto di vizi procedurali e di forma (ai sudtirolesi fu tra l'altro negato il permesso di servirsi di un interprete giurato) che nel 1960 fu la Repubblica Federale Austriaca a portare il caso alla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, che dichiarò il ricorso parzialmente ricevibile; nell'ultimo grado del processo le pene per i condannati furono sensibilmente ridotte.
Le celebrazioni per Andreas Hofer del 1959 si tennero in un'atmosfera resa pesante dal divieto di manifestare. A Bozen avrebbe dovuto svolgersi l'inaugurazione di un monumento al combattente tirolese Peter Mayr, che dietro il duomo di Bozen era stato fucilato nel 1810. Un carosello delle jeep inviate dalla gendarmeria causò un ferito.
Tra il 1959 ed il 1960 Sepp Kerschbaumer giunse per gradi alla conclusione che i giri di conferenze e le azioni di propaganda avevano portato a risultati molto deludenti: la politica dello stato che oltre ad occupare la penisola italiana occupava anche il Südtirol non ne aveva subìto alcuna influenza. Lo spirito comunitario del BAS ed i contatti con ambienti austriaci resero possibile far arrivare in Südtirol dalle tre alle quattro tonnellate di esplosivo, ma con l'alzarsi del livello dello scontro si acuirono anche le tensioni interne al BAS e quelle con i simpatizzanti austriaci di recente acquisizione. Sepp Kerschbaumer, il suo rifiuto ad uccidere e la sua idea di una guerriglia fondata su atti dimostrativi entrarono in aperta collisione con quanti, come il tirolese austriaco Wolfgang Pfaundler, avevano idee ben più recise su come alzare il livello dello scontro. Almeno fino al suo arresto, avvenuto dopo la "notte dei fuochi" del 1961, fu comunque la linea di Kerschbaumer a prevalere.
E proprio secondo la linea di Kerschbaumer nel 1961 furono compiuti vari gesti dimostrativi, sui quali vigeva il tassativo ordine di evitare vittime. Il monumento al Genio del Fascismo di Waidbruck salta in aria, e fino all'estate altre azioni simili contro i simboli di quella che viene considerati a tutti gli effetti un'autorità di occupazione avvengono a Tramin, Schlanders e Marling. Il 1º febbraio una carica ad alto potenziale danneggia gravemente la casa di Ettore Tolomei a Montan; l'obiettivo simbolico è di particolare rilevanza perché Tolomei, scomparso nel 1952, era stato tra le altre cose l'ideatore della toponomastica attraverso la quale passava la divorante operazione di alienazione culturale inscenata dagli occupanti.
La gendarmeria risponde con perquisizioni e qualche arresto.
Con la Feuernacht del dodici giugno gli atti dimostrativi del BAS toccano il loro punto più alto, con la mobilitazione di decine e decine di attivisti. Più di trenta piloni dell'alta tensione vengono fatti saltare con il plastico nel tentativo di interrompere la fornitura di corrente elettrica alla città di Bozen, percepita come il centro di irradiazione delle politiche colonialiste dell'occupante, e soprattutto alla sua zona industriale.
La data non è casuale: quell'anno era la ricorrenza della festa, particolarmente sentita dai patrioti sudtirolesi, del Sacro Cuore di Gesù. Una ricorrenza che prevede l'accensione di fuochi veri e propri su crinali e vette, in ricordo di quanto fatto nel 1796 dai combattenti antinapoleonici di Hofer, che le autorità occupanti avevano vietato negli anni Trenta.
Il tentativo non riesce, complice anche la poca dimestichezza con il plastico della maggior parte di quella che era gente umile e per nulla intenzionata a spargere sangue; il morto finì per esserci comunque, nella persona dell'anziano cantoniere Giovanni Postal, che morì tentando di disinnescare uno degli ordigni.
Un mese dopo, nella Kleine Feuernacht saltano altri otto tralicci.
La gendarmeria mette le mani su un certo Steiner, nella cui automobile vengono trovati esplosivi, ed attraverso di lui arriva ad arrestare anche Kerschbaumer insieme a decine di altri attivisti.
Nella caserma di Eppan, Sepp Kerschbaumer trascorse sedici ore consecutive immobile con le mani alzate.
In carcere in attesa di processo, trascorreva la giornata pregando. Per i compagni Höfler e Gostner, morti in stato di detenzione in circostanze tutt'altro che chiare nel breve arco di due mesi (almeno Gostner gli avrebbe confidato di persona di pesanti maltrattamenti subiti) arrivò a recitare otto corone di rosario in una sola giornata.
I tre anni di detenzione preventiva li trascorse prima a Verona, poi a Venezia, poi ancora a Verona, lavorando fino al giorno in cui perse quattro dita di una mano sotto un torchio. Sopportò l'incidente con la fede che gli era propria.
Nella ricorrenza del Sacro Cuore del 1962 appese all'inferriata della propria cella un fazzoletto bianco ed uno rosso, cosa che il quotidiano "Alto Adige" non mancò di rimarcare.
Finalmente il processo fu fissato e celebrato a Milano a partire dall'estate del 1964, e riguardò oltre novanta imputati, sessantotto dei quali sudtirolesi. Kerschbaumer, cui vennero anche meno alcuni testimoni a difesa, ammise ogni addebito ed affermò di aver agito per motivi politici: "Wir wollten die Landesautonomie".
Nel luglio 1964 in primo grado otto imputati ricevettero condanne superiori ai quindici anni. Le motivazioni della sentenza furono pubblicate a novembre.
Sepp Kerschbaumer, per il quale ne erano stati chiesti ventiquattro per attentato alla Costituzione, cospirazione politica e distruzione di edifici, fu condannato a quindici anni ed undici mesi.
La sua vicenda processuale si chiuse qui. Il 7 o l'8 dicembre 1964 Sepp Kerschbaumer morì di attacco cardiaco nel carcere di Verona. Aveva cinquantun anni e la sua morte sollevò ovviamente più di un dubbio, anche perché in molte lettere aveva tentato di denunciare il durissimo trattamento riservato ai prigionieri sudtirolesi. L'autopsia eseguita da un medico sudtirolese confermò l'effettiva presenza di problemi cardiaci.
I suoi funerali furono seguiti a Frangart da migliaia di persone.
Con Sepp in stato di detenzione, e più che mai dopo la sua morte, il movimento che aveva contribuito a fondare smise di attaccare i simboli ed iniziò ad uccidere persone, adottando una pratica politica con cui secondo ogni evidenza Kerschbaumer non volle avere, in tutta la sua vita di militante, nulla a che fare.
Ancora quarant'anni dopo un annuncio pubblicato sul "Dolomiten" invitava i sudtirolesi ad una funzione religiosa in memoria di Kerschbaumer e dei caduti per la libertà e l'autodeterminazione del loro paese.

"Non è sufficiente avere una bandiera; c'è bisogno di uomini che se ne rivestano.
Non è sufficiente conoscere la verità: c'è bisogno di uomini che la proclamino.
Non bastano libertà che si librino nel cielo; c'è bisogno di uomini che le afferrino, e le portino quaggiù".


Fonti utilizzate:
http://www.etika.com/022/22kers03.htm
http://www.grueneverdi.bz.it/mikrosites/riccardo-dello-sbarba/artikel-und-beitraege/chi-ringraziano-gli-schuetzen.html
http://it.wikipedia.org/wiki/Sepp_Kerschbaumer